Il canto IX dell’Inferno [Michele Dell’Aquila]

Dati bibliografici

Autore: Michele Dell'Aquila

Tratto da: Italianistica: Rivista di letteratura italiana

Numero: 18

Anno: 1989

Pagine: 291-304

[Lettura tenuta alla Casa di Dante in Roma il 5 febbraio 1989]

Leggo e torno a leggere il primo verso di questo IX canto dell’Inferno («Quel color che viltà di fuor mi pinse»), e trovo che forse non è casuale ch’esso s'annunci con la parola viltà ben al centro dell’endecasillabo, in posizione enfatica, quasi prima frase musicale in ouverture di sonata, ad enunciarne l'andamento e quasi il leitmotiv.
Nulla è casuale nella poesia, sappiamo bene. Men che mai in quella di Dante, i cui riscontri e richiami resistono alla prova di posteri accaniti e talvolta spietati.
Ma l’organicità e consequenzialità devono essere ricercate più sul piano fantastico/evocativo, che non su quello razional/sillogistico, che negherebbe la poesia; la quale, anche nel poema didascalico medioevale s’affida a suoi spazi inventivi, a sequenze e suggestioni figurali, ad una grammatica e ad una sintassi di prevalente funzione «fantastica», che ha forza per commuovere e coinvolgere assai più che per convincere.
L'episodio della resistenza dei diavoli per impedire l’accesso alla città di Dite ha inizio, com'è noto, nell’ultima parte del canto VIII, che già al verso 82 descrive l’affollarsi di quegli spiriti maligni dinanzi alle porte per una resistenza che sgomenta il pellegrino/poeta: «Io vidi più di mille in su le porte / da ciel piovuti...». E si conclude ben prima della fine del canto IX, la cui ultima parte, dopo l’intervento del Messo celeste, è occupata dalla descrizione del luogo: «Dentro li ’ntrammo sanz’alcuna guerra, / e io, ch’avea di riguardar disio / la condizion che tal fortezza serra, / com’io fui dentro, l’occhio interno invio; / e veggio ad ogne man grande campagna / piena di duolo...» (Inf. IX, 106-111), collegandosi con l’episodio successivo degli eresiarche e di Farinata, di cui costituisce il prologo.
Non v'è dunque coincidenza tra l’unità dell'episodio e l’unità del canto, come d’altra parte è abbastanza frequente nella Commedia almeno da questo canto in poi, quasi il poeta in una ricerca di variazione dispositiva, volesse affidarsi in qualche caso a dei riporti, quasi per embricare, un episodio all’altro, un canto al successivo, come s'è detto facendo ricorso, per definire un procedimento della narratologia, ad una espressione della scienza delle costruzioni .
E tuttavia nella scansione della cantica in canti (l’intero episodio risulta di 48 + 105 = 153 versi, poco più della lunghezza media dei canti dell’Inferno, che è di 138), il primo verso d’ogni canto ha pure la sua enfasi d’incipit enunciativo, e quella parola al centro dell’endecasillabo mi sembra di non poco rilievo: «Quel color che viltà di fuor mi pinse».
La memoria corre subito ad altro episodio non lontano del poema, che costituisce in qualche modo un precorrimento di questo e quasi una prima prova, sia pure ad un livello di minor panico. Intendo la lunga disquisizione sul dubbio di Dante nel momento di avventurarsi per quel viaggio infernale, superato appena l’assalto delle tre belve per l’apparizione salvifica di Virgilio. A lui non aveva esitato ad affidarsi per scampare da quel pericolo: «Poeta io ti richieggio... / che tu mi meno là dov'or dicesti, / sì ch'io veggia la porta di San Pietro...» etc. (Inf., I, 130-134).
Senonché, ad animo più rinfrancato, i dubbi si affacciano alla mente e mettono in forse quel proposito, che anzi gli appare periglioso e di insicura riuscita. Tutto il canto II del poema svolge questo tema dello sgomento, del dubbio, dell’indecisione sotto l'impulso della paura. Ed anche qui, al termine del tortuoso discorso del poeta inteso ad accampare giustificazioni credibili e quasi ragionevoli alla sua paura, la risposta di Virgilio rotola avanti come un macigno quella stessa parola: «l’anima tua è da viltade offesa» (Inf., II, 45); ed ancora, nella esortazione ad agire, «perché tanta viltà nel cuore alletta?» (Inf. II, 122).
Viltà, dunque: che è poi la condizione dell’anima priva di fiducia, incapace d’affidarsi ad un forte intendimento, o almeno ad un aiuto che potrebbe salvarla; aiuto che necessita esso stesso, per essere possibile e fecondo, di un grande atto di coraggio che può essere prodotto solo dalla fede.
