Canto nono [Flaminio Pellegrini]

Dati bibliografici

Autore: Flaminio Pellegrini

Tratto da: Lectura Dantis genovese. 1: I canti 1-11 dell'Inferno

Editore: Le Monnier, Firenze

Anno: 1904

Pagine: 327-362

Un’inattesa quanto deplorata interruzione di continuità nella serie dei nostri Lettori mi richiama, o Signore gentili e uditori cortesi, all’arduo onore di commentare un secondo canto: onore da me non richiesto né, purtroppo!, da Voi desiderato. Nemico qual sono dei preamboli, mi trovo costretto a ricordare questa circostanza, per ottenere indulgenza benevola su quanto dirò — e forse più ancora su quanto non saprò dire — spiegando i versi danteschi offerti questa sera al nostro studio e alla nostra ammirazione. Versi interessantissimi nell’ ordinamento complessivo del Poema, e fulgidi di bellezze formali, che sarà torto mio se non riuscirò a farvi degnamente apprezzare.
Come è noto, la prima cantica si divide, secondo la famosa partizione aristotelica, nelle tre grandi categorie di peccati compresi sotto i nomi d’Incontinenza, di Violenza e di Frode. Finora noi soggiornammo, quasi a dire, nel sobborgo della città di Dite: appunto il presente capitolo segna, con l’ingresso nella medesima, il passaggio dalla prima alla seconda maniera di dannati. Ci affacciamo ormai alla vera dimora di Lucifero, della quale già nella passata lettura scorgemmo da lungi i primi propugnacoli, le «meschite» dolorose, quelle tremende mura

Vermiglio, come se di foco uscite
Fossero.

Tutte le difficoltà che l’Averno pagano accumulava tradizionalmente al primo ingresso, per impedire l’entrata ai suoi audaci visitatori, Dante raduna invece a questo luogo, memore forse del facilis descensus Averno virgiliano e più ancora desideroso di mettere in rilievo l’onnipotenza del Salvatore, la cui irruzione nel Limbo sgombrò per sempre la porta, sulla quale leggemmo la scritta «di colore oscuro», da ogni velleità di resistenza per parte dei demoni.
Qui, invece, ben più di mille «dal ciel caduti» s’oppongono insieme, anzi tutto l’Inferno fa l’estremo di sua possa contro il decreto di Dio. Più sotto, la malignità singola dei diavoli cercherà bensì ancora una volta il danno dei due fatali viaggiatori, ma per un istante e senza conseguenze; tantochè il senno di Virgilio sventerà subito le inani macchinazioni. Ora, per contro, l'ostacolo frapposto apparisce a tutta prima sì grave, che per un istante desta serie apprensioni intorno al modo di superarlo. L’intervento d’ un Messo celeste, preannunziato di già negli ultimi versi del precedente capitolo, vale a rompere ogni indugio e a concedere vittoria a coloro che vengono nel nome del Signore.
Efficacissimo contrasto, chi ben ci pensi: da un lato, apparato terrificante e romoroso di forze, che paiono presagire cataclismi e miracoli... dall’ altro, la calma e cosciente opposizione d’un solo, il quale con un cenno, con una parola, rimette a posto ogni cosa!

Il canto, per sua natura, si divide in tre distinti episodi. Prima i terrori di Dante, l’attesa di Virgilio, le minaccie delle potenze infernali. Poi la risoluzione d’ ogni difficoltà per mezzo del Messo del Cielo. Da ultimo l'ingresso nella «terra sconsolata» di Dite, cioè nel sesto cerchio, e una descrizione complessiva delle

... condizion che tal fortezza serra.

La terza parte, intimamente connessa col canto decimo, troverà per fortuna più degno interprete in Michele Scherillo. Sorvolando pertanto su questa e sui vari problemi che può suscitare, connessi col ge

[...]

movimento e la vita. Sta dunque sicuro, ché il cammino lo conosco assai bene! Sappi — se ne desideri una prova — ch'io non ignoro la topografia complessiva del luogo nel quale ora ci troviamo, e so dirti che la melmosa palude, da noi solo in parte navigata, cinge tutta intera la dolente città. entro cui solamente colle brusche ci sarà dato questa volta d’entrare».
Eritone, la tessala incantatrice ricordata qui sopra, è personaggio che Dante conobbe in Lucano, nella cui Farsalia (VI, 508 seg.) è rappresentata in atto di evocare appunto lo spirito d’ un morto soldato, che riveli a Sesto Pompeo le vicende della grande battaglia decisa per il giorno appresso. Ma d’onde il poeta nostro abbia tratto argomento per associare il nome di Virgilio con quello della maga: è problema rimasto finora insoluto ai più diligenti ricercatori. Sicché sembra probabile che si tratti d’una fantasia espressamente foggiata per la circostanza, collegata di certo con la diffusa tradizione medioevale, che reputava Virgilio non alieno da commerci con le potenze sovrannaturali.

