Allegoria o arte? [Luigi Pietrobono]

Dati bibliografici

Autore: Luigi Pietrobono

Tratto da: Giornale dantesco

Numero: XXXVII

Anno: 1934

Pagine: 95-134

Come si legge in altra parte di questo stesso Annuario, l'illustre direttore degli Studi danteschi si prepara a dare una nuova edizione di tutte le opere di Dante, migliorate nel testo e commentate dagli studiosi meglio preparati sui vari argomenti. Perciò, prima di lanciare — com’oggi si dice — i suoi volumi, ha pensato di esporre le ragioni che lo hanno spinto a metter le mani a così nobile fatica, cominciando da quelle per le quali i lettori hanno diritto a un commento della Divina Commedia, migliore di quanti se ne posseggono, tutti, chi per una e chi per un’altra ragione, più o meno difettosi, e quindi poco sodisfacenti (1). Il difficile incarico di illustrarla da capo lo ha affidato al prof. Mario Casella, con piena fiducia «che dal suo ingegno, dalla sua dottrina e dal suo ardore noi avremo quello di cui sentiamo così vivo bisogno» (2). E lo avremo senza dubbio. Intanto, perché il direttore della bella impresa si è compiaciuto, per eccesso di cortesia, parlare anche del mio commento mettendone in luce le manchevolezze, e fa a tutti formale invito di entrare nel campo da lui lasciato «aperto alle discussioni e ai contributi», mi prendo la libertà di rispondere a certe sue osservazioni, non per difendere l’opera mia, la quale o si difende da sé o non merita d’esser difesa da nessuno, sì per esporre i motivi che ho avuti a intendere come ho inteso, sia pure a costo di dilungarmi assai spesso dalla tradizione esegetica.
Prima di cominciare devo tuttavia ringraziarlo della lode che mi fa, notando che ho sentito la forza della poesia dantesca e ho detto che «Dante è Dante, perché sommo poeta». Veramente c’è poco da insuperbirsene; perché a pensare così credo che sia la grandissima maggioranza, non esclusa buona parte di coloro che, come il Pascoli, si sono affaticati solo intorno alla struttura morale del poema e a’ suoi significati allegorici. Intendevano di aiutare al chiarimento di ciò che ancora non si era, e forse non si è, finito bene di vedere. Ma il Barbi è di una bontà senza limiti, e aggiunge come a me, quando mi misi a stendere il mio commento, «non sfuggì nemmeno che la Divina Commedia è essenzialmente una profezia» (3). Al qual proposito gli sarei molto grato se m'indicasse chi in Italia fra gli studiosi di Dante, prima che pubblicassi il mio saggio Il poema Sacro (4), avesse detto e affermato e dimostrato, con la stessa mia risolutezza, che la Commedia altro non è se non una profezia, e in questo avesse riposto il fondamento della sua interpretazione. Sebbene siano passati parecchi anni — eravamo alla vigilia quasi della grande guerra — ricordo benissimo l’esitazione che dovetti vincere avanti d’indurmi a stampare tali e quali le parole che si leggono alla seconda pagina del primo capitolo: «Nella sua intelaiatura essa (la Commedia) non è che una grande profezia, e il pensiero che la domina da un capo all’altro si assomma in un essere misterioso, il Veltro, che, non essendosi risoluto mai a diventar persona, è rimasto lì, in un cantuccio del prologo, come un nome vano senza soggetto, residuo d’un sogno nato vissuto e morto nel pensiero di Dante», con quel che segue. Ricordavo di aver letto da non molto nel Bullettino Dantesco, in un articolo del Parodi, ossia di uno de’ più autorevoli dantisti, che ci sarebbe voluto un bel coraggio a parlare ancora del Veltro; e io uscivo fuori non solo a parlare del Veltro, ma ad asserire che in esso palpitava l’idea madre della Commedia. Eravamo in tempi che, guai a permettersi di dire che il poema aveva intendimenti sopra tutto politici; c'era il pericolo di vedersi issofatto scomunicati dalla bella scuola fiorentina; e io ho avuto l’ardire o, diciamo più proprio, l’audacia di considerare la Commedia come l’annunzio della prossima restaurazione dell’Impero e, di necessaria conseguenza, della Chiesa. Perciò amerei mi si spiegasse cosa significa che a me non è sfuggito essere la Commedia «essenzialmente una profezia».
Finalmente in una nota il Barbi si compiace di scrivere che il mio commento è per certi «rispetti assai pregevole» (5); ma perché non so che l’abbia mai affermato, e qui dice che sarebbe superfluo riaffermarlo, ignorando di che mi loda, non posso ringraziarlo come si conviene (6).

Ma veniamo alle osservazioni. È verissimo che io non so rinunziare a certe idee, da lui giudicate «care immaginazioni idoleggiate nel sottile perscrutare i fini e l’arte di Dante». Non ci so rinunziare per la ragione che, facendo altrimenti, Dante non lo capirei più. Se non che, facendo come faccio, do nel sottile. A. volte, lo concedo volentieri; ma non sarebbe stato fuori di luogo il definire che cosa s’intenda per sottile. Se non sbaglio, Dante fa stima degl’ingegni sottili. E se fosse stato anche lui qualche volta sottile, e senza una certa sottigliezza non si riuscisse a scendere al fondo del suo pensiero? e io con la mia sottigliezza mi spiegassi tante cose che altri non si curano di spiegarsi?
Piglio il primo esempio che mi capita. La lupa, ne converrete, qualche male, o peccato, o vizio capitale deve certo simboleggiare. Ma quale? Ormai quasi tutti gl’interpreti più seri convengono nel ritenere che rappresenti la cupidigia. Tuttavia bisognerebbe tener conto anche di questo, direi, che essa

non lascia altrui passar per la sua via,
ma tanto lo ‘mpedisce che l’uccide: (7)