In fondo, a guardar bene nella minuziosa partitura di questo avvio del poema, nella commedia dell’anima che smarrita nella selva oscura trova sollievo nella vista del colle illuminato dal sole, ma assalita dalle tre belve, precipiterebbe nuovamente nella bassura, se non intervenisse l’ombra di Virgilio a proporle un insolito e certamente rischioso viaggio di salvezza; fino poi a questa ripresa di pericolo e d’insidia, con i demoni che fanno resistenza dinanzi alla città di Dite, contrapponendosi allo stesso Virgilio che cerca in ogni modo di apparir fiducioso in un intervento divino — si può riconoscere un processo di rassicuramento che ha per protagonista la ragione, la ragione retta e non tortuosa né giustificativa, la quale peraltro denuncia i suoi limiti, oltre i quali solo una forza interiore istintiva e fiduciosa può far scattare i congegni altrimenti bloccati della soluzione felice.
Il problema della securitas, peraltro, non è solo di Dante pellegrino in un mondo di morti; ché, anzi, egli nel suo dramma rispecchia e ripropone simbolicamente il dramma grande dell’uomo insidiato da sempre da una insecuritas esistenziale che ne pone in forse ogni pensiero e sentimento ed azione, riducendolo in uno stato d’angoscia ch’è poi il travaglio vero, il vero inferno dell’esistenza.
In tanta precarietà fragile ed ansiosa, il miraggio felice, e nello stesso tempo il ricordo edenico, di difficile o impossibile raggiungimento, è costituito dalla securitas: una sicurezza, senz’affanno, che come individui perdiamo staccandoci dal ventre materno e ne cerchiamo il sostituto in mille altri rifugi o illusioni consolatrici; come umanità, respinti da una felice condizione di natura, cacciati da un paradiso «perduto», ne ricerchiamo ansiosamente gli effetti nell’affidamento alla religione, alla filosofia, alla scienza.
Nell’elogio di Epicuro contenuto nel De Rerum natura, Lucrezio proprio questo aspetto di rassicurazione mette innanzi: «Nam simul ac ratio tua coepit vociferari / naturam rerum divina mente coorta / diffugiunt animi terrores, moenia mundi / discedunt, totum video per inane geri res...» (De Rerum Natura, III, 14-17).
A ripercorrere la storia di ognuno di noi e di tutti insieme, essa appare dominata da questa preoccupata ricerca, ed ognuno dei referenti indicati potrebbe facilmente sfrangiarsi nei tanti livelli o gradi d’incidenza storica: l'antropologo potrebbe operare distinzioni nel campo dei culti e delle culture; il filosofo in quello del pensiero che s’interroga per scoprire le leggi dell’essere e le coordinate entro cui esso si svolge, nella ricerca di «una formula che il mondo possa aprirti», come diceva Montale; lo scienziato negli infiniti campi d’indagine, dalla medicina alla psicologia, alla psicanalisi, dalla fisica alla chimica, sempre nella ricerca di una spiegazione e di un segreto; resterebbero da citare, insieme a tanti altri livelli, almeno quelli dell’astronomia, dell’astrologia, della magia: quanto dire il mondo misterioso che influisce su di noi e sul quale, non avendo potere, ci si sforza di avere potere. Insomma un bel guazzabuglio.
Ma chi in questo mondo, negli attriti aspri della storia grande ed in quelli non meno corrosivi della cronaca quotidiana, può dirsi sicuro? Di Napoleone, generale invitto ed imperatore glorioso, Manzoni dice proprio così: «di quel securo il fulmine / tenea dietro al baleno» / cinque maggio vv. 27-28). L’invincibilità, finché durò, gli veniva forse proprio da quella sicurezza, da quella illimitata fiducia in se stesso e negli affidamenti del destino. Quando tutto ciò ebbe fine, ci viene raffigurato in Sant'Elena oppresso dall’«onda delle memorie», fino alla disperazione, nello straziato ripercorrimento degli eventi per cercare dove fosse stato il guasto, dove l’inceppo del destino. Una risoluzione di quelle pene poteva venirgli solo dalla morte, ma prima, da un atto di fede, umile e rassegnato dopo tanta eroica protervia.
Manzoni era anch’egli un poeta cattolico, sebbene di un cattolicesimo inquieto, non privo di interiori tensioni: quell’esito fiducioso, («ma valida / venne una man dal cielo / e in più spirabil aere / pietosa il trasportò; / e l’avviò, per floridi / sentier della speranza, ai campi eterni...» etc. // cinque maggio, vv. 87-92), comune a molti altri suoi eroi morenti, sta a mezzo appunto tra affermazione e speranza.
Montale, che era di cultura laica e razionalista, e che dell’insicurezza fa la connotazione di fondo dell’uomo costretto a vivere nell’universo come un pesce che non sa se è dentro o fuori la rete, ha un verso di straordinaria forza ottattiva; ed anche in quello troviamo luminoso come un miraggio, lo stesso aggettivo manzoniano: «Ah l’uomo che se ne va sicuro, / agli altri ed a se stesso amico, / e l’ombra sua non cura che la canicola / stampa sopra uno scalcinato muro!» (Ossi di seppia, 1).
In Dante però questo dramma va riportato entro il reticolo etico-religioso della sua cultura e della intentio; ma ciò non vuol dire che non vi si colgano anche piani di riferimento più larghi o altri, com'è agevole vedere nella intrecciata trama di una ambiziosa allegoria.