Altro aggiungeva Virgilio... ma come potrebbe Dante ricordarsene, se un terribile spettacolo venne in quel punto ad attrarne intera l’attenzione? Urla incomposte, feroci piovono dalla cima rovente della torre che, all’usanza delle città fortificate del tempo, accavalca e difende la porta d'entrata. Tinte di sangue, con verdissime serpi allacciate intorno alla vita, con altri serpentelli sul capo a foggia d’orrenda capigliatura, sono comparse là in alto le Furie, alleate dei demoni, per far prova di mettere in fuga gli audaci invasori del loro dominio.
Anche quest'immaginazione derivò il poeta dalle medesime fonti mitologiche, che popolarono il suo Inferno di tanti mostri grotteschi insieme e spaventosi. I poeti latini (Ovidio, Virgilio, Stazio a preferenza) gli offrivano precise notizie sopra queste tremende figlie dell’Erebo e della Notte, che sono tra le creazioni più serie e più truci del mondo classico, impersonando il rimorso, inesorabile persecutore del colpevole, a cui amareggia la vita: del che il verso dantesco

Con l’unghie si fendea ciascuna il petto

è mirabile ipotiposi. Tuttavia l’autore nostro non potè conoscere la prima fonte immortale del mito, la mirabile tragedia sofoclea intitolata alle Eumenidi. In essa — come è noto — Oreste, che ha vendicato l'assassinio del padre Agamennone con l’uccidere a sua volta chi l'aveva condotto alla tomba, cioè la madre propria, Clitennestra, è straziato dalle Furie, od Erinni, implacabili verso gli Dei come verso i mortali, che esse perseguono senza pace. Ma l’aiuto di Apollo gli concede infine remissione del misfatto commesso e le Furie ricevono da allora nell’ Attica e culto ed altari, col nome di Eumenidi, alludente a benevolenza e protezione. Delle tre, Megera ritenevasi inspiratrice d'odio e di livore; Aletto, irrequieta agitatrice; Tisifone, vindice degli omicidi.
Le Furie minacciano adunque di su la torre della «città roggia», raffigurate in pochissimi versi con una vivacità meravigliosa: ed eccole, in concitate parole, accumulare su Dante gli sdegni lungamente covati contro gli ardimentosi che, nelle varie età, vennero a portar guerra all’Averno. Teseo segnatamente è oggetto dei loro acri rimpianti. «Torto nostro» — esse dicono — «se ne lasciammo invendicato l'assalto!»; e, dal loro punto di vista, non è irragionevole lamento, dacchè si sa che eroe ateniese era disceso nei regni bui allo scopo di rapirne Proserpina, di cui esse, le Furie, sono le ancelle o, per dirla dantescamente, le meschine. Ma questa volta, visto che le loro deformi parvenze porgono quasi novello spettacolo ai due poeti, determinate come sono a fare sul serio, invocano in lor sussidio un’alleata formidabile davvero:

Venga Medusa! Sì il farem di smalto.

La più famosa delle tre Gorgoni, il cui enigmatico sorriso vive eterno nella tavola famosa di Leonardo, il cui capo mozzo e tremendo pende dinanzi alla nostra fantasia, dalla vindice mano di Perseo, nel bronzeo capolavoro del Cellini, è immagine troppo nota, perché importi presentarla con molte parole. Basti ricordare in riassunto quanto ne racconta nella florida prosa Giovanni Boccaccio, commentando questo canto dantesco: «Scrivono i poeti che Forco, figliuolo di Nettuno iddio del mare, generò d’un mostro marino tre figliuole, delle quali la prima fu chiamata Medusa, la seconda Steno, la terza Euriale, e tutte e tre furon chiamate Gorgoni. È secondo che testimonia la fama antica, non ebbero tra tutte che un occhio, il quale vicendevolmente usavano». Abitarono le Orcadi, nell’ oceano Etiopico, secondo alcuni; secondo altri, un giardino bellissimo in Libia. «È dicesi queste sorelle avere avuta questa proprietà, che chiunque le riguardava, incontanente si convertiva in sasso. E di Medusa, la maggiore delle tre, siccome Teodonzio scrive, si dice che ella fu oltre ad ogni altra femmina bella, e intra l’altre cose più ragguardevoli della sua bellezza dicono essere stati i suoi capelli, i quali non solamente avea biondi, ma gli aveva che parevan d’oro». Se non che ella offese fieramente Pallade Minerva, la quale per punirla «i capelli d’oro di Medusa trasformò in serpenti; per la qual cosa Medusa, di bellissima femmina, divenne una cosa mostruosa». Allora Perseo «in quei tempi valoroso e potente giovane,... a dover questa cosa mostruosa tor via, venne di Grecia lì dove Medusa dimorava: e quivi armato con lo scudo di Pallade, la vinse e tagliolle la testa, e con essa se ne ritornò in Grecia».
Se avessimo dimenticato un momento, nella palpitante vivezza del bizzarro episodio immaginato da Dante, che un senso allegorico anima e pervade per tanta parte il poema divino, tosto ci ammonirebbe a ricercarlo qui la proverbiale terzina:

O voi ch’avete gl’ intelletti sani,
Mirate la dottrina che s’asconde
Sotto il velame degli versi strani!