cosa che della semplice cupidigia, sebbene radice di tutti i mali, non credo sia permesso affermare, non conoscendo la dottrina cattolica una colpa, per quanto grave, da cui l’uomo, purché voglia davvero, non si possa liberare. Si è sempre detto e insegnato che la disperazione della salute è uno dei peccati più neri contro lo Spirito Santo. Come dunque la lupa avrebbe il potere di impedire a tutti la salita al dilettoso monte, a cui si ascende per mezzo delle virtù intellettuali e morali, e di far perdere a tutti «la speranza dell’altezza?».
Partite da questa che è una delle verità fondamentali della nostra teologia, e poi spiegatemi per qual ragione Dante non riesce a superare la lupa. Aggiungete che non ci riesce nemmeno con l’aiuto di Virgilio, il quale, a sua volta, accorre mandato da tre donne di cielo e fornito di speciali virtù che scendono dall’alto. Cerca e ricerca nei commenti antichi e nuovi, la spiegazione di questo fatto io non l’ho trovata. Ho potuto al contrario constatare che nemmeno gli studiosi più profondi della Divina Commedia si son dati premura di chiedersela. Forse perché sapevano che non bisogna andar troppo per il sottile, e dalle opere d’arte bisogna aspettarsi belle immaginazioni e non ragionamenti dedotti a fil di logica? Non lo sapevano; ma capisco che oggi può far comodo rispondere a codesta maniera. Chi vuole, si serva: io, anche se tutti dicessero diverso, continuerei lo stesso ad affermare tranquillamente che Dante è un poeta di così felice natura da creare una grand’opera d’arte alla cui radice è un profondo sustrato di pensiero. Concedo che questo qualche volta invade il campo della poesia e la impedisce, ma nelle parti dottrinali: non mai in ciò che concerne l’architettura del poema, che è perfetta.
Persuaso dunque per mille prove che nella Commedia, come nella natura, ogni cosa ha la sua ragion d’essere, mi son domandato qual è il peccato che offende indistintamente tutti e dal quale l’uomo da sè non vale a liberarsi; e mi son risposto, com'era inevitabile mi rispondessi: il peccato originale. Esso solo corrisponde a puntino alle qualità dal Poeta attribuite alla lupa, per- ché esso solo morde indistintamente tutti ed è tale che da noi non possiamo liberarcene. Se voi ne conoscete un altro che sodisfi egualmente alle esigenze della lettera e dell’allegoria, ditelo, e io rinunzio senza rammarico alla mia soluzione. Ma non c'è, e non potete inventarlo. La lupa di Dante si spiega solo facendola simbolo di una nuova colpa originale.
Sulle prime non crediate mi sia sfuggito che l’idea era ‘molto ardita. L'ho veduto chiaramente, e ho a lungo esitato a persuadermene ; ma dopo aver ripercorso per lungo e per largo, non so quante volte, tutto il poema, mi son dovuto persuadere che essa contiene una verità inoppugnabile. Dante grida a chiare note che il mondo al suo tempo era tornato nelle condizioni in cui si trovava avanti la Redenzione, e perciò gli uomini erano ricaduti in potere dello spirito del male. Per redimerli da questo la prima volta Dio era ricorso a un «alto e magnifico processo», a quello della Incarnazione del Verbo; la seconda manderà il Veltro, che non è di certo un altro Dio incarnato, ma un essere quasi divino, il quale si ciberà di Sapienza, che è l'attributo del Figlio, di Amore, che è l’attributo dello Spirito, e di Virtute, che è l'attributo del Padre.
Ma voi naturalmente non prestate l'orecchio a simili spropositi c preferite di spiegare le cose alla buona, molto alla buona. Sostenete infatti che la colpa di Dante in fin dei conti si riduce a esser corso con troppa foga dietro qualche falsa immagine di bene, come per esempio la «pargoletta» ; e non fate neppure il più piccolo segno di sorpresa leggendo che per così poco l’inferno schiera tutte le sue forze contro di lui perché rientri nella selva; che, per liberarlo dal meno odioso di tutti i peccati, la Regina del cielo prima deve infrangere un «duro giudicio», di cui non date nessuna spiegazione, e poi chiamar a sé Lucia; Beatrice non si fa riguardo di scendere nel Limbo a porgere, piangendo, le sue preghiere — a chi? — a un’anima perduta; che Virgilio mostra col fatto e con le parole di non aver virtù di superare l’impedimento, non delle seduzioni della lonza, come sarebbe stato naturale se si fosse trattato di colpe d’incontinenza, bensì della lupa, a rimuovere il quale viene espressamente mandato, e intanto è reso degno di condurre Dante attraverso l’inferno e il purgatorio; che Dio sceglie un suo figlio peccatore per rivelare proprio a lui un segreto della sua provvidenza e commettergli l’ufficio di darne l’annunzio; gli manda incontro, sulla vetta della santa montagna, una processione di spiriti rappresentanti la storia della Chiesa; lo fa assistere a rappresentazioni di avvenimenti, dai quali deve apprendere, per ridirla agli uomini, la cagione per cui tutti sono fuor del diritto cammino; lo fa salire, vivo, al paradiso, e di cielo in cielo manda ordini vari di beati a incontrarlo, come non pare abbia fatto mai con nessuno; lo investe per bocca de’ suoi santi e dello stesso principe degli Apostoli di una missione, che assomma in sé quella di Enea e quella di Paolo; in una parola, per liberarlo da una colpa, che perfino alla sua bilancia è la più lieve, mette in moto cielo e terra, il mondo visibile e l'invisibile.
Per voi codeste sono fantasie, più o meno belle, inventate dal Poeta per conferire una cert’aria di consistenza all’impalcatura del poema e versarvi dentro i suoi odii e i suoi amori. Ma se invece di limitarsi a rispondere che è così, perché così gli è piaciuto d’immaginare, qualcuno dimostrasse che la struttura morale della Commedia, in cambio di rassomigliare alla famosa fabbrica robusta e massiccia, a cui si è arrampicata una rigogliosa vegetazione, somiglia a un albero di maravigliosa bellezza che ha radici e tronco e rami e foglie e fiori e frutta, ma la sua linfa vitale l’attinge tutta dall’idea che l’informa? Partite da questa, dal bisogno cioè in cui il mondo si trova d’esser redento dalla nuova violazione dell’interdetto commessa da Costantino, e vedrete che il così detto romanzo teologico piglia subito l’aspetto di qualcosa di necessario e di fatale, che la sua ragion d'essere l’ha in se medesimo, e si sviluppa come dal seme, purché sia fecondato, la pianta. Ma a molti, non so perché, fa piacere di rappresentarsi un Dante che aspetta di volta in volta l'ispirazione per abbandonarvisi, senza badare a ciò che ha detto innanzi e senza sapere ciò che dirà dopo, abbastanza pago di quell’unità apparente che deriva dal suo lavoro per essere diviso in tre cantiche, come richiedeva l'argomento, composte ciascuna di trentatré canti in terza rima, più un canto proemiale con cui si fa la cifra tonda di cento, e così via. Se non che per scoprire l'unità reale del poema bisognerebbe ammettere «il rinnovamento da parte di Costantino del peccato originale»; e le persone serie questo non lo possono fare, anche per non essere trascinate fuori di strada nell’esegesi dantesca. Ma è da notare che qui «fuor di strada» significa veramente fuori della strada che a taluni fa comodo di seguire. Ciò nonostante noi insisteremo nel ripetere con Dante che l’albero del paradiso terrestre era stato dirubato un’altra volta.
Egli è proprio per ciò che davanti la porta di Dite accade quel che tutti sanno e che altrimenti non si potrebbe spiegare. I diavoli in più di mille accorrono a impedire il passo ai Poeti. Virgilio tenta di ammansirli, ma inutilmente. Non ha finito di aprir bocca che quelli più che di fretta rientrano dentro le mura e chiudono la porta in faccia «al mio segnor, dice Dante, che fuor rimase». Come mai? Non è più vero che egli era stato eletto e mandato da tre donne di cielo, perché lo salvasse dall’impedimento incontrato nel salire alla vetta del dilettoso monte e ch'e, appunto per arrivare colassù, «il mar di tutto il senno» aveva pensato e deliberato di tenere il viaggio che ora fa? Chi mi spiega come va che, a dispetto del decreto di Dio, quasi al principio del suo cammino ecco che gli escono contro i diavoli e lo fermano? Penseremo che Maria, a cui si deve se il «duro giudicio» è stato infranto, non abbia misurata bene la gravità del pericolo e si sia dimenticata di conferire a Virgilio la virtù necessaria a vincere gli ostacoli che l’inferno, ossia il male, si sarebbe di certo ingegnato di opporgli? Diciamolo pure, rispondeva quel tale; ma diremo una sciocchezza, perché nessun’anima di paradiso è potente quanto lei, e nessuna vede più addentro nella verità assoluta. Intanto, se vi riesce, spiegate che diamine avrà avuto in mente di farci intendere il Poeta, quando ha immaginato le scene dello Stige, in cui ciascuno spero riconosca e senta che l’anima di Dante vibra e si appassiona più dell’ordinario. Con la mia sottigliezza io ho veduto ‘che quei diavoli sono altrettanti lupi, e quindi autentici rappresentanti della lupa, e non mi sono punto meravigliato dello scacco sofferto da Virgilio. Non poteva vincerli per lo stesso motivo che non ha vinta la lupa Verrà chi la farà morir con doglia, aveva annunziato nella piaggia diserta; e verrà, ripete quaggiù, chi è possente ad aprire quella porta — Onde nella lotta tra il buon duca e i diavoli altro non vedo che un mirabile svolgimento del primo scontro tra Virgilio e la peggiore delle tre fiere. Viene infatti il grande, che Virgilio ha predetto venturo nel primo canto, come venturo predice qui il Messo dei cielo; ma «il savio gentil che tutto seppe» non è richiesto di aiuto. Di suo la ragione umana non ci mette nulla; essa altro non deve che credere e sperare. Sono le sole armi dalle quali ama d'esser vinta la divina volontà. Le umane. quali la sapienza, la prudenza e tutte insieme le virtù intellettuali e morali, di cui non ci può esser dubbio che Virgilio fosse in possesso, non sono bastevoli, nemmeno se ingrandite da una grazia speciale. La lupa è un male che soltanto Dio può far morire.
Ma chi ha la fortuna d’essere sulla via diritta, naturalmente deve respingere simili chiose, sia pure a patto di attribuire a Dante invenzioni contradittorie.

Esponendo al suo alunno la topografia morale dell’Inferno Virgilio esce in una affermazione ritenuta comunemente oscura. Dice che la frode morde ogni coscienza. E i suoi legittimi interpreti spiegano: «Nella frode c'è sempre il concorso della ragione, c'è sempre la consapevolezza del male, e perciò la coscienza riman sempre intaccata» (8). Come se nei peccati d’incontinenza e di violenza, dai quali la distingue, mancasse il concorso della ragione, non ci fosse la consapevolezza del male. In tal caso cesserebbero issofatto d’essere peccati; ché gli animali non peccano, e l'uomo non è stato mai giudicato responsabile di atti indipendenti dalla sua volontà, che è quanto dire dalla ragion pratica. Né più accettabili sono le altre spiegazioni che si danno, intendendo che la frode è tal colpa che ogni coscienza, anche dura, ne prova rimorso, se ne sente offesa. Qualora così fosse si verrebbe pari pari a concludere che, volendo peccare, meglio è peccar di frode, perché uno, sentendone sicuramente rimorso, più facilmente se ne può pentire; mentre le Francesche, spinte alla colpa da tanto dolci pensieri e da tanto desio, potrebbero non accorgersi del male commesso e non pentirsene. Ce ne avverte Dante in persona, allorché fa esclamare a Stazio:

quanti risurgeran coi crini scemi
per ignoranza, che di questa pecca
toglie ‘l penter vivendo e ne li stremi! (9)

Ma il sottile son io che in quel verso leggo ribadita una verità, annunziata già chiaramente nel primo canto. Con la stessa sicurezza con cui là ha affermato che la lupa non lascia passar nessuno, impedisce a tutti di salire alla felicità di questa vita e uccide, qui riconferma che la frode morde, intacca tutte le coscienze. Se non ve ne siete adombrati allora, non è ragionevole adombrarvene ora. Ora e allora dichiara che la lupa è un male, di cui soffrono tutti; e quindi un nuovo peccato originale.