Nell’episodio del II canto, Dante accampa ragioni di elusione e d’incertezza. Dopo un inizio solenne, in cui chiama a raccolta le Muse, la mente e l’alto ingegno, viene avanti con un discorso tortuoso ma dall’apparenza «honesto» come sogliono essere i più bei discorsi atti a persuadere e a persuaderci. Chiede di considerare la sua virtù, «s’ell’è possente»; chiama in campo Enea ed accenna alla sua discesa agli Inferi, attribuendone, peraltro, la veridicità allo stesso Virgilio, quasi a prenderne le distanze («Tu dici che di Silvio il parente», etc., Inf., II, 13); si serve di giri di parole e di costrutti aggrovigliati («Però se l'avversario d’ogni male / cortese i fu, pensando l’alto effetto / ch’uscir dovea di lui e ’l chi e ’l quale...» etc.»; «la quale e ’l quale, a voler dir lo vero», etc.; «me degno a ciò né io né altri crede» ivi, 16-18), che costituiscono il rispecchiamento espressivo dei contorcimenti giustificativi della sua incertezza, come si può rilevare dalla persistenza di tali grovigli anche nella similitudine esplicativa che segue: «E qual è quei che disvuol ciò che volle / e per nuovi pensier cangia proposta, / sì che dal cominciar tutto si tolle, / tal mi fec’io in quella oscura costa, / perché, pensando, consumai la ’mpresa / che fu nel cominciar cotanto tosta» (ivi, vv. 37-42).
La risposta di Virgilio, dopo la forte denuncia della viltade «la qual molte fiate l’omo ingombra / sì che d’onrata impresa lo rivolve» (ivi, 46-47), è tutta intesa a rassicurare da quei timori. Lo fa come può fare la ragione umana illuminata dalla fede: dopo una raccomandazione sapienziale («Temer si dee di sole quelle cose / c'hanno potenza di fare altrui male, / dell’altre no, chè non son paurose», ivi, 88-90), racconta dell’intervento delle tre donne del cielo («Donna è gentil nel ciel che si compiange / di questo ’mpedimento... / sì che duro giudicio là su frange», ivi, 94-96); fino a piegare ogni resistenza e vincere ogni dubbio; sì che la stanca virtù del poeta, rianimata come i fioretti alle arie vivide del giorno, non ritorna nella prima decisione e s’avvia ad affrontare i perigli del viaggio: «Or va, ch’un sol volere è d’ambedue: / tu duca, tu segnore, e tu maestro...» (ivi, 139-140).
La retta ragione aveva dunque vinto quella prima battaglia, sgominando i capziosi ragionamenti nutriti da «viltà di cor»: ciò le era stato possibile, peraltro, evocando un intervento divino, ed a quello rimandando in fede, per assicurare dalla paralisi del dubbio.
Nell'episodio della città di Dite, invece, quasi in una progressione d’intensità corrispondente all’avanzamento nel regno delle tenebre e del peccato, la situazione è tale da configurare l’imminenza di una totale sconfitta, e non tanto per una crisi di dubbio o d’insicurezza psicologica, quanto di vero e proprio panico.
Naturalmente la presenza diabolica nella figurazione iconica tradizionale è solo accentuazione figurale, anche se non trascurabile, di uno stato di terrore dell’anima in cospetto dell’irosa e minacciosa opposizione infernale.
Gli elementi figurativi abbondano nell’episodio e sono accortamente disposti dal poeta a produrre un'atmosfera di attesa preoccupata, come per un pericolo ancora oscuro ma imminente e terribile. L’attraversamento della palude stigia sulla barca di Flegiàs, l'alta torre di una città ancora indistinta, con misteriosi segnali di fuoco che sembrano d’allarme, ed allarme producono istintivamente nel cuore del pellegrino («Questo che dice? e che risponde / quell’altro foco? e chi son quei che ’l fanno?», Inf., VIII, 8-9); l’annunzio della città di Dite, «coi gravi cittadini, col grande stuolo» (ivi, 69); e subito la sua vista sinistra ed infuocata, come in una ferruginosa acquaforte, nelle forme della città straniera, che richiama quali probabili modelli ispirativi i resoconti dei cronisti e viaggiatori in partibus infidelium: «già le sue meschite / là entro certe nella valle cerno, / vermiglie come se di foco uscite» (ivi, 70-72) .
È stato notato, dal Vallone e da altri, come tutto il linguaggio descrittivo dei luoghi e dell’azione abbia una sua voluta durezza militaresca, che ben s’accompagna con la pervicacia diabolica e con quella loro ostinazione a dar battaglia, ancorché senza speranza. E militaresca è l’azione di sfondamento e penetrazione, già preannunciata da Virgilio («Pur a noi converrà vincer la punga», Inf., IX, 7, «non potemo intrare ormai sanz’ira», 34;) e posta in essere dal Messo celeste («un fracasso d’un suon... / non altrimenti fatto che d’un vento...», etc., 65-69) .
Se contro l’ostinazione diabolica, o diabolico/eretica, essa si rivolge, non può esser sottaciuto il riferimento altrettanto militaresco contenuto in un luogo di Par., XII, 98-102, quando si dice di San Domenico che «si mosse / quasi torrente ch’alta vena preme; / e nelli sterpi eretici percosse / l’impeto suo, più vivamente quivi / dove le resistenze eran più grosse».
