Per questa selva oscura. La teologia poetica di Dante [Giulio D'Onofrio]

Table of contents

Dati bibliografici

Autore: Giulio D'Onofrio

Tratto da: Per questa selva oscura. La teologia poetica di Dante

Editore: Città Nuova, Roma

Anno: 2020

Pagine: 54-71

1. Allegoria e metodo

Nel loro rapporto con la coerente e complessa testualità della Sacra Scrittura, sia Dante, sia Bruno di Segni sono parallelamente, anche se a distanza, caratterizzati da una significativa convergenza di originalità innovativa e fedeltà alla tradizione. La chiave che consente loro di accedere a tale doppio spessore è il riconoscimento della capacità, propria di ogni autentico sizb0/o scritturale, di godere di una ricca potenzialità ermeneutica che consente di renderlo riferibile insieme a più realtà, cose, azioni, nozioni e parole contemporaneamente. E questa è proprio, in particolare, una peculiarità che emerge negli scritti di entrambi a proposito della ‘figura’ della «selva», il cui uso appare particolarmente adatto alla finalità di descrivere genericamente un luogo di oscurità (platonicamente contrapposta alla luce), disorientamento, incertezza e impedimento, che solo l’aiuto divino può condurre l’uomo a superare; e tuttavia è in grado di farlo applicando le molteplici e diverse sfumature di una speciale polivalenza allegorica.
È noto che il termine allegoria (dal greco άλλος άϒοϒρεύειν) significa ‘parlare altro’, ‘dichiarare altro’, al di là di ciò che ‘normalmente’ comporta la denominazione, come strumento semantico, dell’oggetto di tale predicazione. Il senso allegorico non è però ‘anormale’ o ‘artificiale’ rispetto alla natura della cosa designata dal nome, ma si produce proprio come un incremento naturale — favorito dal contesto in cui il soggetto lo rinviene, oppure lo colloca e lo giudica — della sua capacità di conoscere e determinare. Sono ritenuti tradizionalmente legittimi portatori di un significato ‘altro’, nel mondo antico e medievale fino al Rinascimento, i termini significanti usati nelle composizioni poetiche e nei discorsi teologico-religiosi . Tra questi due ambiti è però opportuno indicare una precisa diversità di impiego e di finalità.
L'allegoria poetica si basa sul principio secondo cui allo scrivente, condizionato dalla metrica, dalla rima e da altre regole formali di volta in volta scelte e rigorosamente applicate, è riconosciuto il diritto di travalicare o ridurre di propria iniziativa, e a seconda di sue necessità compositive, il limite imposto dalla consuetudine all’uso quotidiano e alla scelta di parole e significati. Egli può così affidare all’immaginazione il compito di invitare l’intelligenza del lettore-ascoltatore a cimentarsi nello scoprire il ‘nascondersi’ intenzionale del valore significante ulteriore del dictum sotto, e oltre il velamen apparente del significato primario.
Di altro genere è l’allegoria religiosa o teologica, indispensabile per illustrare il significato di termini e parole che si ritengono pronunciati o almeno ispirati da una sorgente divina (il Testo sacro della religione riconosciuta come vera), nonché la verità delle res, corporee o puramente intelligibili, che sono significate da tali parole: il che vuol dire da una sapienza infinita, che, essendo il Principio stesso che fa essere ed essere vera ogni cosa, quando parla alle creature nel loro linguaggio svelandosi liberamente e mostrando nel finito l’apparire della sua infinità, in ogni parola che pronuncia può riversare un numero illimitato di significati, di realtà e di verità . Perché possa sciogliere l'arcano e renderne condivisibile con altri, ossia con la comunità ecclesiale, il significato più profondo e nascosto, è qui richiesta all’interprete non un’abilità ‘enigmistica’, ma una vera e propria virtù ‘divinatoria’, che può essere evocata e resa operante solo da una concessione divina (come si riteneva, nel Medioevo, che fosse accaduto in particolare a Mosè, quale autore del Pentateuco), non da una capacità naturale. Come si diceva qui sopra a proposito del confronto fra Bruno di Segni e Dante, nel caso del ‘discorrere’ divino il compito dell’ermeneutica non è semplicemente allegare al significato evidente (storico) un ulteriore, determinato significato nascosto (allegorico), perché la rivelazione, se veramente scaturita dalla volontà e dal pensiero di Dio, deve avere sempre e in ogni sua pur minima piega, il potere di significare verità infinite e infinitamente connesse. La mente di colui che crede nella Scrittura deve dunque soltanto lasciarsi condurre da una abile guida ermeneutica (un maestro competente e, a sua volta, ispirato), nel passaggio dallo spunto significante iniziale (come l’arca di Noè intesa semplicemente come imbarcazione), per accedere a una fioritura di ulteriori verità, tra loro tutte concatenate e rese vere più da questa stessa concatenazione che dalla loro semplice verosimiglianza naturale (nell'esempio l’arca che galleggia sulle acque come via per la redenzione, come rappresentazione della comunità ecclesiale, della eterna compagine dei beati, ecc.).
Il principio che sostiene e giustifica l’uso del z2etodo allegorico nell’esegesi teologico-scritturale è dunque chiaro: poiché la verità in sé è divina, ogni espressione naturale o artificiale che tenta di costringerla in un ‘discorso’ o in una ‘figura’ sarà sempre principio di un innalzamento ulteriore dell’intelligenza verso lo schiudersi di molteplici e ulteriori significati, sempre concessi e misurati dalla Mente di Dio; cosicché l’allegoria teologica è sempre un parlare infinito, quasi la costante, sempre rinnovabile allegoria di un’allegoria.
Man mano che l’allegoria teologica sviluppa e arricchisce i propri strumenti espressivi, ogni verità particolare mostra di essere una minima particella, limitata e quindi incompiuta e imperfetta, di un’unica idea universale condivisibile (ed effettivamente condivisa nello stato di grazia, prima del peccato e dopo la glorificazione nella beatitudine) da tutte le menti capaci di intendere. Agostino illustra questo principio al termine del penultimo libro delle Confessiones, esplicando la ragione fondamentale che lo spinge a desiderare, dall’alto della sua responsabilità pastorale, di poter enunciare, raffigurare, comunicare, predicare, e soprattutto scrivere (per farle sopravvivere al passare distruttivo del tempo) le parole che solo se pronunciate nel loro inesauribile insieme (e solo Dio può farlo) esprimono tutte, e dunque ciascuna singolarmente, la puntualità inafferrabile dell’assoluto. Gli uomini potranno invece sempre e soltanto pronunciare di tali parole quelle che lo Spirito di Dio, che è la sua Verità, ha voluto farci ascoltare.