Non è ammissibile, voi dite? Ebbene Gerione, «quella sozza imagine di frode» (10), che è quanto dire la frode, se non sbaglio, «tutto ‘l mondo appuzza»: tutto il mondo, avete inteso? Ma chi non vede che esso È raffigurato molto simile alla fiera che i nostri pittori hanno dipinto con seducente faccia di donna, ma con il fusto di grosso serpente attorcigliato all’albero della scienza del bene e del male? che Gerione cioè dal Poeta è immaginato tale da far ripensare alla colpa originale? Dante il suo pensiero l’ha espresso con più che sufficiente chiarezza; ma noi preferiamo sciupare il nostro tempo a discutere se la lupa rappresenti l’invidia, o la incontinenza o l’avarizia, e a tirare i suoi versi a significati impossibili.

Le anime della Tolomea e, a più forte ragione, quelle della Giudecca, rovinano in Cocito appena compiuto il tradimento. Come si giustifica? Spero che esitiate a rispondere che Dante ha rinnegato così uno dei fondamenti più certi della dottrina cristiana. La disperazione della salute lo avrà saputo anche lui che e uno dei peccati più gravi contro lo Spirito Santo. E allora, come ha fatto a immaginare che per i peccatori di quella specie non c’è redenzione? Non è a dire che sia un punto da trascurare della teologia cattolica: è una conseguenza ineluttabile di tutto l'insegnamento di Gesù. E Dante lo sa meglio di noi, se è vero che lui e non altri che lui ha posto sulle labbra di Manfredi alcune delle parole più grandi sgorgate dalla sua penna:

Orribil furon li peccati miei;
ma la bontà infinita ha sì gran braccia
che prende ciò che si rivolge a lei (11).

Intanto alle anime della Tolomea egli nega la facoltà di far ricorso alla bontà divina. Come lo spiegate? Per me la cosa non è estremamente difficile. Sono le anime di coloro che la lupa la vogliono, vogliono cioè il male che essa figura; la morte che è morte; e naturalmente l’hanno. Dio aveva detto ad Adamo: In qualunque giorno tu mangerai di questa pianta, morrai. Adamo ne mangiò, e morì, della morte, s'intende, cui genera il peccato. I Tolomei hanno fatto lo stesso; hanno violato cioè il comandamento dei comandamenti, che contiene in sé ogni giustizia, e sono irrimediabilmente morti. Ma vedo che voi stringete le labbra e dite di no col capo. Quantunque, osservate. Sarà certo un caso; ma frate Alberigo ricorda «frutta» di morte e un «mal orto»; dice a Dante: «Levatemi dal viso i duri veli», chiede gli aprano gli occhi, ma il Poeta non glieli aperse (12). Parla come per rammentarci il frutto vietato e il giardino in cui questo cresceva; e adopera frasi che rimandano a quella del Genesi, sussurrata dal diavolo a Eva: aperientur oculi vestri (13), e a quella di Dante, che deplora come la nostra madre antica «non sofferse di star sotto alcun velo» (14). Tutta la pena poi s’ispira quasi con certezza al passo di Giovanni, dove racconta che Satana prese possesso di Giuda subito dopo il tradimento: introivit in eum Satanas (15). Lo stesso, direte voi, accade ai traditori delle due ultime circuizioni di Cocito. Senza dubbio; ma c'è una piccola differenza: Giuda tradì Cristo prima della Redenzione, e frate Alberigo dopo, quando cioè non si dà peccato, per raccapricciante che sia, da cui non si possa essere assoluti.

Di che cosa furono ree le anime dei principi raccolte nella valletta amena dell’antipurgatorio? Di cupidigia, risponde il Poeta. Inveendo contro Alberto tedesco e contro il padre suo, Rodolfo d'Asburgo

che più siede alto e fa sembianti
d'aver negletto ciò che far dovea (16),

di aver trascurato cioè di scendere in Italia a sanarne le piaghe, Dante lo dice chiaro:

ch’avete tu e ‘l tuo padre sofferto,
per cupidigia di costà distretti,
che ‘l giardin de lo ‘mperio sia diserto (17).

E che cosa rappresenta «la mala striscia» che viene tra l’erbe e i fiori? Non bisogna dar retta a chi parla di tentazione, che nel mondo di là non può aver luogo e non avrebbe ragion d'essere. A partire dalla primissima schiera, la più lontana dalla beatitudine, gli abitatori del secondo regno sono tutti «già spiriti eletti» (18). Quel serpe, che proprio a modo della culpa vetus que plerunque supinatur ut coluber et vertitur in se ipsam (19), si avanza

volgendo ad ora ad or la testa, e ‘l dosso
leccando, come bestia che si liscia (20),

altro non può figurare che la cupidigia; e non qualsiasi cupidigia, bensì preciso quella per cui i nostri primi parenti commisero il peccato originale. Ce ne accerta il Poeta dicendo che essa doveva rassomigliare al serpe «che diede ad Eva il cibo amaro» (21). Poteva far intendere più chiaro di così che le anime di quei signori peccarono specialmente per essersi lasciati adescare dai blandimenti di quella cupidigia che ha guastato tutto il mondo? Invero di niente altro ora si danno tanto pensiero, quanto di pregare Dio che mandi i suoi angeli, simboli evidenti delle due autorità supreme, ossia del Veltro, che quel serpe deve ricacciare nell'inferno, come in verità fanno i due «astor celestiali», venuti ambedue dal cielo di Maria, che ha infranto il duro giudicio, e ambedue tornati

suso a le poste rivolando iguali (22).

Chi dunque non si stanca di rifar presente a’ suoi lettori che il mondo soffre dello stesso male, di cui avanti la Redenzione, il chiosatore, o il Poeta? Dall’incontro di Sordello alle sculture della prima cornice corre un pensiero solo, che mentre lo compie, fa preciso riscontro a quello che domina le scene dello Stige, nei canti corrispondenti dell’Inferno; e si spiega nel tutto e nelle parti con le Epistole, scritte da Dante al tempo della calata di Arrigo VII, e con la Monarchia. Che giova ricalcitrare contro una verità, chiara quanto la luce del sole? Il Messo del cielo, sceso ad aprire la porta di Dite e ricacciare i diavoli nel cerchio dell’invidia, adempie alla stessa funzione de’ due angeli, scesi nella valletta dei principi a fugare la biscia simile alla seduttrice di Eva; e Lucia, la donna della giustizia, che viene in forma d'aquila a pigliar Dante che dorme per condurlo davanti al Vicario di Pietro, mostra col fatto la concordia che regnerà tra le due autorità supreme dopo che il mondo sarà ricostituito sopra le due basi granitiche, su cui Dio lo ha posto, perché giunga alle due felicità a cui per natura aspira. Ma per ricostituirlo si richiede il diretto intervento di Dio. Lui solo può operare il gran miracolo; e l’opererà di sicuro. Nel canto nono dell’Inferno — il nove è il numero del miracolo — l'avvento del Messo; nel nono dal Purgatorio la discesa di Lucia con la conseguente riapertura della porta santa; e nel nono del Paradiso, senza figure e senza veli, l’annunzio del Veltro vicino:

Ma Vaticano e l'altre parti elette
di Roma che son state cimitero
alla milizia che Pietro seguette,

tosto libere fien de l’adultero (23),

ossia da quella maledetta lupa, cui, scriveva Dante ai Cardinali d’Italia, unusquisque sibi duxit in uxorem, quamadmodum et vos, que nunquan pietatis et equitatis, ut caritas, sed semper impietatis et iniquitatis est genetrix (24). E, parallelamente, nel decimo canto della prima cantica l’entrata nella vera città infernale, debellata dal Messo; nel decimo della seconda l’entrata nel vero purgatorio; nel decimo della terza l'ascensione al vero paradiso. Ma poiché il Purgatorio è il mondo che più da vicino rende l’immagine del nostro quale dovrebbe essere, ecco che nel marmo della ripa dei superbi, il Poeta ha la gioia di contemplare, scolpito dall'Eterno Artefice, il suo sogno più ardente in tre altorilievi che ne fanno uno solo: nell’angelo, che venne in terra col decreto dell'ormai prossima redenzione, la promessa che Dio soccorrerà tosto al male che della terra ha fatto un deserto; in David, che riconduce l’arca santa a Gerusalemme, la figura del pontefice che ricondurrà a Roma la sede papale; e in Traiano quella dell'imperatore che torna al suo ufficio di ministro della giustizia. «Risarà tutto quello che fu». Ma noi si dovrebbe credere che dopo l'annunzio del vicino avvento del Veltro, fatto da Virgilio ai piedi del monte, Dante se ne sia dimenticato e lo abbia lasciato lì avvolto in un’ombra da cui non sarebbe uscito mai più.