Ma la situazione precipita alla vista della presenza diabolica moltiplicata nel numero che s’accresce a dismisura pel terrore: «Io vidi più di mille in su le porte / da ciel piovuti...» (Inf., VIII, 82).
In fondo i due poeti non erano al primo incontro con quei demoni guardiani e aguzzini dell’aldilà. Caronte e Minosse, Cerbero e Pluto e Flegiàs avevano la stessa funzione e la loro resistenza s'era manifestata sempre in nome di un divieto che essi rigorosamente si sforzavano di far rispettare. Né il fatto che fossero ripresi dalla antica mitologia addolciva il loro aspetto che s’accresceva nell’orrore pel sovrapporsi di attributi infernali. Caronte sembra uscire dalla tenebra con voce di minaccia e d’ira; Minosse con la sua coda enorme siede a giudizio «orribilmente e ringhia»; Cerbero è fiera crudele e diversa», «con tre gole caninamente latra... / graffia li spiriti, iscoia ed isquatra» (Inf., 13-18); Pluto li accoglie con una minacciosa quanto misteriosa espressione di meraviglia; Flegiàs quasi s’avventa su di loro gridando «Or se’ giunta anima fella» (Inf., VII, 18). Dante ne è sempre impaurito, ma non fino alla soglia del panico. La forte risposta di Virgilio in ogni caso lo rassicura, ed essa funziona quasi un talismano o una parola d’ordine per sgominare ogni resistenza.
Ma qui, dinanzi alla città di Dite, si prepara ben altro; e a questo non s’addicevano fantasmi evocati da antiche e screditate mitologie; ma essi, proprio essi, nella loro pittoresca e popolare immagine di terrore e di orrore, i diavoli caudati e cornuti, i neri serafini protervi e imbestiati dopo che su loro s'è rivolta l’ira di Dio. La città di Dite racchiude l’inferno più vero, con i suoi peccati di malizia, distinti per violenza e per frode, e s’annuncia con il cerchio degli eretici. Eresia e malizia, dunque, mostri d’inferno che han potere sulle anime e ne mettono in forse la volontà; mostri che conoscono gli approcci tortuosi dell’inganno e del raggiro, ma anche della violenza e della sopraffazione che non lascia scampo. Cosa può mai contro di essi la ragione se non ha altri sostegni?
Virgilio sembra ben intendere la difficoltà nel chiedere «di voler lor parlar secretamente». Perché questo appartarsi? La domanda, che come tante altre possibili, ha tutta una sua letteratura; la lasciamo ai dantisti. Tra le tante, è stata avanzata l’ipotesi, non so con quanta verisimiglianza, di una ricerca di discorso «secondo ragione», che tenga da parte gl’istinti oscuri della paura, e quindi Dante che ne è dominato.
Non sembra neppure che possa valere in assoluto l’argomento di Dante vivo, causa d’ira per il divieto infranto o preda agognata e oggetto d’insidia di quei demoni, e Virgilio ombra già di quel regno, ancorché del Limbo, invulnerabile ormai alla minaccia diabolica; ché nonostante certo andamento del discorso dei diavoli («Chi è costui», etc.; «Vien tu solo, e quei sen vada, / che si ardito intrò per questo regno, «Inf., VIII, 89-90 etc.) che sembra rivolgere minacce solo a Dante vivo, in realtà l’ira diabolica è rivolta ad entrambi: verso Dante, più minacciosamente (Sol si ritorni... / pruovi se sa...», ivi, 91-92, etc.); ma anche verso Virgilio che ha la responsabilità del fatto: «ché tu qui rimarrai / che li ha’ iscorta sì buia contrada» (ivi, 92-93).
Quelle minacce producono l’effetto di un panico improvviso e irragionevole («ché non credetti ritornarci mai», ivi, 96). L’invocazione a Virgilio perché non lo abbandoni, contiene il ricordo di altri momenti di periglio e della sicurezza che pure quegli era riuscito a infondergli («che più di sette / volte m'hai sicurtà renduta...», ivi 97-98), ed un subitaneo istintivo, neppur avvilito proposito di abbandono («ritroviam l’orme nostre insieme ratto», ivi, 102).
Il tentativo di rassicuramento di Virgilio questa volta è più dilatorio e registra effetti quasi fallimentari. C'è, è vero, il riferimento fideistico al fatto che «’l nostro passo / non ci può torre alcun: da tal n’è dato» (ivi, 104-105); ma, a differenza che negli altri incontri, questa volta quell’affermazione si rivolge a Dante, per dargli conforto, non già alla parte nimica, per intimare via libera; e poi, v'è un riferimento alla speranza («e lo spirito lasso / conforta e ciba di speranza buona», ivi, 106-107), che è come affidarsi ad altra virtù che non la fede; ma è anche mettere le cose nella sfera del possibile. «Fede è sustanza di cose sperate / ed argomento delle non parventi», è detto in Par., XXIV, 64-65; ma quella orgogliosa certezza è un bene ancora remoto in questo scuro inferno, e non sembra che qui alcuno dei due poeti sia in grado di corrispondervi nell’atteggiamento.