È naturale che i commentatori antichi c moderni, spinti per tal guisa dall’autore sopra un sentiero da essi tanto di buon grado battuto, anche senza bisogno d’incitamenti, abbiamo esplorato per cento modi qual sia la «dottrina» ovvero l'insegnamento celato sotto queste terzine. Né v' ha dubbio che molti in quest’ indagine si siano spinti anche più oltre di quanto il poeta stesso domandava, poco memori dell’assennato motto petrarchesco, che «chi troppo assottiglia si scavezza».
Impossibile pertanto nell’ ambito di breve discorso esporre e discutere le varie opinioni, speciose quasi tutte, alcune tuttavia ingegnosissime. Meglio giudico il raccogliere, tra i molti dispareri, qualche concetto che più m'appaghi e che, meno avendo in sè dell’ipotetico e del ricercato, s’accomodi senza sforzo all’allegoria generale suggerita da sicuri indizi e da analogie con luoghi consimili.
Se Dante ci risulta simbolo dell’uomo che, guidato dalla ragione e dalla morale filosofia (Virgilio) ha preso la strada della penitenza, le Furie saranno — secondo la loro significazione mitologica assai bene accertata — è ricordi mordenti della vita peccaminosa. Esse, gridando alte parole al pentito, s’ adoperano per rimetterlo sulla via abbandonata e precipitarlo novamente «in basso loco». Ma a nulla riescono, perchè Virgilio ne svela al dolce alunno l’orridezza, nel tempo medesimo che lo persuade a star fermo, nella salda fiducia d’un soccorso divino. Le Furie invocano allora l’intervento di Medusa, per impietrare il riluttante, rendendolo sordo e cieco, inerte ormai alle buone parole della ragione, incapace di rilevarsi nemmeno per forza dell’aiuto sovrumano. Per questo il benefico consigliero si dimostra così trepido davanti alla nuova minaccia e, non pago che Dante si rivolga e si copra il viso da sé, gli ferma con le sue mani gli occhi.
Ciò posto, Medusa, che parve già sì bella e venne poi convertita in orribile creatura, sarà forse simbolo dell’ostinazione nel culto dei beni mondani, dell’allettamento che viene dai piaceri sensuali? Sarà invece, come altri sostennero, la passione induratrice dei cuori? Io confesso di trovare una più logica successione nel simbolo, interpretandola invece il dubbio petrificante, la disperanza nella grazia celeste, cui è facile che, a lungo andare, i rimorsi conducano. Contro tal suprema iattura giova momentaneamente volger l’animo altrove, giova anche più il soccorso di Virgilio; pure tutto ciò non approderebbe ancora a buon fine, se le laide geniture del peccato non fossero più irresistibilmente fugate da altra efficace potenza, che è fuori di noi.
Questo il senso religioso-morale intuito da pressoché tutti i commentatori, salvo le molte varianti proposte dai singoli a dilucidare le partizioni dell’episodio. Che esso poi racchiuda altresì un significato politico, per modo che le Furie, ad esempio, rappresentino le malvagie potenze contrastanti il pacifico ristabilimento della monarchia universale e Medusa sia simbolo dell'Impero ristretto alla sola Germania (quasi testa disgiunta dal suo corpo), è idea svolta con appoggio d’ampi e acuti ragionamenti da Giovanni Federzoni, in un volume di Studi e diporti danteschi, cui dovremo attingere novamente quanto prima. Per me la necessità di questo secondo senso non è provata, e stimo anzi che l’autore avrebbe dato più chiaro segno di simile riposta intenzione, ove nell’atto di concepire l’episodio avesse davvero pensato di trasfondervela; senz’escludere con questo la possibilità che Dante stesso non avesse potuto finire per trovarcela, se gli fosse piaciuto di sottilizzare a mente fredda sull’opera propria, come vediamo nel commento di qualche sua canzone del Convivio, condotto secondo le tendenze tanto care all’indagine scolastica dei tempi suoi.

Un secondo momento gravissimo e risolutivo, da cui dipende l’intero corso seguente del viaggio oltramondano, si dischiude adesso all’azione.
I fatti che sono per seguire danno al poeta conferma sensibile che Dio è con lui, onde la sua impresa non può fallire a glorioso porto: nello stesso tempo che infondono nel lettore un senso anche più profondo d’ ossequio, di fede cieca nel protagonista, a cui vantaggio anche una volta si riaccende visibilmente l’ eterna contesa tra il principio del Bene e quello del Male, invano contrastante. Il dramma che or ora sì svolgerà sulle porte della terra maledetta è compendio dell’altro dramma solenne per cui Gesù Cristo, incarnatosi nella Vergine, portò la redenzione morale al genere umano. E come, nato il divino Infante,