Andiamo innanzi. Per descrivere a Marco Lombardo la condizione degli uomini egli si serve di queste parole:

Lo mondo è ben così tutto diserto
d’ogne vertute, come tu mi sone,
e di malizia gravido e coperto (25);

riafferma cioè in aperto latino che dalla terra è esulata ogni virtù e la malizia l’ha ormai invasa tutta, dentro e fuori. Ma noi, per non tirare in ballo quel benedetto peccato di Costantino, non gli si dovrebbe credere: dovremmo passar oltre, osservando che il nostro Poeta non sarà stato un uomo facile a trattare. Era scontento di tutto e di tutti e inclinava troppo a veder nero. Non così veramente la pensa lui: lui solo per aver sentito dire da Marco Lombardo che nessuno più mira all’acquisto della virtù, scoppia dal desiderio di conoscere la causa di tanto male. E il bello si è che Marco, trovando la demanda degna di tutta la considerazione, gli snocciola un ragionamento in piena regola per dimostrargli che l'origine prima della grave sciagura si deve riporre nel fatto della confusione del potere spirituale con il temporale, ossia nella donazione di Costantino. E siamo al canto centrale della Commedia, e quindi all’idea in cui è la chiave di volta di tutto l'immenso edificio. Marco Lombardo parla così convinto della corruzione ormai dilagata dovunque, che scende perfino a darne una prova tangibile, soggiungendo che in tutta la Lombardia si contano appena tre vecchi — e ne recita anche i nomi — nei quali è lecito tuttavia ammirare le virtù antiche. Ma, volendo capir Dante, noi dobbiamo tener per fermo che egli si è disgraziatamente imbattuto in un brontolone suo pari, in uno di quei noiosi lodatori dell’età trascorse, per i quali il presente è solo marciume e decadenza, e tirar via. Il Poeta ci rimarrà un po’ male, perché non gli daremo retta in un punto per lui capitale; ma non importa. Non conviene poi essere schiavi della lettera fino a ricevere per vere cose che egli afferma in perfetta buona fede, ma sono incredibili.

Faremo lo stesso anche ai canti XXXII e XXXIII del Purgatorio, davanti la pianta di Adamo? Questa, cosa strana a dirsi e più strana a pensarsi, come se Cristo non ci avesse redenti, è

dispogliata
di foglie e d’altra fronda in ciascun ramo (26).

Ma ecco il Grifone lega il timone del carro al piede di essa, e in un attimo la pianta rivive; mette foglie e fiori. Dopo averci ripetuto tante volte e in tanti modi diversi che il mondo è deserto d’ogni virtù, a Dante sarà sembrato naturale che, mettendo dinanzi la fantasia de’ suoi lettori una pianta nuda di foglie e di fiori, quelli intuissero subito la somiglianza che corre tra essa e il mondo degli uomini. Ma siccome la chiarezza non è mai troppa, il Poeta. a meglio comunicarci il suo pensiero ce la descrive così fatta che di necessità, solo guardandola, siamo condotti a osservare che essa ha la forma di un cono, come il baratro infernale e come la candida rosa di paradiso. A caso, o deliberatamente? Lo so: se io mi metto a ricercare per qual ragione il Poeta si è servito dello stesso disegno per figurare l'impero di Satana e quello di Dio, forse non mi daranno sulla voce e mi lasceranno fare, troppo essendo evidente che il diavolo è Stia Dei, e ha un regno che, pur volendo imitare quello divino, viene a esserne invece l’antitesi. Ma se dico che la pianta di Adamo è stata disegnata pensatamente simile alla Gerusalemme celeste o a « quella Roma onde Cristo è Romano», allora notano che io torno alle mie «care immaginazioni»; come se per Dante, oltre «l'impero giustissimo e pio» e quello «del doloroso regno», non ci fosse l'Impero, a cui, per indicarlo, non fa bisogno si aggiungano epiteti di sorta; il qual Impero, o è giusto e pio, possiede cioè le virtù indispensabili alla felicità temporale e all’eterna, e somiglia al paradiso, o, per dir meglio, è un paradiso terrestre: o ne manca, e somiglia a una selva selvaggia e cupa, come l'Inferno. Come se Dante in persona non avesse paragonato il paradiso a un

albero che vive della cima
e frutta sempre e mai non perde foglia (27),

proprio per farci accorti che colassù le cose procedono altrimenti di quaggiù, dove accade di veder la pianta di Adamo — vale a dire Adamo e i suoi discendenti — vedova e sola, al pari di Roma, spoglia di fronde e di fiori, e al pari della generazione umana priva d’ogni virtù. Come se egli non avesse scritto della «rosa sempiterna» di paradiso che

si dilata ed ingrada e redole
odor di lode al sol che sempre verna (28);

e della pianta di Adamo non avesse avuto cura di avvertire che «tanto si dilata più quanto più è su» (29), e non avesse notato che le piante della cornice dei golosi, rampolli di quella, per far segno all'uomo di non andar su a cogliere il pomo dolce al gusto e soave a odorare, all’opposto dell’abete che «in alto si digrada» (30), digradano in basso. O come se, facendo che il Grifone leghi il carro all’albero, non avesse mostrato chiaro che se quello rappresenta la Chiesa, e fa una cosa sola col cerrum Sponse, di cui parla ai cardinali d’Italia, e con la navicula Petri (31), di cui ai Fiorentini scelleratissimi, con «l’arbore robusto» (32) potesse simboleggiare altro che l'Impero. Con quel suo atto il Grifone insegna per prima cosa che Impero e Chiesa devono stare, non uno a levante e un’altra a ponente, ma insieme uniti in Roma, la città santa preparata da Dio ai due soli ordinati a far buono il mondo. Nessun'altra interpretazione meglio di questa risponde al pensiero e alle aspirazioni di Dante. La Monarchia in tutto il primo libro grida a una voce che l’Impero è uno, non può essere che uno, non dev'essere che uno, perché solo mantenendosi tale somiglierà, come deve, al regno dei cieli; e quasi in ogni sua opera Dante dichiara che la causa precipua della corruzione del mondo si deve riporre nello smembramento dell'Impero. L'ordine di non toccar di quella pianta si risolve per il Poeta nella legge fondamentale data da Dio agli uomini: legge che, osservata, conserva l’umana società e la rende facile, non osservata, la guasta. Sopra di essa riposa la giustizia; e perciò schiantare di quella pianta, tanto vale quanto spezzare l’unità dell'Impero, togliere alla giustizia il suo fondamento. Constat, scrive Dante, quod totum humanum genus ordinatur ad unum... ergo unum oportet esse regulans, sive regens, et hoc Monarcha sive Imperator dici debet (33). E poco appresso: humanum genus bene se habet et optime quando secunduni quod potest Deo assimilatur — ecco perché ha immaginato che la pianta di Adamo somigli alla candida rosa. — Sed genus humanumn maxime Deo assimilati quando maxime est unum... quando totum unitur in uno... Ergo humanum genus uni principi subiacens maxime Deo assimilatur (34), e per naturale conseguenza obbedisce al fine per cui Dio l’ha creato.
Se non che Adamo, per istigazione del diavolo, violò l’interdetto divino e cambiò in pianto e in affanno onesto riso e dolce gioco (35). Potranno i suoi figli perpetrare la medesima colpa e cadere di nuovo in una valle di lagrime? Parrebbe di no, una volta che un dantista di tanto valore sentenzia che l’ammetterlo sarebbe una di quelle «esagerazioni che portano veramente fuor di strada l’esegesi dantesca» (36). Eppure Beatrice ci tiene assai che Dante, «se non scritto», porti «almen dipinto» nella mente quanto gli ha insegnato intorno alla pianta;

Qualunque ruba quella o quella schianta,
con bestemmia di fatto offende a Dio
che solo all'uso suo la creò santa (37).