Come mai? Sarà perché, come ha osservato qualcuno, nelle insidie dell’eresia (e forse anche della malizia, se è a tutto l’inferno più profondo che fanno guardia quei demoni) la prima difesa è il rafforzamento della fede interiore ed il nutrimento dello spirito lasso di «speranza buona»? sarà per la interiorità della battaglia che si prepara, che chiede sia l’anima a doversi tener forte nelle sue virtù superiori? Resta il fatto che l’insicurezza di Dante ne esce ingigantita, in una solitudine disarmata e senza governo, esposto ad ogni tentazione o impulso dell’istinto pauroso: «e io rimango in forse / che sì e no nel capo mi tenciona», ivi 110-111).
Il colloquio di Virgilio con i demoni ha la rapida sequenza delle cose oscure della diplomazia di trattativa che non hanno esito: un solo effetto, il peggiore che si potesse prevedere, per un irrigidirsi delle posizioni: i diavoli si rinchiudono nella città a difesa e ne sbarrano la porta, Virgilio se ne torna deluso, «li occhi alla terra e le ciglia ... rase / d’ogne baldanza» (ivi, 118- 119).
Quale fosse stato il tenore di quell’abboccamento, dagli effetti non è difficile arguire: Virgilio doveva aver detto del salvacondotto celeste per quel viaggio; doveva in altri termini aver tentato, con meno sprezzo delle altre volte, con più ragionevolezza, di rinnovare quella affermazione della ineluttabilità della volontà divina che li accompagna; i demoni, preso atto della cosa, hanno valutato la forza dell'argomento, ma nella loro protervia non intendono dismettere il diniego, quasi per il gusto acerbo di una rinnovata ribellione, mutando peraltro tattica di difesa: non più in campo aperto, dinanzi alle porte della città, ma dentro di essa, in un ostinato arroccamento.
Forse anche in questo è da riconoscere il riflesso della inflexibilis obstinatio, di una orgogliosa protervia, che in qualche modo è diabolica in assoluto, ma nello specifico si conforma al comportamento dell’eretico, ostinato nella difesa del suo punto di vista.
Ma, eresia o non eresia, per tornare al tentativo di Virgilio, va ricordata la posizione di Bacchelli il quale ritiene che «proprio tal sicurezza nel proprio operare di ammonitore e di guida, tradisce e travia Virgilio a Dite e poi in Malebolge»: Virgilio che vede svolgersi cose che restano «fuori d’ogni sua previsione ed al di là di ogni sua scienza ... che si estende e conosce tutto il conoscibile razionale, ma riguardo a ciò che appartiene alla Grazia, alla Rivelazione, alla Redenzione è limitata, non illuminata: letterale, non spirituale» .
I due poeti sono soli più che mai ora, nella spianata dinanzi alle porte della città, esposti ad ogni rischio ed insidia diabolica. I due poeti, ma meglio sarebbe dire l’uomo, quell’uomo / Dante e tutti noi, con le paure, le debolezze, la fragile fede, e con sé quella povera ragione umana mortificata e incredula dinanzi alla protervia del male. Ormai il suo potere di rassicuramento è ridotto a ben poco; e più si direbbe esser costretto ad un autorassicuramento, una ragione che cerca innanzi tutto di rassicurare se stessa, con una ferma speranza, tanto sono stati messi in forse, dalla forza degli eventi perversi, i suoi stessi postulati.

È a questo punto ed in questa situazione che s’apre il canto IX, con un Dante pallido per la paura ed un Virgilio che tenta di dissimulare il suo stato d’animo d’incertezza e disappunto, che certe frasi troncate ed un continuo richiamo alle assicurazioni ricevute non riescono in tutto a celare .
La commedia dell’anima si svolge secondo una ben studiata partitura, ma nello stesso tempo non senza quell’intensa drammaticità che la situazione e le sue proiezioni allegoriche comportano. Dante nel suo sbigottimento arriva a mettere in dubbio la capacità di guida e l’esperienza stessa di Virgilio nei diversi passaggi di quel viaggio: «In questo fondo dalla trista conca / discende mai alcun del primo grado...» (Inf., IX, 16-17).
La domanda nella sua impersonalità conserva ancora un minimo di riguardo per colui che rimane pur sempre l’unico sostegno disponibile; ma l’abisso dell’insicurezza si fa ad ogni istante più profondo. E Virgilio mostra di aver bene compreso dove voglia parare il discepolo, se ha pronta la risposta, appena in parte rassicurante: «Di rado incontra ... che di noi / faccia 1 cammino alcun per quel ch'io vado ...» (ivi, 19-21).
Né accresce tranquillità la circostanza di un altro viaggio da lui compiuto fino al «più basso loco e ’l più oscuro, / e ’l più lontan dal ciel che tutto gira» (ivi, 28-29), «congiurato da quella Eritòn cruda / che richiamava l’ombre a’ corpi sui» (ivi, 23-24).