Ecco, Signore mio Dio, quante cose, con così poche parole, quante cose ho scritto, Dio mio! E dove troverò la forza per raccontare tutti i tuoi libri, in questa sproporzionata differenza tra il mio dire e ciò che essi contengono? (...) E se alla fine non ci sarò riuscito, che io possa almeno dire ciò che la tua Verità avrà voluto dire a me per mezzo delle parole di Colui al quale, pure, ha detto ciò che ha voluto dirgli .

L'allegoria non è più in età medievale soltanto uno strumento retorico, ossia di persuasione e facilitazione della comprensione, perché è ormai diventata, su questo versante teologico, uno strumento della conoscenza metafisica. Parlare di sé agli uomini significa in Dio, con progressivo incremento della nostra comprensione della sua realtà, parlare di noi a Dio e di Dio agli uomini, atto bifronte perfetto, insolubile e perpetuo, nel riflettersi reciproco del Creatore nella creatura. Con una bella, famosa immagine, da vero poeta (o filosofo-poeta anch'egli), il grande pensatore Giovanni Scoto Eriugena, attivo alla corte di Carlo il Calvo, sintetizza nella sua opera maggiore, il Periphyseon, nella matura età carolingia, questo pensiero agostiniano:

Il significato intelligibile delle divine parole della rivelazione è molteplice e infinito. La stessa cosa accade nella coda del pavone, che è in sé una, unitaria e singola, ma in essa, in ciascun unitario e singolo punto di una piccola sua parte, si coglie con lo sguardo una stupefacente e bellissima varietà di innumerevoli colori .