Qualora non fosse possibile tornar a commettere la colpa di Adamo, a chi direbbe la santa donna con così acceso zelo, e perché? Mentre, non contenta dell’enunciazione della legge, continua: Se non capisci per qual motivo ila pianta è tanto alta «e sì travolta ne la cima», vuol dire proprio che il tuo ingegno in questo momento dorme. È alta quanto nessun’altra in terra e verso il basso raccorcia i suoi rami, per far intendere che nessuno vi deve salir su a scerparla (38). Ma di un'altra cosa mi meraviglierei assai, incalza Beatrice, se nell’interdetto di toccarla non riconoscessi la giustizia di Dio, non intendessi cioè che alla lettera il comando di Dio significa: Non mangiare di questa pianta, e nel significato morale: Non offendere la giustizia divina, fondamento e principio di ogni altra. Nessuno vorrà negare che qui Beatrice parli con grande calore; ma chi mi spiega perché metta tanto impegno nel dimostrare la gravità di una colpa, che nessuno più, dopo Adamo, è in grado di ricommettere? In cambio di Dante, direi che, qualora fosse proprio così, sonnecchierebbe lei. Ma la santa donna al contrario sa bene che l’uomo può ricadere in quella colpa; sa anzi che c'è ricaduto; e perché gli uomini lo apprendano senza ambagi, ordina al Poeta di ridire le sue parole tali e quali lei le pronunzia:

Ed aggi a mente, quando tu le scrivi,
di non celar qual hai vista la pianta
ch'è or due volte dirubata quivi (39).

E Dante racconta. senza metterci nulla di suo, che la pianta è stata dirubata due volte: una prima volta, da Adamo, e una seconda volta, da Costantino. Prevedo, sembra dire, che vi parrà un’idea molto ardita; ma vi prego di credere che io altro non faccio che ripetere alla lettera ciò che mi ha assicurato Beatrice, la Verità rivelata. Ma inutilmente, caro e grande Poeta! Quanto più vivo interesse tu poni nello stamparci nella mente il tuo pensiero, e tanto meno i lettori ci badano. Perciò non è da stupirsene se i tuoi interpreti. a volte, non incontrano fortuna. Non l'hai incontrata tu per primo. Forse perché, quando i tuoi segretari ti ascoltano dir certe cose, per l’amore che ti portano, non perdonano a fatiche per far credere che tu non le hai dette. Sarebbero un po’ grosse, e preferiscono naturalmente di attenuarle, o magari nasconderle. Ritengono forse che a non stare alla lettera ti si renda un servigio. Con quel tuo temperamento, sdegnoso anzichenò, qualche volta ti lasci andare a frasi che vanno al di là delle tue intenzioni, ed è carità cristiana il veder di moderarle. Per la stessa ragione s'industriano in tutti i modi d’imporre silenzio agl’interpreti che non si accorgono di compromettere la tua riputazione esponendo le tue idee come sono.

Ma Dante è davvero terribile, e tentar di farlo tacere è impresa disperata. Si è fitto in mente che col secondo dirubamento della pianta del paradiso terrestre si è commessa una nuova violazione dell’interdetto divino, dalla quale son derivate le stesse conseguenze della prima e che per ripararvi si richiede il diretto intervento del cielo, e non c'è verso dii fargli mutar pensiero. Quantunque a insistere nel suo concetto ci abbia le sue buone ragioni. Le anime dei beati par gli vengano incontro per riconfermarlo nella sua idea. Ascende al cielo di Mercurio e ascolta Giustiniano, dopo l’apoteosi dell'aquila di Roma, concludere che la «cagion di tutti nostri mali» va apposta a coloro che la combattono e a coloro che vorrebbero farne il vessillo del loro partito, sì ai guelfi e sì ai ghibellini (40), mentr'è chiaro esser essa «il segno del mondo e de’ suoi duci» (41). Come avrebbe fatto a non convincersi sempre più della necessità dell'Impero al bene del mondo, e a non riflettere che dunque gran parte del male dipendeva dalla mancanza dell’Imperatore? Nel cielo di Venere incontra l’amico Carlo Martello, da cui gli è ribadito nella mente che gli uomini sono «fuor di strada» (42); e, come non bastasse, si fa avanti Folchetto di Marsiglia a deplorare, anche lui, che il pastore si è cangiato in lupo, sì che le pecore e gli agni, tutto il mondo cristiano è disviato (43). Più alto, nel cielo dei sole, san Tommaso prima e poi san Bonaventura gli dimostrano che i due principi ordinati da Dio in favore della Chiesa han fallito al loro intento (44). Cacciaguida scende ai piedi della croce di Marte e gli ordina di far manifesta «tutta sua vision» (45), con che finisce di persuaderlo che proprio per questo gli erano stati conferiti tanti doni di natura e di grazia, perché eletto nel consiglio divino a essere il poeta del rinnovamento del mondo. Sale in Giove, dove gli accade di ascoltare dal segno sacrosanto della giustizia divina una fiera requisitoria contro tutti i re cristiani, ma anche di sentirsi ripetere che dal giorno della donazione di Costantino il mondo è andato in rovina e n'è rimasto «distrutto» (46). Di guisa che, se prima esclamava: «Ahi Costantin», pensando forse a questo o quel male, di cui era stata causa la sua buona intenzione, ora sa che non si tratta di mali particolari, bensì di un male che ha guastato tutto il mondo; e perciò prega:

O milizia del ciel cu'io contemplo,
adora per color che sono in terra
tutti sviati dietro al malo esemplo!

E come farebbe a pregare altrimenti, una volta che la sentenza è pronunziata da spiriti che, leggendo in Dio la verità, non possono mentire? Per non dispiacere ai sostenitori del metodo scientifico bisognerà annotare che con la parola mondo l'aquila non avrà inteso comprendere tutti gli uomini, che distrutto non vorrà significare andato alla malora e che tutti non vorrà dire proprio tutti, ma solamente moltissimi: saranno iperboli; e l’iperbole, insegna Seneca, numquam sperat quantum audet. Se non che, saliamo nel cielo di Saturno, e c'incontriamo in san Pier Damiano che usa parole piuttosto gravi per lamentare la corruzione dei prelati della Chiesa (47); ma in nota diremo che sarà opportuno ricordarsi come fosse anche lui bilioso la sua parte. Gli succede san Benedetto che, d’indole assai meno focosa, tuttavia non può far a meno di sdegnarsi pensando che gli ordini monastici e religiosi sono in tutto e per tutto degenerati (48). Salito al cielo stellato, il Poeta stesso, quasi per far eco alle voci di biasimo ascoltate di sfera in sfera, non si perita di dire a san Pietro che la pianta, da lui seminata, «fu già vite e ora è fatto pruno Nella sua brevità l’immagine è molto espressiva; ma pressoché un nulla a paragone delle parole roventi che di lì a poco ode prorompere dalle labbra del Principe degli Apostoli, il quale verso la fine mostra di cominciare a placarsi, ma perché legge in Dio che il soccorso a tanto male è vicino (50) e può affidare a Dante la missione di annunziarlo, senza tacere del resto:

apri la bocca
e non asconder quel ch'io non ascondo (51).

Ma l’effetto della tremenda invettiva di san Pietro non è ancora svanito dalle nostri menti, allorché vediamo entrare in campo Beatrice a compiere la diagnosi del male, dalla Chiesa allargandola a tutta l’humana civilitas:

Oh cupidigia che i mortali affonde
sì sotto te, che nessuno ha podere
di trarre li occhi fuor de le tue onde! (32)

Si esitava a credere che il mondo fosse veramente «tutto distrutto» per la donazione di Costantino; ma poco va che la Verità rivelata torna sullo stesso argomento e ci assicura che la cupidigia con le sue onde ha sommerso sotto di sé gli uomini, dal primo all'ultimo, tanto che nessuno — si badi bene — nessuno ha la forza di tirarsene fuori e liberarsene. Non solo; ma ne soggiunge la ragione, afferma che fede e innocenza ormai si trovano soltanto ne’ parvoletti, per fuggirsene non appena questi cominciano a metter su baffi; dichiara che la cupidigia si comporta con gli uomini non altrimenti da Circe, la cui vista tramutava in bestie, e conclude:

Tu, perché non ti facci maraviglia,
pensa che ‘n terra non è chi governi;
onde si svia l’umana famiglia (53).