Questo riferimento ad una precedente discesa di Virgilio nell’Inferno introduce forse non casualmente un elemento magico, anzi della più nera magia in una circostanza in cui tutta la scena è sospesa in una incertezza di terrore e in un’attesa di diaboliche ritorsioni. Può essere che Dante poeta sentisse il bisogno di far giocare nella situazione anche l’elemento della precedente esperienza di Virgilio negli itinerari di viaggio infernali, fino al punto da sovrapporre una sua invenzione per sanare l’anacronismo evidente della leggenda di Eritone e del suo esorcismo, riferito in un luogo di Lucano (Phars. VI) per un episodio, quale la battaglia di Farsalo, avvenuto trent'anni prima della morte del poeta. E d’altro canto la fama medioevale di Virgilio mago può esser nata anche da siffatte imprese attribuitegli, oltre che dall’aver cantato di un’altra ben nota discesa agl’Inferi e di aver avuto i natali non lontano da una città che si diceva fondata dalla indovina Manto, anch'essa, vedi caso, come Eritone definita cruda (Inf., XX, 82), quasi a indicare una corrispondenza.
Ma qui, mi sembra che il riferimento introduca non secondariamente un elemento sinistro, eterodosso e in qualche modo «allotrio» rispetto ad una simbologia principale e fin’ora mai messa in dubbio, quale la identificazione di Virgilio con la ragione umana, anzi quella più retta e disponibile ad aprirsi alle cose della Fede. È casuale che ciò accada in presenza della resistenza diabolica, nel momento della maggior sfiducia e solitudine dei due poeti, e nell’imminenza dell’apparizione di Medusa, in cui molti riconoscono esser rappresentata l’eresia? Non è l’eresia un traviamento della ragione, un suo tralignamento ambizioso o visioso, una sua patologia senza rimedio se non nella sua sanguinosa rescissione? Certo la maga è Eritòn cruda, e Virgilio solo l’anima su cui s’esercita violenza, fino ad indurlo a scendere in Averno «per trarne un spirto del cerchio di Giuda». Ma perché proprio Virgilio? E chi era questo spirito, ed a qual fine la sua chiamata? Tutto è lasciato nel mistero, come nei procedimenti tortuosi di certa dottrina tralignante dalle verità della Fede rivelata e certificata dal magistero della Chiesa.
Ma anche questa è ipotesi che lascio alla riflessione degli studiosi, limitandomi a constatare che di questo Virgilio Dante lascia perfino cadere in dimenticanza le parole: «E altro disse, ma non l'ho a mente» (ivi, 34). La qual cosa si spiega certamente con il terrore grande, con la consapevolezza che ogni passo non potrà farsi «ormai senz’ira», e soprattutto per quanto avveniva frattanto in cima alla torre, cui sì rivolge ora l’attenzione atterrita dei due poeti. Ma gli argomenti grandi di tale dimenticanza oscurano in tutto, fino ad annullarlo, un argomento che lieve non sembra essere, di una ragione nella terribile circostanza screditata fino al punto di trascurarne i chiarimenti?
Sugli spalti, intanto, come in una scena di teatro nero, appaiono «tre furie infernal di sangue tinte» (ivi, 38): l’inferno mette in campo tutte le sue schiere più terribili, a petto delle quali Cerbero e le Arpie e gli altri mostri appaiono mera archeologia dell’orrore. Il dinamismo della scena è terrificante, così l'evidenza plastica e pittorica, appena indebolita da un inserto didascalico (ivi, 45-48), di cui forse nessuno sentiva il bisogno e che va ascritto all’inclinazione enciclopedica del tempo. Ma la ripresa della scena, con quelle furie che si graffiano il petto, si battono con le palme e gridano alto, ha un qualche cosa di sinistro che tocca il culmine nell’invocazione a Medusa: «vegna Medusa, sì ’l farem di smalto» (ivi, 52).
Medusa, la cui testa rescissa da Perseo convertiva in pietra chi la guardava, bene esprime la forza incantatrice ma mortale dell’eresia che non lascia scampo ed è morte dell’anima. Ormai Virgilio non può se non mettere in atto una difesa, che nella ultima ratio ch’essa rappresenta, s’affida al non conoscere, risultando in questa occasione la conoscenza stessa ingannevole e perigliosa: «Volgiti in dietro e tien lo viso chiuso; / chè se il Gorgon si mostra e tu ’l vedessi, / nulla sarebbe del tornar mai suso» (ivi, 55-57). E non basta la raccomandazione, ma aggiunge le sue mani a chiudere la vista.
Sulla simbologia delle Erinni e soprattutto di Medusa si è lungamente esercitata la critica, fin dagli antichi commentatori. Ne sono venute indicazioni tutte in sè accettabili ma prive di resistenza alla prova contraria: le Erinni intese quali rimorsi della coscienza, etc.; oppure personificazioni esse stesse dei procedimenti preludenti all’eresia, secondo Jacopo Alighieri seguito dall’Ottimo: Aletto, la «prava cogitatio», Tesifone la «prava elocutio», Megera la «prava operatio». Medusa, infine, l’eresia essa stessa, con il suo potere pietrificante; oppure, la disperazione della salvezza derivante dai rimorsi della vita passata, la coscienza schiacciante del peccato che impedisce l’accesso alla speranza, i beni mondani che impediscono la redenzione, la libidine; o, come ipotizza Bacchelli, «una intimidazione operante ed efficace sull’animo del peccatore ... supremo sforzo degli inferi antichi e sibillini originari», sarebbe «il potere che da quello stato d’abbandono e di caduta, di disperazione e di disgrazia nel pieno ed ultimo senso teologale, è concesso agli inferi ed all’inferno, ai démoni e demòni, a Pluto e Satana sulle mura di Dite» .