Le forze avverse tremano
Al muover del suo ciglio,

così nel presente luogo l’accostarsi del Messo divino è contrassegnato dal fracasso «d’un suon pien di spavento», accompagnato dal tremito sensibile delle sponde della torbida palude. Quale efficacia rappresentativa raggiungono qui le magiche terzine dantesche! Un turbinoso vento è preso ad ovvio termine di paragone; studiato dapprima scientificamente nella genesi sua, descritto appresso nelle conseguenze che porta seco, con un crescendo maraviglioso d’ immagini e di suoni. Il vento prodotto da grave squilibrio di temperatura tra le masse dell’aria, era concetto scientifico ai tempi di Dante già famigliare; «adversi» son chiamati i venti da Virgilio, per un’analoga estensione ideologica; e la descrizione del turbine ritorna, felicissima, in vari luoghi virgiliani del poema ce delle Georgiche, presenti senza dubbio alla memoria dell’Alighieri. Pure il poeta nostro non paventa l’arduo confronto, anzi resta innegabilmente superiore per quella che fu attitudine inarrivabile dell’ingegno poetico suo, di personificare in vivissimi fantasmi ogni astrazione del pensiero, ogni fenomeno della natura. Dell’ uragano vediamo prima il pazzo furore scatenarsi contro una selva, ch'egli percuote schiantando, abbattendo, portando seco nella corsa i rami divelti. Negli ultimi versi tal conato furibondo cede luogo ad una quasi maligna soddisfazione del guasto compiuto, ad una piena fidanza nelle proprie forze testò sperimentate: ond’esso, polveroso insieme e superbo, procede innanzi: fuggono le creature ferine ed umane ch’erano nei pressi del bosco, ancora in sussulto sotto l’impeto delle sue scosse poderose.
La similitudine non insiste (è ben chiaro) sul carattere pernicioso della meteora, bensì sopra la paurosa sua onnipotenza; tal quale come la seconda immagine, che ci resta da esaminare, dove i dannati fuggenti dinanzi alla sovrumana comparsa s’assomigliano alle rane inseguite dalla «nimica biscia», va considerata assai più nel primo termine che non nel secondo, per il quale in verità poco riuscirebbe appropriata. Siamo in una palude. Le «anime distrutte» che ingozzano fango e nude diguazzano nell’ acqua melmosa somigliano realmente a delle rane... e il confronto le avvilisce ancora, come esse meritano e come è usanza per l’autore, proclive ad instituire confronti tra le ombre d’ Torio ed animali inferiori, che abbassino nell’animo di chi legge il primitivo Do della loro umana dignità, sì vilmente prostituita nel mondo.
Ma chi è dunque costui, che se

…al passo
Passava Stige colle piante asciutte?

Tenui sono gl’ indizi offerti per farlo riconoscere. Egli non mostra stanchezza del lungo viaggio compiuto in sì brevi istanti, per giungere dall’«ampio loco» di sua ordinaria dimora fino alle bassure infernali. Unico disagio visibile gli porge l’«aer grasso» da cui si trova ravvolto e, con atto pieno d’umana verosimiglianza, lo rimove spesso dal volto con l’agitare la mano sinistra davanti alla fronte. Dante d’una cosa a prima vista s’accorge, non appena Virgilio gli scioglie gli occhi e lo invita a guardare la scena, attraverso al fumo acerbo, denso cioè e pungente, della palude: che quegli era il Messo del Cielo, presentito e atteso con tanto ardore dal compagno. Il quale, del resto, non è propenso ad aggiungere spiegazioni, ma, tutto assorto egli stesso in quanto deve pur ora seguire, cenna al compagno dl’ inchinarsi reverente e di non muovere parola.
Sul misterioso personaggio molto scrissero, e con diversa sentenza, gli studiosi. A torto alcuni ragguardevoli antichi, come Pietro di Dante ed il Rambaldi, s' argomentano di riconoscere in lui Mercurio, fuorviati dall’ affinità riscontrata tra questo tratto ed uno della Tebaide di Stazio (II, 1 seg.): è evidente che Mercurio, dio falso e bugiardo, se mai dall’ Alighieri fosse stato menzionato nel suo Inferno, avrebbe dovuto necessariamente figurare quale alleato dei diavoli, non mai qual ministro del Dio vero. Né si capisce d’onde mai si sarebbe mosso per venire, quando i versi del precedente canto

E già di qua da lei discende l’erta,
Passando per li cerchi sanza scorta,
Tal, che per lui ne fia la terra aperta