Spesso gli storici del pensiero teologico medievale fondano le ragioni e l'esercizio dell’allegoria su un principio formulato in quest’opera (solo incidentalmente, a dire il vero) dallo stesso Giovanni Scoto, secondo cui «non c'è nulla tra tutte le cose visibili e corporali (...) che non significhi qualcosa di incorporale e di intelligibile» . Tale affermazione non riduce la funzione allegorica alle sole entità corporee, ma mira a evidenziare la capacità, che deve essere riconosciuta, sempre e ovunque, a qualsiasi creatura — sia corporea, quindi, sia spirituale, sensibile o intelligibile —, a significare una teofania ossia una testimonianza dell’opera del Creatore, e quindi un’immagine di qualcosa della sua verità. Nel suo Commento al Vangelo di Giovanni, in effetti, l’Eriugena stesso comprende tra i termini veritativi che possono essere soggetti di discorso allegorico non soltanto tutte le cose realmente esistenti, ma anche le parole stesse usate nella rivelazione sia per designare cose, sia per enunciare parole che vogliono essere soltanto parole, ovvero sentenze, comandamenti, sanzioni, istituzioni sacre e così via, che proprio in quanto vengono pronunciate dalla voce infallibile e sempre feconda di Dio sono certamente anch'esse portatrici di un’infinità di significati . Nel primo caso, secondo Giovanni Scoto, le parole che, oltre se stesse, significano altre cose storicamente reali (allegoria et de dictis et de factis), sono dette mysterium, come l’arca di Noè o le piaghe d’Egitto, che significano oltre se stesse anche altro, come la Chiesa per l’arca e la penitenza per le piaghe; quelle invece che hanno valore soltanto in quanto parole (de dictis, o de verbis, non autem de factis), che siano comandi apparentemente privi di senso (per esempio il divieto di cuocere il capretto nel latte) o viceversa enti o eventi non reali ma palesemente densi di significato etico e teologico (come le parabole, non realmente accadute ma raccontate da Gesù), sono dette symbolum .
Una ulteriore partizione normativa delle più usuali forme di allegoria, che ebbe efficacia effettiva nel Medioevo presso gli esegeti (di testi sia biblici, sia poetici, e, più o meno, filosofico-teologici, come la Consolatio boeziana o il Timeo tradotto da Calcidio), è riportata ordinatamente e in obbedienza con le classificazioni della retorica tardo-antica dai grandi enciclopedisti dell’età romano-barbarica, come Isidoro di Siviglia e, soprattutto, Beda il Venerabile: l'emergere di un significato diverso da quello originario delle parole pronunciate e delle cose significate può essere impostato come ironia (quando si dice una cosa e se ne significa il contrario), antifrasi (l'ironia concentrata in una parola sola), enigma (un asserto il cui significato è oscuro ma viene affidato a parole somiglianti), carientismo (che sminuisce con parole lievi una cosa grave), paroemia (un proverbio adattato al variare di tempi e cose), sarcasmo (irrisione ostile), asteismo (deprezzamento di qualcosa solo apparente, per evidenziarne invece e lodarne i pregi). Tutte illustrate dagli enciclopedisti cristiani sulla base di esempi dedotti dalle sacre Scritture, anche queste categorie consentono di precisare, con maggiore attenzione al dettaglio, le varie tipologie di lettura allegorica dei signa .
Si può ancora aggiungere che nell’orizzonte teoretico degli autori dell’alto Medioevo una medesima res può valere come capace di significare tanto una verità singolare, ossia individuale, soggetta all’accidentalità e alla mutevolezza, ovvero sottoposta ai condizionamenti spazio-temporali, quanto invece può avere capacità di significare una verità universale, unificando in sé, cioè in un unico significato tutta una realtà complessa e unitaria, che partecipa di connotati condivisi e in quanto tali inalterabili ed eterni: come la comunità ecclesiale, o anche l’intero genere umano. Così, per esempio, nel paradiso terrestre il peccato originale è stato compiuto da due individui singolari, responsabili per se stessi in quanto tali, ma anche — e questo è appunto il risultato di una corretta applicazione del metodo allegorico — da due entità universali, la cui responsabilità etica coinvolgeva nell’atto peccaminoso il genere umano intero .