Tra tutte, il riferimento a quell’impedimento alla speranza che avrebbe la coscienza del peccato, non mi sembra privo di aderenza alla situazione, se si tien conto del fatto che in tutto l’episodio, nell’indebolimento della fede in una risoluzione positiva dal pericolo, operante almeno nella coscienza di Dante, è alla speranza che ci si affida («e lo spirito lasso / conforta e ciba di speranza buona» /nf., VII, 106-107). La speranza, che nella definizione teologale di Par. XXV, 67-69, si dichiara come «uno attender certo / della gloria futura, il qual produce / grazia divina e precedente merto»; anche se una tal infiammata definizione non corrisponde certo al trepido stato d’animo dei due poeti atterriti dinanzi alla resistenza diabolica.
Ma anche un tal riferimento non dirime in tutto la forte obiezione che nasce dallo specifico di quella situazione di pericolo in cui i due poeti si trovano. L’accurata scenografia guerresca della città infernale, con i suoi segnali di guerra, lo stuolo dei demoni a difesa, il riferimento ripetuto alla loro ostinazione proterva, alla resistenza senza prospettive, per mero orgoglioso rifiuto, sembra collegare l’episodio più al seguente, degli eretici, che non ad un più generale accesso all’Inferno profondo.
Così ha preso consistenza l’ipotesi avanzata per primo dal Lana, e via via da antichi e moderni fino al Padoan, di una Medusa/eresia, che sembra suffragata da numerosi riscontri: Boccaccio e il Buti avevano parlato di Medusa demone dell’ostinazione, «la sassea e dannosa opinione» degli eretici; «sassea» richiama una Gorgona che muta in sasso, in quanto pietrificando chiude alla grazia; nelle parole del Messo si fa riferimento con insistenza proprio alla ostinazione dei demoni; i quali si barricano entro mura che «mi parean che ferro fosse», per cui il Buti osserva: «e questa è conveniente finzione, che la città ove si puniscono li ostinati peccatori abbia le mura di ferro, che significa l’ostinazione».
Padoan fa notare che «il peccato di eresia in sé e per sé non consiste nell’opinione errata, quanto nell’ostinarsi nell’errore», onde l’adagio «errare humanum est, perseverare dyabolicum»; gli eretici sono condannati «ut pertinaces», e perciò finivano sul rogo. Aggiuntiva sembra la considerazione che, intendendo Dante tra le eresie soprattutto quella degli «epicurei», come mostra il canto seguente, cioè di coloro, che, materialisti e legati alle passioni ed affetti terreni «l’anima col corpo morta fanno», l’individuazione di Medusa/eresia uscirebbe confermata anche dalla pseudo etimologia di «Gorgones, quasi terrae cultrices», per cui esse, e soprattutto Medusa, avrebbero avuto un regno ricco e potente. La considerazione più forte, in questa individuazione, mi sembra avanzata dal Padoan, allorché fa osservare che «l’unica resistenza delle forze del male che Virgilio, non illuminato dalla fede cristiana, non è in grado di vincere da solo, avviene non a caso presso le mura della città entro la quale è punito il peccato contro la fede» .
La terzina che segue (versi 61-63) è tra le più controverse nel suo riferimento, pur essendo delle più semplici nel suo significato. Perché Dante sente il bisogno di rivolgersi ai lettori, anzi a quelli che hanno «li ’ntelletti sani», per chieder loro attenzione per «la dottrina che s’asconde / sotto ’l velame de li versi strani»? Ed a quali versi poi si riferisce, a quelli appena precedenti, delle Erinni e di Medusa, o a quelli seguenti, del Messo celeste, o a tutto l’episodio nella sua interezza?
Non ripercorrerò i fiumi d’inchiostro che sono stati lasciati scorrere per chiarire o diversificare . Rimane il fatto che il poeta come nell’episodio di Purg. VII, 19-21, sente il bisogno di richiamare l’attenzione su di una lettura allegorica dell’episodio, e mentre qui si rivolge agli «intelletti sani» cioè a coloro che tenendosi stretti all’insegnamento della Chiesa non sono stati traviati da false verità (cioè dall’eresia),nell’episodio del Purgatorio attira l’attenzione sull’intervento degli angeli contro la tentazione demoniaca: degli angeli dalle vesti verdi «come fogliette pur mo’ nate», dunque del colore della speranza, che «ambo vengon del grembo di Maria» (Purg, VIII, 37), quanto dire dal seno stesso della Grazia, in soccorso dell’umanità tentata dal maligno.