Sicché in un medesimo canto da una parte si ha la conferma, per bocca di san Pietro, che il Veltro non tarderà a venire; dall’altra che la lupa, ossia la cupidigia, per cui il mondo è diventato un deserto, non lascia immune dalla sua peste coscienza nessuna, e quindi altro non può essere che figura della nuova colpa originale. Dai papi e dagl’imperatori la corruzione è scesa ai giovanetti, alle città, ai popoli, agli ordini religiosi, a tutti.
Rigiratela come vi pare. Dalla prima terzina agli ultimi canti del Paradiso, nella lettera e nello spirito, la Comedia dice, dichiara, afferma, ribadisce e proclama, in un mirabile accordo, che gli uomini sono ricaduti tutti indistintamente sotto il dominio del male che dilagò sulla terra dopo la colpa di Adamo. Il poema è fin da principio nettamente e risolutamente impostato sopra questa dolorosa convinzione, temperata solo dalla speranza eroica che Dio ci libererà la seconda volta con un processo, meno alto e magnifico di quello tenuto nella Redenzione operata dal Cristo, ma sempre alto e magnifico, rivelato da Virgilio nel racconto dell’azione delle tre donne benedette, formanti una divina trinità femminile, necessaria a superare le trinità del male, che riappariscono nell’Inferno, dalle tre fiere alle tre faccie di Lucifero. Solo così è possibile spiegarsi l’invincibilità della lupa, la resistenza dei diavoli alla porta di Dite, vittoriosi fino a che non viene il Messo, ossia il Veltro, la frode che morde ogni coscienza e appuzza tutto il mondo, l’andare zoppo del Veglio di Creta, ossia del genere umano, l'immediato ruinare dei violatori della legge fondamentale della giustizia e della pietà nella Tolomea e nella Giudecca. Solo così si spiega la Vita Nuova e l'elezione di Dante e quella di Virgilio. Chi queste cose non vede, non giungerà mai ad ammirare il miracolo compiuto da Dante nel dar forma e vita al suo Poema Sacro, architettato in modo che ogni azione scaturisce dalla idea che lo anima e vi ritorna.

Ma questa della donazione di Costantino e della conseguente corruzione della società, sebbene una delle mie fisime più gravi, non sarebbe certo l’unica. Ne coltivo anche delle altre che minacciano di turbare il godimento della poesia dantesca, in quanto ci rappresenterebbero il Poeta quasi sempre intento, invece che alla sua arte, a farci «ripensare continuamente cose estranee e situazioni diverse», impedendoci «così la visione nitida di ciò che intendeva in quel momento rappresentare» (54): che sarebbe, ognuno lo vede da sè, lo sfregio più grande che si possa fare a un artista. Perciò il lettore mi scuserà, «se un poco a ragionar m'inveschi» per difendermi da così grave accusa.
Al v. 66 del IV dell’Inferno ho fatto seguire questa nota: «la selva, dico: Ferma l’attenzione sulla parola selva, perché il lettore, cercando di rendersi conto dell’arditezza dell'immagine, scopra la relazione che corre tra la selva del Limbo e quella del primo canto. Adamo violò l’interdetto, cogliendo della pianta del paradiso terrestre, e fu esiliato in una terra che gli dovesse produrre spini e triboli (Gen. III, 18); Costantino dirubò di nuovo la pianta di Dio (Cfr. Purg. XXXII, 124 sgg.), e di nuovo il mondo si è convertito in una selva selvaggia» (55). Dopo il ragionato fin qui, l’idea contenuta nella mia chiosa nasce da sé. Non così per il Barbi, il quale riconosce che «è un'immagine che può far impressione», ma non crede che meriti il rilievo datole da me: «gli (a Dante) è venuta un'immagine ardita, ed egli ce la dichiara; niente più» (56). Sarà andata davvero così? Ho sempre creduto che quando uno scrittore si accorge d’essersi lasciata uscire della penna una parola mal rispondente al suo pensiero, o un'immagine che possa confondere il lettore, o far l’effetto di una stonatura, provvede a cancellarla e a sostituirvene un’altra. Dante invece, che non direi eccessivamente disposto a divertirsi, prima va avanti tranquillamente, come fossimo. già intesi che anche quella per cui ora passa è una selva, e poi, avvedendosi che potremmo non capirlo, torna indietro a spiegarsi: lascia cioè che con la fantasia il lettore prima rivada alla selva, di cui poco avanti gli ha ragionato a lungo descrivendogliela con colori così foschi da imprimergliela bene nella mente, e poi lo richiama indietro per avvertirlo che si guardi dal prendere simili equinozi, e tenga per fermo che egli intende parlare di un’altra selva, di quella che con il loro gran numero formano gli spiriti del Limbo. La dichiarazione con cui si affretta a determinar di qual selva egli discorra, attesta una cosa indiscutibile, che il Poeta cioè ha intuito benissimo l’equivoco in cui per mezzo di quella parola faceva cadere il lettore; ma l’avervela lasciata ci assicura nel tempo stesso che l'equivoco non gli dispiaceva. Non gli poteva dispiacere. Il mondo: presente, a suo giudizio, non differiva gran che da quello del Limbo; e se il lettore li ravvicinava, non poneva certo un impedimento all’intelligenza della Commedia (57).
Assai prima di me quell’espressione aveva colpito il Pascoli, che nessuno vorrà negare avesse vivo e squisito il senso della lingua. «E Dante narra:

Non lasciavam l’andar, perch’ei dicessi,

dicesse della liberazione del Possente,

ma passavam la selva tuttavia...

come la selva? la selva della servitù? Sì:

la selva dico di spiriti spessi.

Dante non si trastulla con le parole! Dante sa quel che dice! Se la selva significa la mancanza di libertà del volere, il limbo che tiene in sé i non battezzati è una selva anch’esso. Mirabile linguaggio!» (58).
Ma la mia nota ha una seconda parte che dice: «Continuando nel raffronto si scoprirà inoltre che il Limbo e la scena del prologo sono disegnati sulle stesse linee principali. Qui una selva oscura, un passo per cui si viene a una piaggia, e un colle luminoso; nel primo cerchio una selva, di spiriti, immersa in un emisfero di tenebre, un piccolo poggio luminoso e, tra l’uno e l’altro, il passo di un piccolo fiume che conduce ai piedi di un nobile castello. AI mendo antichissimo il presente somiglia, perché gli uomini han violato di nuovo l'interdetto». Inutile dire che illustrazioni di tal fatta al Barbi non vanno giù. Non ammette che la pianta del paradiso terrestre sia stata dirubata due volte; non conviene cioè con Dante e non può per conseguenza convenire col suo espositore, senza pensare che quella selva di spiriti, quel passo e quel colle illuminato da un fuoco «ch'emisperio di tenebra vincia», nel Limbo non ce li ho messi io. Ci sono, e si può esser sicuri che nessuno oserà mai cancellarveli. La relazione che pongono fra que’ due mondi non è «fra cose tra loro diversissime», come a lui pare, ma tra cose quasi identiche. E l’aver costruito il Limbo a immagine e somiglianza del mondo in cui si ritrova, oltre a confermare l’idea madre del poema, aggiunge un elemento di bellezza. Non distrae, ma illumina.

Davanti la porta di Dite, chiusagli in faccia dai diavoli, Virgilio comincia un discorso e lo lascia sospeso:

Pur a noi converrà vincer la punga,
cominciò el, se non.... Tal ne s’offerse...
Oh quanto tarda a me ch’altri qui giunga! (59)

Non c'è da meravigliarsene, ho annotato io: «Virgilio è tra color che son sospesi in conseguenza della colpa originale che ha viziata l’integrità della nostra natura». Devo pentirmene? Vediamo.
La prima qualità che Dante rilevi nel maestro si è la fiocaggine: Virgilio dal suo apparir è colui che «per lungo silenzio parea fioco» (60). Ma non è un difetto suo particolare: si stende a tutti gli spiriti del Limbo, così alle turbe di fuori del nobile castello del tutto taciturne, come a quei di dentro i quali parlano «rado, con voci soavi» (61). E appartengono le une e gli altri alla innumerevole schiera di quei che «non adorar debitamente a Dio» (62). Ora se l’accidia si definisce «amor del bene, scemo del suo dover» (63), di qual altro peccato diremo che essi furono rei, se non di accidia? Ma gli accidiosi dello Stige un

inno si gorgoglian ne la strozza,
chè dir nol posson con parola integra (64).

Gl’indovini — il Barbi non lo ammetterà, ma essi e gli altri cui accenno sono tutti peccatori per accidia — avanzano

tacendo e lagrimando, al passo
che fanno le letane in questo mondo (65).

Nella bolgia degl’ipocriti Dante comincia un discorso, che subito lascia interrotto:

O frati, i vostri mali...;
ma più non dissi (66).

Nembrod dice tutte parole mozze e inintelligibili:

Raphèl may amèch zabì almì (67).

Sul piano solingo del Purgatorio, dove sono le anime degli scomunicati, Catone spezza il canto di Casella (68); più su Sordello tronca il discorso sulle labbra di Virgilio (69). Nel cielo di Mercurio per rappresentare la sospensione d’animo in cui si trova, fra il desiderio di sapere ancora e il timore di riuscire importuno, egli non si fa riguardo di servirsi dello stesso spediente:

Io dubitava e dicea: «Dille, dille»,
fra me: «dille», dicea, a la mia donna
che mi disseta con le dolci stille;

ma quella reverenza che s'indonna
di tutto me, pur per Be e per ice,
mi richinava come l’uom ch’assonna (70).