Si intende però con facilità quanto sia paventabile e concreto, nell’esporre e utilizzare prevalentemente nell’esegesi scritturale il senso allegorico, il rischio di applicare male tale metodo e di sminuire — per un eccesso di immaginazioni fantastiche — la portata storico-escatologica dell’evento religioso, riducendolo solo a una categoria ideale: così per esempio il sepolcro di Lazzaro potrebbe diventare il simbolo dell’umanità chiusa nelle conseguenze del peccato e liberata da Cristo, ma a scapito di un adeguato apprezzamento della verità dell’evento storico narrato nei Vangeli e, soprattutto, della capacità reale di Cristo, storicamente manifestatasi, di far risorgere i morti . In un libricino polemico contro gli origenisti di Girolamo di Stridone, il Contra Iohannes Hierosolymitanum, gli esegeti dell’alto Medioevo potevano trovare più di una formulazione di questa denuncia: la massima pericolosità di un troppo libero e spregiudicato esercizio dell’allegoria (allegorizare) non consiste nella possibilità di una deformazione fantasiosa e irregolare delle corrispondenze tra signum e significato, ma nel tentativo da parte degli intellettuali pagani e non credenti (ovvero dei filosofi platonici tardo-antichi) di mettere il metodo allegorico al servizio di sistemi di pensiero troppo terreni e razionalistici, con pericolose derive di ordine materialistico: così, per esempio, la riflessione filosofica prevaleva ingiustificatamente, e quindi erroneamente, sulla fede, quando gli origenisti pretendevano di attribuire un valore soltanto allegorico (allegorizare) alle pagine della Bibbia contenenti immagini o parole che potevano contraddire le loro dottrine, soprattutto quelle più ardite .
Una delle testimonianze più importanti su tale metodologia è però quella di un famoso pro-memoria per il lavoro dell’esegeta consegnato da papa Gregorio I il Grande (Magno) († 604) al testo dell’epistola Ad Leandrum, da lui collocata in ouverture dei suoi Moralia in Iob. Indirizzata al vescovo Leandro di Toledo († 600 ca.), fratello di Isidoro di Siviglia, è un testo fondamentale per la comprensione dell’ermeneutica sacra del Medioevo. Intere generazioni di commentatori biblici di area monastica l’hanno accolta come una sintesi di norme generali per la costruzione di una lettura allegorica del Testo sacro metodologicamente fondata. Rispondendo immediatamente alle perplessità di Girolamo, Gregorio assicura che prima di tutto il dato scritturale, immagine o parola o azione, può essere portatore di una valenza simbolica solo se è già carico di una prima capacità di rendicontazione storica, relativa agli eventi della vita dei singoli individui oppure concernente i destini di una nazione, un popolo o dell’intera umanità. È solo dopo essersi assicurato questo primo significato storico-letterale che l’esegeta può passare a una ulteriore e più profonda meditazione su una eventuale inclusione dell’evento, o del personaggio, o dell’oggetto, entro una griglia di dati simbolici carichi di importanti risvolti dottrinari. È chiaro quale sia la disciplina di base che ispira questo secondo livello del senso allegorico-teologico: al Testo sacro deve comunque essere garantito un significato spirituale vero, qualsiasi esso sia, atto a colmarne l’eventuale banalità o ripetitività o semplificazione possibile entro i confini del significato storico-letterale. Per le stesse ragioni, la comprensione del testo rivelato è completata, come terza ed ultima norma ermeneutica, dal riconoscimento, anch'esso ineludibile e necessario, di un senso allegorico-morale che evidenzia sempre la presenza universale del volere divino, in ogni cosa creata, come principio di legislazione incondizionata. I tre livelli, anche se non immediatamente evidenti, devono poter essere individuati sempre e in ogni minimo frammento del Testo rivelato, in subordine, ovviamente, alle capacità effettive, ma anche alla disciplina intellettuale di ogni singolo interprete .