Ma per tornare ai poeti in quella loro drammatica distretta, quanto avrebbero potuto resistere? (Quanto può resistere l’uomo, pur nella strenua e quasi disperata difesa del non voler conoscere, dinanzi all’insidia della falsa verità? E però il soccorso promesso questa volta non tarda a venire. La commedia doveva svolgersi in tutte le sue sequenze, perché fossero chiare la metafora e la dottrina «sotto ’l velame de li versi strani». Ed esso s’annunzia con un rumore terribile «un fracasso d’un suon, pien di spavento», come «d’un vento / impetuoso» che s’estende «polveroso e superbo» (Inf., IX, 65 segg.), con ricercato effetto scenico, per ben tre terzine, seguite subito dopo da altra similitudine e descrizione per altre tre.
L'angelo, se come è assai probabile di angelo si tratta, compie la sua missione senza rivolgersi ai due poeti che sembra voler ignorare; e se di angelo si tratta, anch'esso certo veniva direttamente «dal grembo di Maria», quanto dire da quella Grazia preveniente che prima s'era mossa alla salvezza di Dante, senza esame di meriti, o meglio oltre ogni considerazione di meriti; il suo intervento è inteso a rimuovere l'ostacolo frapposto dalla protervia ribelle dei demoni; le parole che ha contro di loro riprendono in tono più alto quelle pronunciate in altre occasioni da Virgilio, e quasi il duro discorso dell’arcangelo Michele, con il quale dal Pasquazi si è voluto identificare: identificazione, questa con un Mercurio/San Michele psicopompo assai verosimile per numerose attribuzioni e riferimenti della tradizione; e certo assai più dell’ipotesi, formulata dallo stesso Pasquazi, di un San Michele dimorante nel Limbo a guardia di quei megalopsicoi, la quale risulta fondata su elementi congetturali .
Non stupisce pertanto che il gesto con cui il Messo spezza i serrami e spalanca la porta della città diabolica sia di una levità senza fatica, quasi un fiat d’ispirazione divina. Di lui veramente potrebbe dirsi: «di quel securo il fulmine / tenea dietro al baleno».
Compiuto il suo gesto e sbaragliato il campo, tornandosene al cielo da cui è disceso, lascia dietro di sé quella securitas che solo la fede può dare e la Grazia realizzare, che invano la ragione s’era ingegnata di assicurare: «e noi movemmo i piedi inver’ la terra, / sicuri appresso le parole sante» (ivi, 104- 105).
Forse non sarà inutile aggiungere una postilla a questo processo di rassicuramento individuato nel terrore dell’anima esposta all’insidia diabolica: anche nell’episodio dei barattieri e dei ponti rotti in Malebolge, l’altro episodio della ostinata renitenza diabolica, «tragico davanti a Dite, comico sull’argine di Malebolge», come ha osservato Bacchelli!°, Dante è terrorizzato dalla presenza dei demoni che lo attorniano e minacciano; anche li si svolge una trattativa tra un Virgilio assai più sicuro di sè e i diavoli fraudolenti che restano scornati nel loro stesso tentativo d’inganno; anche in quel caso Virgilio non manca di rincuorare Dante nelle sue crisi di panico; ed anche in quell’episodio spicca quella parola chiave della funzione stessa rassicuratrice di Virgilio / ragione umana sostenuta dall’aiuto divino: «Credi tu, Malacoda, qui vedermi / esser venuto ... / sicuro già da tutti vostri schermi, / sanza voler divino e fato destro?» (Inf. XXI, 79-82).

L’ultima parte del canto IX, come s'è detto, appartiene al successivo episodio degli eresiarchi. Anche qui la suggestione del paesaggio è grande, ma è funebre e desolata, così come il lessico e gli stessi riferimenti geografici richiamano immagini d’immobilità e di chiusura. I «sepuleri», il «loco varo», gli «avelli» con fiamme sparte, i coperchi sospesi, i duri lamenti» che ben pareano di miseri e d’offesi», «le tombe calde», i «monimenti»: una insistenza funeraria che perfino nei riferimenti geografici («ove Rodano stagna», 112; «ch’Italia chiude», 114) sembra voler alludere con insistenza alla metafora della sepoltura e della reclusione sepolcrale.
Si comprende bene che il poeta abbia voluto allestire uno scenario funzionale alla condizione dei dannati, «che l’anima col corpo morta fanno»: quella negazione della vita immortale dell’anima è punita in uno scenario di morte ch'è ancor più della morte comune di tutti, e della prigione comune a tutti quei dannati.
L’eresia, ché qui di eresiarchi si parla e della loro ostinazione, dopo la minaccia diabolica, dopo l’istintivo moto di panico dell’anima, può essere ormai riguardata nel pieno possesso della verità rivelata dalla Grazia e nel retto insegnamento delle scritture e della Chiesa: «ed io, ch’avea di riguardar disio / la condizion che tal fortezza serra ...» (ivi, 107-108).
Ma presto l’attenzione e l’interesse di Dante si rivolgeranno ad altra cosa e finiranno presi fortemente da altra passione, politica ed umana, dall’odio / amore di parte e di patria, dal richiamo magnanimo della gloria e dalla responsabilità verso i figli e la famiglia. Sarà il dramma di Farinata, e di Dante con Farinata . L’inferno profondo riserva molte pene al pellegrino, ognuna dolorosa oltre ogni dire.

Date: 2022-01-10