Ci si vuol descrivere in un momento che l'amor del vero non lo spinge subito all’azione, come dovrebbe, e ci pone sotto gli occhi parole mozze. Nel libro che registra i dispregi dei re della Cristianità, perché si misuri a colpo d'occhio la dappocaggine di Federico II di Sicilia,

la sua scrittura fien lettere mozze (71).

Così, per capriccio? Dante sa sempre quel che dice. Sapeva infatti che l’accidia, secondo il Damasceno, est tristitia quae taciturnitatem defectumque vocis inducit; secondo il Nisseno, è tristitia vocem amputans; e secondo l’Aquinate, dicitur vocem amputare (72); e della taciturnità o delle parole mozze si è servito per caratterizzarla. Anche a me sulle prime la cosa pareva incredibile, ma quando ho toccato con mano che dovunque è accidia ci sono andirivieni, ragionamenti non finiti, fermate più o meno lunghe, ma sempre più lunghe che altrove, e parole mozze, o tronche, o sospese, allora ho dovuto convenire che Dante se n’è fatta una legge e a norma di essa ha perfino disposta l’orditura di tutto il decimo canto dell’Inferno. Prima di giungere alla campagna degli eretici, l'inno gorgogliato, e quindi continuamente spezzato degli accidiosi, e la testa mozza del Gorgon; poi, appena dentro la città del fuoco, ecco che i Poeti interrompono il loro scendere sempre a sinistra; Dante tace un suo grande desiderio a Virgilio; Farinata si leva dalla tomba a interrompere con il suo parlare improvviso il dialogo fra Virgilio e Dante; lo stesso fa Cavalcante, mettendo fuori la testa medusea, dal mento in su, proprio nel punto più acceso del colloquio fra Dante e Farinata; questi spiega fino a qual segno leggano nel futuro e viene a dichiarare che hanno la veduta tronca, vedono cioè e poi non vedono più le cose lontane; Dante ascolta la profezia del proprio esilio, ma ha l’ordine di non ritenerla per certa, se non quando potrà interrogarne Beatrice; Farinata dice appena due nomi de’ suoi compagni di pena e degli altri si tace ; comincia appena l’enumerazione che già la tronca; arrivano all'orlo del cerchio e son costretti a sospendere il loro cammino. E lascio stare la sospensione d'animo in cui vive Farinata, e per il dubbio d’essere stato forse troppo molesto a Firenze e per l’altro intorno alla sorte che attende i suoi; la sospensione d’animo di Cavalcante per il dubbio della morte di Guido, e la sospensione d'animo di Dante intorno all’esilio che gli si apparecchia. Mi dispenso inoltre dal ricordare le volte in cui Virgilio lascia sospesi i suoi ragionamenti; ché si andrebbe troppo per le lunghe. Nè d’altra parte se ne sente il bisogno. Gli studiosi della Commedia possono ciascuno da sè richiamar alla memoria versi, terzine, episodi e discorsi nei quali è ripetuto che la ragione ha «la veduta corta d’una spanna» e spiegarsi per qual profondo motivo il nostro Poeta in certi cerchi d'Inferno e di Purgatorio va, torna indietro, si aggira, si ferma, prende un’altra via, non si stanca di chiedere spiegazioni a’ suoi dubbi. Ha sperimentato che questa è la legge del pensiero umano, e non ha temuto di tradurla in azioni che la figurano. Nessuno infatti si è accorto che le variazioni. dello stesso motivo offendano la bellezza di un’opera d’arte. Interruzioni e sospensioni abbondano nel canto di Farinata; ne viene per questo che sia meno bello? Con la mia nota a quella parola tronca io altro non ho fatto che richiamar l’attenzione sopra uno dei tanti elementi, di cui Dante si serve per rappresentare la finitezza della ragione umana.

Poco appresso il Barbi non approva che nella domanda di Dante a Virgilio:

In questo fondo de la trista conca
discende mai alcun del primo grado,
che sol per pena ha la speranza cionca? (73).

io ci senta il dubbio che il maestro non abbia sbagliato strada. Se così non fosse, per qual mai motivo Virgilio concluderebbe la sua risposta con il verso: «ben so il cammin; però ti fa sicuro?» Il discorso di Virgilio non potrebb'essere più chiaro — Avviene molto raramente che un'anima del Limbo scenda quaggiù. Pure sappi che io sono sceso un’altra volta non solo fino a questo cerchio, bensì fino all’ultimo. Però stai tranquillo, ché la via la so bene — Ma io, al solito, per smania di sottigliezze ho voluto spiegare come mai un simile sospetto potesse nascere in Dante; e ho annotato che gli nasce per aver «osservato attentamente le incertezze e gli oscillamenti di Virgilio che ora vede e poi non vede più. ora spera e poi perde la speranza; e si è accorto che una speranza salda e certa per virtù sua non può concepirla, essendo del cerchio in cui la speranza va come può andare uno che è cionco, impedito cioè delle gambe o dei piedi». Non mi pare con ciò di averci messo nulla di mio. È vero o no che Virgilio prima, quando il Messo è ancora lontano, lo vede passare per i cerchi senza scorta e poi non lo vede più? «Tal ne s’offerse» che altro vorrà dire, se non: si è offerto alla mia vista tale da vincere la resistenza dei diavoli? E direbbe: «ne s'offerse», se continuasse a vederlo? È vero o no che Virgilio prima afferma: «Pur a noi converrà vincer la punga», e poi esce in un «se non», che Dante interpreta in un senso forse peggiore che non avesse sulle labbra del maestro? — se non ho veduto male, se non mi sono ingannato, se non è stata un’illusione, e simili — Che qui Virgilio abbia incertezze e oscillamenti mi sembra indiscutibile. E indiscutibile del pari direi che a Dante, per esprimere il suo dubbio, sarebbe stato più che sufficiente chiedere:

In questo fondo de la trista conca
discende mai alcun del primo grado? (74)

Non ci mancava nulla: la domanda era piena e categorica. E nondimeno aggiunge: «che sol per pena ha la speranza cionca». Era proprio quello il luogo e il tempo di rammentare a Virgilio, dopo lo scacco patito, che lui è relegato fra i senza speranza? Qualora non avesse, a giustificarsi, una buona ragione, con quell’aggiunta egli si mostrerebbe molto sgarbato e quasi quasi cattivo. Ricordare un difetto a uno, proprio quando questi ne sente più gravi le conseguenze, è qualcosa peggio che indelicatezza. Ma il Poeta con quelle parole cerca invece di scusare il maestro: Perdona, gli vuol dire, se ti faccio questa domanda. Ma io so la pena che ti affligge: sei di quelli che non hanno speranza. E tu stesso poco fa mi hai fatto intendere che qui, per vincere, bisogna confortarsi e cibarsi di speranza buona (75) — Senza questi sottintesi, del resto più che trasparenti, ci si foggia un Dante che, pur di trovare una [e rima a conca, non esita di aggiungere parole non necessarie e, quel ch'è peggio, offensive verso una delle persone da lui più altamente amate e stimate.

Alla vista di Capaneo Dante apostrofa Virgilio a questo modo:

Maestro, tu che vinci
tutte le cose, fuor che’ demon duri
ch’a l’entrar de la porta incontro uscinci,

chi è quel grande...? (76)