par proprio che lascino indovinare nell’Atteso non un abitatore delle regioni infernali, ma uno che per la circostanza aveva ormai varcato la porta dell’Inferno, allorché Virgilio pronunziava le suddette parole. Se l'argomento torna, resta insieme del tutto escluso che il messo sia Enea, come cercò di provare con troppo sottile disquisizione Michelangelo Caetani di Sermoneta, seguito di recente da Giovanni Pascoli nella sua Minerva Oscura. Del resto, per quali titoli Enea, relegato nel Limbo, potrebbe meritarsi nell’ Inferno cristiano di Dante una parte sì solenne, e ad un tempo sì provvidenziale? Quando per disserrare le porte d’Inferno uno spirito del Limbo fosse sembrato sufficiente, perché mai pensare al pio figliuolo d’Anchise, dando così una smentita non necessaria a Beatrice, la quale non su Enea, ma sul cantore di lui aveva fatto assegnamento, per proteggere e scortare il suo fedele?
Decisamente par logico che dalle regioni celesti, non dalle infernali, venga chi dal Cielo è mandato: e solo questo presupposto giustifica il terrore straordinario che l’arrivo del messo incute, non solo nelle anime perdute ma anche nei loro stessi custodi, come si vedrà sempre meglio seguitando.
Giunti a questo punto, due opinioni plausibili si presentano, per determinare esattamente questo mandato celeste. L’una, accolta da esiguo numero di commentatori, proposta prima da R. Fornaciari e sostenuta ampiamente dal prof. Federzoni nel volume ricordato poco addietro, vuol riconoscere in esso la persona medesima del Salvatore, che in tal modo verrebbe a comparire tre volte nel Poema, figurando con ciò «i tre motivi per i quali Gesù Cristo venne in terra: 1°. Cristo discese in mezzo ai peccatori, per soccorrere quelli di buona volontà, affinché potessero vincere il male (Cristo alle porte di Dite); 2°. Discese per mostrare all’ uomo quanto doveva credere e volere nell’ordine delle cose temporali e spirituali per essere felice in terra e meritare il premio eterno (Grifone sulla cima del Purgatorio); 3°. Discese tra i buoni per illuminarli di luce divina (VIII cielo, e. XXIII del Paradiso)». Secondo questo critico, a Gesù soltanto converrebbe il camminare con le piante asciutte sulla palude Stigia, come il Vangelo narra che camminò sulle onde agile di Tiberiade: a Lui s’addirebbe la proprietà di respirare e la conseguente lassitudine provocata dall’«aer grasso» circostante, in quanto Gesù salì al Cielo col corpo, il che per Dante non avvenne d'altri beati, ad eccezione di Maria. Se Virgilio predisse l’arrivo del Possente in forma misteriosa, se il suo nome non è espresso più chiaro, ciò si coordinerebbe al proposito di non menzionare nell’Inferno Gesù Cristo. Né l’autore «poteva pensar punto che questo far discendere Cristo in Inferno fosse uno scomodarlo troppo dal suo trono del cielo; quando egli credeva (e lo credono i cattolici anche oggi) allo scender di Lui in persona tutti i giorni nell’ostia consacrata. E qui non c’è questione: è dogma».
Questi argomenti, ed altri ancora svolti dal Federzoni assai bene, non stimeremo certamente privi d’attendibilità, e parranno anzi del tutto persuasivi a quanti, come il valente professore bolognese, vogliano trovar celata un’ampia allegoria politica, accanto alla morale, nel simbolo che stiamo esponendo. Si legga il ragionamento del Federzoni, e la cosa parrà evidente. Chi invece, come noi, dell’allegoria morale si contenta e più oltre non chiede, resterà sempre fermo nell’avviso che qui ci troviamo in cospetto di un Angelo, non altrimenti da ciò che la grande maggioranza degli interpreti antichi e moderni d’accordo pensarono.
Nell’iconografia medioevale — ben opportunamente osserva Francesco Cipolla, che di tal opinione è a parer mio il più lucido e convincente esplicatore — gli angeli avevano per proprio e comune attribuito una verghetta in mano, quasi indice della lor condizione di messaggieri. La comparsa dell’ angelo, che nel secondo canto del Purgatorio reca sopra un «vascello snelletto e leggiero» a luogo di salute le anime dei «ben finiti», presenta notevoli punti di contatto con l’apparizione presente: speciali fenomeni (terribile fracasso in un caso, nell’altro sovrannaturale splendore) preannunziano il loro arrivo; velocissimi sono ambedue e sdegnosi di «argomenti umani» per compiere il loro viaggio; uguale è l'attitudine di Dante e di Virgilio davanti alle divine creature che, eseguito il loro mandato, partono tosto senza d'altro occuparsi.
Inoltre qual è l’unica designazione precisa che in questo canto il misterioso personaggio riceve, se non quella di «messo del cielo?» Dante non ignorava per certo l'esatta sinonimia di tal frase col vocabolo greco Angelo (άϒϒελος), né pertanto l’avrà usata senza espresso motivo!
Ma non si ferma per anche il Cipolla, e a noi è caro accompagnare più oltre la dotta guida, allorché domanda: L’angelo del nono canto infernale o, secondo la mente del poeta, gli spetta un nome determinato? – Le parole di Virgilio (VIII, 128): «discende l’erta... per lui ne fia la terra aperta» sembrano alludere a determinazione sì fatta, tanto più sc riflettiamo che secondo le Scritture «spetta per proprio ufficio all’arcangelo Michele intervenire, quando si tratta di debellare le potenze infernali»; e teniamo presente che nel canto VII, v. 11, la tracotanza di Plutone è pure annientata col ricordargli Michele, vindice del «superbo strupo». La verga e gli altri attributi angelici sono di preferenza assegnati a (Gabriele e Michele;

E Santa Chiesa con aspetto umano
Gabriel e Michel vi rappresenta,
E l'altro che Tobia rifece sano ;

circostanza non indifferente quest’ultima, a spiegare come mai il Messo celeste camminasse sulle onde (imitazione dell’episodio evangelico riferito a Gesù, che Dante avrà ricordato) e come dimostrasse affanno nel respiro, quantunque non realmente dotato d’ organi corporei. Pensiamo sempre che stiamo leggendo della poesia, e tale attitudine dell’angelo non sarà motivo di meraviglia per noi.
Sdegnoso l’angelo s'appressa alla contesa soglia di Dite, col semplice tocco della verghetta che ha in mano la spalanca e dirizza alla gente spregevole, asserragliatasi dentro, severissime parole.