2. Dante allegorizans

Varie sono state, nel corso della storia del Cristianesimo antico e medievale, le varianti a singole applicazioni di questi princìpi da parte dei principali teologi ed esegeti. Lo stesso Bruno di Segni sembra quasi voler assicurare ai criteri generali di Gregorio una validità concreta e costante nell’intero sviluppo della sua lettura allegorico-spirituale del Testo sacro, pur esibendo un esclusivo interesse per la sola portata spirituale e dottrinale dei simboli veterotestamentari: egli non manca, del resto, di mostrarsi pronto a denunciare i pericoli di una esegesi troppo disinvolta nel distaccarsi dalla solidità del senso letterario, ovvero dalla certezza degli eventi storici (fatti e detti) sui quali va a innestarsi ogni lettura simbolica, che non proceda nel rispetto di regole vagliate da secoli di tradizione e garantite dalla superiorità dell’ispirazione profetica che le ha dettate. Ha messo quindi prima di tutto al sicuro la verità storica delle narrazioni bibliche, poi ha dedicato il suo commento esclusivamente alle proprie intuizioni allegoriche, ma mettendo in atto una speciale capacità di consolidarne l’insieme complessivo nella composizione di un sapere assolutamente armonico e compatto . Di fatto egli vanta la positività di questo suo metodo assicurando che ogni sua proposta di interpretazione allegorica è sempre e soltanto fondata sul testo della Bibbia, e mai su altre pretese fonti di veridicità come le opere di scienziati o di poeti.
L’allegoria poetica è invece figlia di un sapere che può vantare risvolti di vario tipo, morale, antropologico, cosmologico, o anche semplicemente di genere variamente erudito. Nel contesto dei commenti ai grandi classici della poesia latina la prassi allegorica si è generata in Occidente proprio innestandosi sul fiorente albero della letteratura esegetica biblica, ma ha presto cominciato a vivere di vita propria, dando vita anche ad opere palesemente fondate sull’elaborazione di figure simboliche e vicende favolose. Così, partendo dalla potente sistematicità figurale della cornice mitologica inventata da Marziano Capella nei primi due libri del suo De nuptiis Mercurii et Philologiae per raccontare l’origine divina del sapere compendiato nella didattica delle arti liberali, il pensiero medievale, mescolando filosofia e teologia, ha prodotto anche i propri repertori di figure allegoriche impegnate nel condurre la mente umana ad ascendere, seguendone le avventure e imitandone la dignità etica, verso la perfezione conoscitiva e morale . Hanno così visto la luce fin dal dodicesimo secolo testi sperimentali che hanno fatto da apri strada per l’intero genere allegorico-poetico, poi destinato a sviluppi incalcolabili soprattutto a partire dall’età di Dante fino a tutta l’età umanistico-rinascimentale e moderna: dal De mundi universitate di Bernardo Silvestre al De planctu naturae e all’Anticlaudianus di Alano di Lilla .
Privo in origine di criteri metodologici adeguati, il sapere poetico-allegorico medievale si è riversato sull’ampio genere letterario della versificazione, ricalcando fin dall’inizio le metodologie prescritte dai Padri, e in particolare da Gregorio Magno nell’Ad Leandrum, per l’interpretazione delle figure significanti nei testi profetici e scritturali. Così — soprattutto, ma non soltanto, in alcuni contesti particolari, come quello del commento al libro dei Salmi e quello dell’interpretazione del Cantico dei Cantici, oppure, sul versante profano, nei commenti al De nuptiis di Marziano Capella — l’allegoria ha mostrato di non dover necessariamente essere scissa su due versanti contrapposti, quello religioso-scritturale e quello erotico-naturalistico, ma di potere anche introdurre all’interno del rigido schema tripartito gregoriano una quarta possibile regola compositiva: il poeta è un interprete delle cose non dicibili e non evidenti, illuminato da una ispirazione peculiare, distinta da quella del profeta, che considera il testo come un contenitore, in sé pieno e immobile, di immagini da decifrare. Per il poeta, invece, il significato simbolico precede il simbolo significante, fatto di parole e forme corporee: egli dapprima progetta il messaggio interiore, e poi cerca e isola, e distingue su vari piani (storico-letterale, morale, anagogico), le immagini che ne consentono l’incastonarsi, con tutto il loro fascino in parte esplicito e in parte nascosto, nel resoconto narrativo. Così, per esempio, in Marziano le sette arti, o meglio i loro contenuti dottrinali, sono l’oggetto da nascondere dietro le personificazioni femminili caratterizzate nell’abito e nell’atteggiamento da elementi di peculiarità facilmente decifrabili dal lettore; e non diversamente, ancora assumendo l’abito indissolubile di una maestosa figura muliebre, la Filosofia della Consolatio di Boezio reca nel dialogo con lo sventurato discepolo e mette in pratica tutti i contenuti del sapere scientifico e tutte le forme delle facoltà conoscitive dell'anima umana. Poiché si ricollega al risvolto dell’attrazione pulsionale esercitata dal potere nascosto del simbolo sul soggetto necessitante di aiuto o di guida, non è in effetti casuale che sia molto diffusa nel contesto tardo medievale la personificazione di arti, nozioni o discipline del sapere nei panni di fascinose e altere ‘donne’ dominanti. Ma questa è soprattutto una tendenza, e non esclusiva.