Che giova nelle fata dar di cozzo?

ecco la sostanza del tremendo rabbuffo, raccolta in un verso meritamente notissimo e, nella sua sconsolante universalità, atto ad imprimersi per sempre nell'animo, in grazia del suo carattere proverbiale, quanto mai rappresentativo. Ma l’angelo sa che gli avversari son gente bassa, incapace di quietarsi per semplici ragioni. Così lo schizzo grottesco con cui la reprimenda finisce appare efficacissimo, quantunque mutuato alle leggende del tempo pagano, quando Ercole, impedito da Cerbero nella sua fatal discesa nei regni bui, afferrò il ringhioso guardiano d’Averno, gli strinse al collo una catena e, riluttante, lo trascinò alla luce odiata del sole. Cerbero, nel rinnovato Inferno dantesco, è un demonio di non esigua importanza, se a lui solo fu commesso di presiedere il cerchio dei golosi. Ognun vede adunque quanto sia umiliante per i diavoli tutti lo schernevole accenno:

Cerbero vostro, se ben vi ricorda,
Ne porta ancor pelato il mento e il gozzo,

onde questo rappresentante della loro schiera contumace fa effetto d’un povero cane, spelacchiato dal lungo uso d’ una catena servile!
Dopo il breve discorso, l’Angelo si rivolge «per la lorda strada» senza far pure un motto ai poeti, quasi persona stretta e morsa da ben altro pensiero che non sia quello dei presenti alla scena. In verità l’eletta creatura ha lasciato appena da pochi istanti quel

…miro ed angelico templo,
Che solo amore e luce ha per confine,

sollecitata da un'infinita Pietà, sempre disposta soccorso di un’anima pericolante. Il paragone tra sì perfetta letizia e la miseria del regno di Lucifero non poteva offrirsi più immediato ad uno spirito meglio disposto a percepirlo; il perché tale stato d’animo si risolve non solo in un desiderio, ma in una cura mordente e nostalgica, assai più conveniente in chi viene mandato da altri, che non in chi movesse per sua propria deliberazione, come l’ipotesi del prof. Federzoni vorrebbe.

Dante e Virgilio entrano senza alcuna contesa, fatti appieno sicuri «appresso le parole sante». Con la fantasia noi li vediamo attraversare il cupo e grave voltone sottostante alla torre, d’onde i diavoli, che vi tengono quasi un corpo di guardia, son fuggiti a rimpiattarsi chi sa dove... e cupidi anche noi, come il poeta, inviamo attorno lo sguardo, non appena l'interno della terra fortificata ci si schiude davanti. È una città, non v’ha dubbio, se riflettiamo alla sua forma esterna, all’ innumerevole popolazione, al sovrano (Dite o Lucifero) che vi dimora: ma quanto diversa dall’ immagine comune che, nella mente, suol corrispondere a tal nome! Senza contare il suo sterminato circuito, tutto è a rovescio là dentro.
Le città forti o sono in piano o, più dv frequente, salgono a misura che dalla periferia si muova verso il centro. L'ideale di esse è anzi che la rocca, la cittadella munita, ove in caso d'assalto si tenterà l’ultima difesa disperata, sorga nel bel mezzo e domini i caseggiati circostanti. Quivi il re, dalla sua sede, con occhio vigile, con solerte attività, dirige l'insieme delle cose, quasi mente che presieda alle varie membra cooperanti nel medesimo fine. Nell’Inferno invece la città sprofonda, via via che uno s’inoltri, e