La teoria dantesca sul metodo dell’allegoria è esplicitamente tracciata dal poeta all’inizio del secondo trattato del Convivio (il che vuol dire, in riferimento al commento delle canzoni filosofiche da cui doveva essere costituita secondo il progetto originario l’opera vera e propria, dopo il primo trattato che svolge la funzione del proemio ). Concependola nelle forme di un commento a testi poetici da lui stesso composti, Dante si allinea fin dalle premesse alla preferenza per l’applicazione metodica dei criteri ermeneutici della poesia allegorica : in quanto poeta compositore del testo commentato, egli stesso individua dunque le figure simboliche adeguate al suo scopo e le immette nell’esposizione, di senso compiuto, di una storia o una descrizione unitaria (ed è questa la storia ‘esteriore’, che si mostra «di fuori», narrata nelle canzoni); ma sceglie tali figure (parole e/o eventi, ossia dicta e/o facta) e dà loro forma poetica (nel rispetto delle leggi formali del poetare) a seconda della capacità, che gli sembrano avere, di divenire segni, ovvero di significare qualcosa di più profondo, che è connesso solo accidentalmente con la trama del racconto (e che quindi «si nasconde» in essa). La «figura» è infatti sempre un ‘segno’, che mostra, fa vedere o fa percepire qualcosa che non è mai identico al suo stesso mostrarsi, perché ne è sempre un ‘risultare’, un venire ‘fuori’, ossia un ‘fenomeno’, un apparire di ciò che resta celato. Far emergere tale significato ‘nascosto’ è il compito specifico di chi voglia, tramite questo metodo, porsi come un giusto e sapiente ‘insegnante’ di verità .
Non è difficile percepire quanto il rischio più insidioso che corre la ricerca di livelli ‘sotterranei’ di pensiero e interpretazioni ‘nascoste’ nell’opera di un poeta sia lo stesso che, come avvertiva Girolamo, potrebbe inficiare la validità dell’esegesi allegorica applicata senza disciplina alle pagine della Scrittura. È indispensabile perciò — ed è un avvertimento che Dante ha ben presente — fissare un coordinamento sistematico fra le diverse allegorie che si ritiene di poter far scaturire da un insieme testuale determinato (un’opera, un capitolo, un paragrafo, o, nel caso di un poema, un canto). Ogni significato ‘nascosto’ facente parte di un medesimo insieme deve poter essere connesso con gli altri che ne sono già emersi o ne possono ancora emergere. L'allegoria è dunque sempre sistematica, non meno di quanto sia tenuta ad esserlo l'esposizione della «sentenza letterale»: e ‘sistematica’ significa qui soprattutto ‘coerente’, perché ogni aggiunta di significato a un testo non soltanto deve essere collegabile alle altre voci simboliche che vi sono racchiuse, ma deve contribuire a chiarirle ulteriormente e confermarne il senso, proprio mentre, reciprocamente, trae dal riferirsi in modo complementare a esse la prima ragione per essere ipotizzata e invocata, e sempre a completamento dell’insieme.
È chiaro, inoltre, che se il lettore deve essere in qualche modo chiamato a partecipare, e poi a dare testimonianza della lettura ‘profonda’ di cui viene a conoscenza mentre interpreta il testo poetico, il poeta è obbligato a fare in modo che il ‘nascondersi’ del senso simbolico sia almeno ‘indicato’ da opportuni ‘segni’ di riconoscimento. Egli deve, cioè, non impedire, ma risvegliare nel lettore l’attenzione giusta per riconoscere e intendere (senza presunzioni o pregiudizi, e anzi esercitando l’umile servizio dell’ascoltatore che apprende e interpreta, e non deforma il suo oggetto), la presenza di ‘indizi’ o ‘tracce’ disseminati nell’insieme testuale preso in considerazione. Tali vere e proprie ‘chiavi ermeneutiche’ sono state giustamente definite «parole segnaletiche», reminiscenze palpabili di immagini ed espressioni che si accendono nella mente quando vengono sollecitate da uno stimolo intellettuale qualsiasi, come un’assonanza, un'impressione, un ricordo .
Solo apparentemente dunque è più libero, rispetto agli esegeti biblici, ed esente da costrizioni formali l’estro produttivo di molteplici, congiunte e spesso sovrapposte «figure» allegoriche introdotte da Dante nei propri versi. La poesia classica è per lui tutta così intimamente immersa nella condivisione di verità con la religione da poter essere sottoposta anch’essa, come la rivelazione, quasi in ogni suo verso, a più stratificazioni di lettura allegorica. Senza false modestie, egli si dichiara persuaso di essere portatore con la propria arte di conoscenze ispirate, che dovranno dal lettore dotato di «intelletto sano» essere ‘allegorizzate’ perché possano farlo partecipe delle profonde conoscenze generosamente concesse all’umanità dalla grazia divina:

O voi ch’avete li ’ntelletti sani,
mirate la dottrina che s’asconde
sotto ’l velame de li versi strani .

Molti sono, come chiede di riconoscere questa terzina, i casi di allegoria evidenziati da Dante medesimo nella sua opera, parlando sia come autore, sia come personaggio. L’intera Commedia, in fin dei conti, è nella sua complessità un’allegoria dell'umanità, e di una umanità che legge e crede la rivelazione . L'esegesi scritturale è dunque per il poeta del Trecento un modello da seguire per operare, compiute le debite inversioni di procedimento, la costruzione raffinata e coerente di un sistema di pensiero. La conoscenza che Dante ha del testo scritturale è del resto vasta, approfondita e intensa. Sa riconoscere la presenza nascosta di uno o più versetti biblici in un estratto dalle sue fonti, ma sa anche, con maestria, intrecciare a sua volta le proprie parole con quelle ispirate dal «Dio che parla» nei profeti, sì da avere la capacità di penetrare il Testo sacro, sollevando il «velame» delle molteplici allegorie, nei suoi valori legali, etici ed escatologici. Con il loro conforto e il loro aiuto, potrà dimostrare di quale preziosissimo significato allegorico sia portatrice anche (se non soprattutto) la suprema raffigurazione simbolica dell’Empireo come «Mente» di Dio, nella quale riposano condividendone il pensare i santi e gli angeli e le essenze eterne.
È allegoria anche Dio? Ovvero: è allegoria ciò che viene usato dall’uomo, come parola, rappresentazione, immagine, gesto, per significare ciò che è Dio? Certo, è un’allegoria il mascheramento della sua conoscibilità dietro il suono della parola o delle parole che lo significano rivestendone l’essenza verissima sempre e soltanto con immagini terrene. Girolamo avrebbe rifiutato con energia di dare il suo assenso a questa affermazione. Ma Dante deve ubbidire alla legge fondamentale della poesia, della quale si è fatto servitore: tutto ciò che è, parla di Dio e, a un tempo, non parla di Dio. L'insegnamento metodologico di Gregorio Magno rivela qui, a questi altissimi livelli, di essere un’applicazione particolare, alla disciplina conoscitiva del testo e delle narrazioni scritturali, della teologia negativa di Agostino e dello pseudo-Dionigi Areopagita.

Cosa diremmo, o fratelli, se dovessimo parlare di Dio? Se infatti quello che tu vorresti dire, fossi riuscito a coglierlo per dirlo, allora non è Dio; se avessi potuto comprenderlo, avresti compreso qualcos'altro rispetto a Dio. Se fossi riuscito quasi a poterlo comprendere, è chiaro che ti saresti ingannato con l'esercizio stesso del tuo pensiero. Se lo hai capito, non è Dio. Se invece è Dio, non lo hai capito. Di cosa vorresti dunque parlare, se non sei neanche riuscito a comprendere cosa sia ?