Lo imperador del doloroso regno

si trova relegato nel «più basso loco e più oscuro», fitto senza speranza di ricupero nella ghiaccia dei traditori, con le tre bocche orridamente tappate da quegli stessi colpevoli dei quali è carnefice ma, ben si può dirlo, vittima ad un tempo. Egli non sa, non ordina, non dirige. I suoi ministri fanno quanto il brutale istinto lor suggerisce, movendo per esempio ad inconsulte e parziali ribellioni, sul genere di quest’ ultima dall’angelo sì presto domata.
Quando facciamo il nostro ingresso in una città consueta, subito ci colpisce l’aspetto bene ordinato delle case, ove s’ agita una vita operosa: il brusio della gente affaccendata nei suoi diversi negozi ci percuote dolcemente l'orecchio, quale un inno sereno alla Provvidenza, che all’uomo comanda d’adoperarsi in vantaggio dei fratelli presenti e lontani... Laggiù per contro domina sinistramente un cupo silenzio, solo interrotto dalle strazianti urla dei torturati, che piangono i loro «eterni danni».
A destra, a manca, per quanto la vista può stendersi avanti, null'altro si scorge fuorché un vastissimo cimitero, di cui non è difficile formarsi un adeguato concetto seguendo l’efficace descrizione del testo; ma che riuscirebbe molto più impressionante, se fossimo in grado d’affissarci con pienezza nei termini di confronto escogitati dal poeta, per chiarire il proprio pensiero.
Nell'età dantesca la città d’ Arles — giacente alla sinistra del Rodano, proprio nel punto dove il fiume si parte in due rami principali e, frazionandosi quindi in altri corsi secondari, dà luogo alle note Bocche del Rodano — era cospicua tra altro per un suo famoso sepolcreto a un paio di leghe dalla città, in un territorio detto Aliscamps, corruzione del classico nome primitivo Elysii Campi. Anche oggi durano vestigia non trascurabili di siffatte tombe; ma la distruzione di molte e i lavori di cultura del terreno circostante tolgono moltissimo all'effetto che dovevano destare secoli addietro, allorché per giunta un gran velo di leggende alitava sul sito, infondendo altra solennità e tristezza alla malinconica dimora.
Per noi si tratta semplicemente d’un interessante sepolcreto romano, formatosi secondo il rito medesimo che fiancheggiò di monumenti funebri la via Appia di Roma, proseguito poi e reso sempre più ricco di tombe durante l’alto medioevo. Il fatto non parve così semplice in un’età immaginosa e cupida di leggende. Quel cimitero s’affermò consacrato da San Trofimo, ancor nel primo secolo dell’era cristiana, e la fede che Gesù Cristo fosse allora comparso personalmente al Santo suo devoto, promettendogli speciali grazie per i sepolti là dentro, aveva accresciuta la fama di quella sede di supremo riposo, singolarmente preferita per i morti a sostegno della fede, nelle lotte contro i Saraceni. Ecco perché la celebre Historia Karoli Magni et Rotholandi, attribuita a Turpino, vuol sepolti «apud Arelatem, in Aylis campis» una parte dei morti nella dolorosa rotta di Roncisvalle; ecco perché nel medesimo sepolcreto si fecero riposare altresì gli uccisi d’altre battaglie, massime d’una sanguinosissima che sarebbe stata perduta da Guglielmo d’Orange contro gl’ infedeli: tradizione narrata con epica ampiezza di contorni in uno dei tanti poemi dedicati a Guglielmo dalla Francia medioevale, e intitolato Aliscamps, dal luogo dove la mischia si sarebbe svolta più feroce.
Ma più che i modi e le forme assunti dalla leggenda per ispiegare l’esistenza di tanti monumenti, preme l’immaginare come queste tombe apparissero nella loro struttura e nell’ insieme, perché a ciò specialmente s’arresta la dantesca similitudine. Consta adunque che trattavasi di sepolcri marmorei in forma per lo più di grandi casse quadrate, disposti senza un ordine prestabilito, sormontati da enormi coperchi pure di pietra, col tetto spiovente, fregiati d’ ornamenti e d’inscrizioni. Secondo una tavola riproducente il cimitero d’Arles da un antico disegno, inserita per cura d’ Edmondo Le Blant in un reputato volume sopra questi sarcofaghi, alcuni portavano tuttavia il detto coperchio, altri molti erano invece scoperchiati. Le loro grandi proporzioni attestano come fossero destinati ad accogliere ciascuno diversi morti: anzi una specie di diaframma, che divide l'interno di alcuni, lascia indovinare come due categorie di cadaveri potessero persino essere accolti in un medesimo avello, pur rimanendo nettamente distinti. Tombe pagane e cristiane erano frammiste, contrassegnate le seconde dall’ emblema della croce.
La rispondenza tra il sepolcreto arelicense e quello immaginato da Dante non potrebbe pertanto essere più perfetta. In entrambi i grandi avelli quadrati, ricettacolo d’un gran numero di defunti, senz’ordine d’allineamento, coi coperchi sospesi. Nelle tombe provenzali, infedeli e cristiani: in quelle di Dite, si capisce, tutti quanti sono in ira di Dio, ma pure vi troviamo persone vissute prima di Cristo e dopo, colpevoli in sostanza d’un delitto comune. Miscredenti ed eretici, essi «andavano e non sapean dove»; mentre nella loro stolta presunzione

...furon come spade alle scritture
In render torti li diritti volti.

Certo poi il modo del giaciglio, per questi peccatori, è immensamente più amaro. Tra gli avelli sono sparse fiamme d’incredibile intensità (è questa la prima volta, nell’Inferno dantesco, in cui le fiamme s’introducono quale strumento di pena), le quali accendono per tal modo gli avelli, che nessun’arte fabbrile richiede il ferro tanto arroventato, per servirsene nelle sue varie bisogne.
Or senza contare che la pena del fuoco era necessaria, dacché la relegazione degli eretici nelle tombe non è castigo per sé sufficiente, ma piuttosto immagine della loro vita terrena, equivalente ad una morte volontaria in cospetto di Dio, è facile vedere come quest’ ultima pennellata aggiunga all’ orrore dell’insieme una nota inattesa e tremenda. La vasta campagna splende d’una luce rossastra, non piovente dall'alto, ma irradiata essa medesima dalle cose. Duri lamenti

Che ben parean di miseri e d'offesi

fanno fremere in eterno l’aria «senza tempo tinta»; e il poeta, allo spettacolo raccapricciante di

Umani corpi già veduti accesi

non purtroppo dissueto — colpa l'ignoranza intollerante dei tempi suoi —, avrà pensato tremando che la pena del fuoco, riservata agli eretici in terra, altro non è se non un semplice preannunzio delle torture a simili colpevoli destinate nell’ altro mondo dalla vendetta divina.
Nota opportunamente Vittorio Rossi occupandosi della similitudine finora in parte studiata, il parallelismo da essa offerto con un’altra che si troverà più sotto, nel canto XV° dell'Inferno, dove gli argini del fiume Flegetonte vengono paragonati alle dighe dai Fiamminghi erette contro l’infuriare delle onde marine e, insieme, ai ripari che i Padovani con tanta cura costruivano e conservavano lungo il corso della Brenta

Per difender lor ville e lor castelli.