Di Dio non si può parlare, se non con le parole che Dio stesso pronuncia parlando di sé e ci comunica per rivelarsi; ma con la coscienza di quanto il loro significato originale sia inevitabilmente alterato dalla razionalità creata. Come il profeta, ma diversamente dal profeta, il poeta è un ripetitore, non uno scopritore di verità. Ma gli uomini, gli altri uomini, spietatamente distribuiti tra il bene e il dolore nel «mondo che mal vive» , potranno trarre da questo progetto incalcolabili vantaggi. I dogmi — e i misteri da essi significati — potranno in questo modo, per la salvezza di tutti, credenti e non, ma a vantaggio soprattutto dei non credenti, rivestirsi di molteplici e diverse illustrazioni provenienti dal Testo sacro o dalla poesia classica forzata ad accordarsi con esso, impartite, con in mano l’ascia della critica razionale, dai maestri di Teologia in tutte le scuole del mondo. Le medesime figure si sottoporranno a spiegazioni diverse, più volte e sotto diverse prospettive, con approcci ed esiti molteplici, ma mai discordi; perché il fine di ogni cosa vera è di essere resa nota, in ogni terra, in ogni attimo del tempo, nella totale coesione di ogni verità con ogni verità, a chi è in attesa, pur senza saperlo, di un conforto, di una luce, di un aiuto, di una liberazione dagli impedimenti terreni, nella piena e definitiva sussistenza di tutto in tutto, in quella Mente che tutto conosce e tutto insegna, e che è essa stessa, in ultimo, la «dolce vita» del paradiso .

Nei paragrafi seguenti di questo capitolo si proverà dunque a sottoporre a verifica la valenza allegorica di alcuni dei più importanti tra i molteplici ‘segnali’ che Dante ha incastonato nella sceneggiatura del primo canto dell’Inferno, o Prologo, selezionando in particolare immagini e nozioni che possono essergli state suggerite da una autentica familiarità con la vasta e complessa tradizione ermeneutico-scritturale dei secoli dell’alto Medioevo e della letteratura monastica. Mantenendo fermo il criterio, che scaturisce dal modello agostiniano e dall’esplicito insegnamento di Gregorio Magno, della maggiore attendibilità di una qualsiasi interpretazione quando essa mostra di potersi positivamente incastonare all’interno di una coerente sistematicità di nozioni già acquisite sul medesimo tema o nel medesimo contesto, e di valere quindi come un contributo all’incremento di conoscenze su un determinato oggetto, tale verifica sarà articolata in base alla successione degli argomenti più coerentemente legati tra loro, in relazione ai tempi e agli spazi nei quali è collocata la narrazione: la «selva», o «valle», all’inizio del percorso terreno e ultra-terreno dell’autore; il «colle», avvio dell’ascesa e meta intravista ma non raggiunta; l’«erta», con l’alternarsi di luna e «sole» e di vizi e virtù, quale percorso incidentato e contrastato della vita terrena verso la morte; il «diserto», luogo della conversione e della scoperta di nuovi strumenti per l’ascesa, ovvero la poesia e l’esegesi, fondati sulla conciliazione e la sintesi di filosofia antica e fede, di classicismo letterario ed esegesi scritturale. Le ragioni di questa selezione di allegorie tra quelle scelte da Dante per introdurre il lettore al suo viaggio sono soltanto la corrispondenza ideale e l’inclusività reciproca del significato di ciascuna di esse all’interno di un mondo di pensiero che non può essere ignorato dall’onesto interprete dell’opera dantesca. Anziché rappresentare una costrizione formale per la libertà fantastica dell’arte, le allegorie teologiche che ne accompagnano e guidano il protagonista e il lettore nel passaggio dalla selva al monte, e le loro concatenazioni reciproche, sono per Dante sempre e solamente alcune tra le mille e più bocche per le quali riversa il proprio contenuto la sorgente inesauribile della parola poetica.

Date: 2022-01-09