Dante sicuramente conosceva di veduta queste seconde opere di munizione, mentre le altre «tra Guizzante e Bruggia» le avrà con maggior verosimiglianza sentite magnificare dai molti concittadini che nell'età di mezzo, per ragioni di commercio, solevano frequentare le terre di Fiandra. S’egli nomina le une e le altre, è perché una spontanea associazione di idee richiama, accanto al ricordo di cose osservate, quello d’altre da noi intese menzionare come ad esse conformi. Tornando dunque al caso nostro, quasi fuor di dubbio l’Alighieri avrà visitato di persona il cimitero d’Arles. Per non insistere su fondatissime congetture biografiche atte a giustificare il suo passaggio dalle regioni della bassa Provenza, l’allusione al Rodano che «stagna», piena di verità e contraria alla più comune credenza che faceva del Rodano un fiume impetuoso dalle Scaturigini alla foce, la sorprendente simiglianza raggiunta nel descrivere le tombe, sono altrettante conferme dell’asserto, dai dantisti ormai universalmente accettato.
Ma qui l’autore, presso al ricordo d’ Arles, ne pone pure un secondo, quasi a rincalzo:

Sì com’ a Pola presso del Quarnaro,
Che Italia chiude e suoi termini bagna.

Fanno i sepoleri tutto il loco varo;
Così facevan quivi d’ ogni parte...

Pola come si sa, è nella punta meridionale dell’Istria, distesa a specchio sopra una baia profonda. Essendo stata fin dai tempi romani una delle prime stazioni navali dell’Adriatico, conserva ancora in molti edifizi (tra cui un magnifico anfiteatro) i ricordi della passata grandezza, assai decaduta nei secoli posteriori, massime per le devastazioni sofferte or dai Genovesi ed ora dai Veneziani, nelle ostinate guerre combattute durante l’età di mezzo dalle due repubbliche rivali. Poco lungi dall’ abitato, nel luogo detto Prato grande, si schiude una conca piatta limitata da un colle, che le dà apparenza di un naturale anfiteatro o d’un ippodromo. Qui cera l’antica necropoli, stesa lungo la via maestra, giusta la consuetudine romana. Le tombe, oggi disperse e solo in piccola parte visibili nel museo cittadino, dovevano esservi assai numerose. Lo attesta Benvenuto da Imola, che sentì dire sommassero a circa settecento, e lo conferma Ser Mariano da Siena, nel Diario d'un suo viaggio al S. Sepolero (1431), ove scrive: «Il 26 aprile noi giungemmo in Istria alla città di Pola, ove trovammo un edificio simile al Colosseo di Roma e molte altre ragguardevoli costruzioni. Quivi trovammo pure una così grande quantità di tombe, fatte tutte d’ un pezzo, come arche, che incredibile ne riescirebbe il numero, e contenevano esse molte ossa».
Per darci ragione d’un sì gran numero di sepolcri, non importerà forse raccogliere l’opinione del predetto commentatore imolese, che i morti fossero trasferiti nel sepolcreto di Pola anche da altre provincie vicine, quando si sappia che persino le famiglie men facoltose della città potevano concedersi il lusso d’un monumento, grazie alla vicinanza di cave di pietra facilissima da lavorare, appena tratta dal monte, mentre s’assodava via via, esposta che fosse agli agenti atmosferici. Già nel 1458 uno statuto di Pola comminava pene a chi comperasse, vendesse o spezzasse di queste arche; ma pare che il decreto non sia stato ascoltato!

Fu Dante anche a Pola? Una locale tradizione lo sostiene, aggiungendo ch’egli fu ospite dei Benedettini a San Michele in monte, un monastero d’onde la conca delle tombe magnificamente si prospetta. Tuttavia sarebbe temerario l’affidarsi ad ogni allusione topografica dantesca, per inferirne che il poeta dovè sicuramente aver visto tutti i luoghi da lui nominati.
Se per ammettere una sua gita in Provenza si hanno validi motivi, non è lo stesso circa a Pola, indicata con determinazione molto meno precisa: «presso del Quarnaro». Anzi l'osservazione di Vittorio Rossi sopra riferita contribuirà a mantenerci nel dubbio, dal quale è impossibile d’ uscire, allo stato presente delle nostre conoscenze.
Ma oltre ad un possibile accenno biografico, racchiudono qualcosa di più e di meglio questi due versi, che provano anche una volta come e perché Dante Alighieri sia il vero poeta nostro, l’anima immortale, la voce parlante del popolo italiano. Questi due versi, antichi ormai di sei secoli, scuotono le intime fibre dei nostri fratelli irredenti tal quale come quelli scritti ieri, può dirsi, dal Carducci:

Salutiamo il divin riso dell’Adria
fin dove Pola i templi ostenta a Roma e a Cesare.

Essi sono un vivo monito per noi, ahi! non tutti né sempre ricordevoli, che il golfo del Quarnero chiude l’Italia e ne bagna i termini naturali. In questo, in altri simili passi, parla per bocca del Poeta la coscienza della Patria, suscitando memorie, rivendicando diritti troppo a lungo conculcati.
Basta che a ciò solo si pensi, per riconoscere come non un vacuo esercizio di retorica, non una moda del giorno ci persuadano a svolgere con lungo studio ed amore le pagine della Commedia; industriandoci per quanto è da noi a renderle ognor più care e insieme più popolari, di quella popolarità bene intesa, che non può mai mancare alle opere grandi veramente.

Date: 2022-01-09