E io, dopo annotato: «Il rammentare al maestro, senza necessità, che egli ha superate tutte le opposizioni delle potenze infernali al loro viaggio, meno quella dei diavoli alla porta di Dite, potrebbe sembrare indelicatezza, se non si pensasse che in quelli è personificata la lupa, un male cioè che V. medesimo fin dal principio (c. I, 94 e sgg.) ha dichiarato invincibile», ho continuato: «Ricorre a questa perifrasi, perché il lettore torni con l'immaginazione al passo accennato, e noti la somiglianza di questo cerchietto con il cimitero degli eretici». Ma la prima non è sembrata al Barbi una buona ragione. Secondo lui, Dante accennerebbe a quella resistenza dei diavoli «per mettere in guardia la fiducia soverchia di lui (Virgilio) che può ancora ingannarsi come alla porta di Dite è avvenuto» (77). Ciascuno è padronissimo di scegliere fra le due spiegazioni, o di cercarsene una terza: questo va da sé; ma vorrei pregarlo di rifletterci prima un poco su. Perché con la sua chiosa il Barbi non si è accorto di suggerire un'idea impossibile. Virgilio, dunque, «il mar di tutto il senno», «quel savio gentil che tutto seppe», la guida scelta dalle tre donne di cielo per menar Dante a salvezza, venuto al punto più difficile, si sarebbe, nientemeno, ingannato! e per rimediare al suo errore quelle avrebbero dovuto mandare il Messo! E Dante, che se n'è accorto benissimo, nemmeno a farlo apposta, se durante l’inferno dell’incontinenza è assalito più volte dall'idea di tornare indietro, da quel fallimento in poi gli si affida interamente, pur permettendosi di esortarlo bellamente a non lasciarsi più ingannare. Non solo: il Virgilio del Barbi s'inganna, ma dell'inganno subìto non mostra di provare alcun dispiacere. Tira innanzi, come non fosse affar suo, lui, dalla «coscienza dignitosa e netta», alla quale è morso amarissimo il fallo più lieve.
È superfluo avvertire che alla seconda parte della chiosa il Barbi ha fatto un viso anche più cattivo. Per lui il cerchietto dei violenti non ha niente da vedere con quello degli eretici. L’essere l’una e l’altra specie di peccatori puniti col fuoco, distinti in «molte gregge», posti a giacere al tormento; l’aver peccato gli uni negando verità fondamentali della Fede, gli altri bestemmiando Dio, per lui non conta nulla. E men che nulla, si vede, deve contare che la presentazione di Capaneo sia fatta così che tutti i lettori, anche i più distratti, devono tornare col pensiero a Farinata. Lo esige il Poeta, sì quando scrive che questi «giace dispettosa e torto», e sì quand'osserva che «la pioggia non par che ’l maturi» (78). Vorrebbe quel furioso e rabbioso dar a credere d’aver «lo ’nferno in gran dispitto»; ma in realtà la sua è un’ira impotente, che non suscita nessun senso di ammirazione. Il confronto con Farinata sorge spontaneo; e perciò non vedo che male ci sia ad annotare che con il ricordo dei diavoli il Poeta comincia a richiamare alla nostra fantasia la Città di Dite. L'arte di Dante è molto più profonda che non si creda, e in tante cose, come nel riaffiorar dei motivi, modernissima, o, per dir meglio, di sempre.

Così, anziché scandalizzarsene, sarebbe da compiacersi con chi c’invita a considerare i mezzi semplicissimi con cui il Poeta di fronte alla visione terrifica del sabbione fa balenare per contrapposto, quella della «divina foresta spessa e viva» del Purgatorio. A noi certe cose fanno impressione, perché non abbiamo meditato come lui sulla natura del male e sulla maniera con la quale, aiutati dalla grazia, possiamo liberarcene. Ma lui sa bene d’essere nell’inferno dell’ira mala, di quell’ira cioè, di cui tutti eravamo schiavi, secondo l’espressione di san Paolo agli Efesini (79); e sapendolo, che cosa fa? Ci pone sotto gli occhi la figura del genere umano, dolorante per le ferite con cui le nostre colpe lo hanno piagato nelle età successive a quella dell’oro. Ha il piede destro di terracotta «e sta ’n su quel più che ’n su l’altro eretto» (So). Va zoppo; ma non c'è da temere che la terracotta con l’andar del tempo ceda sotto il peso dell’oro, dell'argento, del rame e del ferro onde il gran Veglio è composto, e questo rovini, come la statua veduta in sogno da Nabuccodonosor? — Questo ruscello dal rossore raccapricciante, ammonisce Virgilio, è la cosa più notevole di quante ne hai vedute fin qui — Perché mai? — Gl’illustratori della Commedia, seguaci della miglior tradizione esegetica, sembra se ne curino poco, a dir la verità. Ma Dante fa capir subito in che consiste il segreto della natura mirabile di quest’acqua, soggiungendo «che sovra sé tutte fiammelle ammorta» (81). Toglietele la potenza misteriosa di spegnere le falde di fuoco, che cadrebbero sopr’essa e sui margini, e capirete subito che verrebbe a mancare la possibilità, a un vivo, di superar l’ultima parte del settimo cerchio e giungere quindi alla liberazione. Il male ha trovato il suo rimedio nei rivi di lagrime che versa: il dolore solo fa via alla liberazione, vale a dire rende possibile il purgatorio.
Che colpa dunque ci avrò io se, leggendo il XIV e XV dell’Inferzo, sono ricondotto a ripensare a una «landa» (82). per la quale, lungo un fiumicello, le cui acque sono l’antitesi precisa di quelle che scorrono per «l’orribil sabbione», muove i passi una donna bellissima, Matelda, il cui ufficio consiste appunto nel ravvivare la virtù tramortita delle anime? (83). Se, alla vista di quella landa «che dal suo letto ogni pianta rimuove» (84), mi vien fatto di ricordarmi dell’altra — chi sa perché Dante l’avrà chiamata, anch'essa, «una landa?» — la quale, oltre a essere rivestita d’un’eterna primavera di piante e di fiori, «d’ogni sementa è piena?» (85) Per una legge ben nota sulle associazioni delle immagini, si sa che i contrari si richiamano vicendevolmente.
Il Croce, alieno se altri mai dal ricercare i pensieri nascosti dei poeti, osserva che Dante davanti quel paesaggio d’orrore evoca antiche storie e miti (86); e dice benissimo, mi pare. Ma io dico malissimo, notando che con il suo discorso sull’origine dei fiumi infernali Virgilio ci mena di necessità a rammentare il peccato originale e quindi il paradiso terrestre. Di qual mai terra paradisiaca il dolce padre, senza saperlo, discorreva cominciando:

In mezzo mar siede un paese guasto
che s’appella Creta,
sotto ’l cui rege fu già il mondo casto.

Una montagna v'è che già fu lieta
d’acqua e di fronde, che si chiamò Ida;
ora è diserta come cosa vieta? (87)

È possibile impedire a chi legge questi versi di tornar con il pensiero alla montagna del Purgatorio, sorgente essa pure «in mezzo mar» e rallegrata dalle acque più pure e dalle fronde più verdi che si conoscano? «L’età dell’oro e suo stato felice» non fu in Creta, sotto Saturno, ma sulla vetta del santo monte. Attraverso l’Ida Dante vuole che si pensi al paradiso terrestre; e nel caso non lo facessimo da noi, provvede lui a chiarirci il significato del suo mito, alla fine del XXVIII del Purgatorio, per bocca di Matelda:

Quelli ch’anticamente poetaro
l'età de l'oro e suo stato felice,
forse in Parnaso esto loco sognaro.

Qui fu innocente l’umana radice:
qui primavera sempre ed ogni frutto;
nettare è questo di che ciascun dice (88).

Non io, bensì Dante rimanda il lettore dal XIV dell’Inferno al Purgatorio tutto intero, con l’allusione a Catone, che è a’ suoi piedi; con il ragionamento di Virgilio sul piede di terracotta. il cui significato è chiarito da quello di Marco Lombardo sulla confusione de' due reggimenti; con la descrizione dell’Ida, simbolo della decadenza del genere umano conseguente alla colpa originale; con l’accenno al potere misterioso dell’acqua che spiccia dalla selva dei suicidi; e finalmente. con l’esplicito rimando al Letè, il quale si trova fuori dell’inferno,

fuor di questa fossa,
là dove vanno l’anime a lavarsi,
quando la colpa pentuta è rimossa (89).

In questo caso, come forse in tanti altri, il commento altro non fa che porgere l'orecchio all’eco che manda la voce del Poeta.

Per la stessa ragione spero di non aver turbato a nessuno il godimento della poesia dantesca rilevando che le bolge somigliano, in piccolo, alla Valle, sul fianchi della quale si stende la selva selvaggia del proemio, valle che a sua volta è come il primo abbozzo della «valle inferna» (90). Quemadmodum est in parte, sic est in toto, insegna Dante (91); e non pure l'insegna, ma lo mette in pratica. Dopo aver detto e ripetuto che il baratro nell'insieme è la «valle d’abisso», «l’alta valle feda», «la valle buia», la «valle dolorosa» e una «valle» (92) senz'altro, arrivato all'ottavo cerchio, lo distingue in dieci bolge e a ciascuna dà il nome e la figura di valle. Cerchi in forma di valli si riscontrano soltanto lì; e ci dev'essere la sua ragione, che non espongo per evitar la taccia di sottigliezza, ma che per me è chiarissima. Comunque, l’autore primo del ravvicinamento delle bolge alla valle infernale è proprio esso il Poeta, quando scrivendo che l’ottavo cerchio «ha distinto in dieci valli il fondo» (93); parla della inclinazione del loro piano verso il centro e ripete che ogni bolgia è una valle: «lo sito di ciascuna valle porta ecc.» (94); visitata la prima, fa dire a Virgilia: «E questo basti della prima valle sapere» (95); appressandosi alla quarta bolgia nota che dall’alto del ponte gli si scoperse alla vista «un altro vallon» (96), quel medesimo «vallon tondo» (97) per il quale camminano lentamente gl’indovini; dell’ultima poi lo ripete tre volte: «che de lo scoglio l’altra valle mostra»; «pensa che miglia ventidue la valle volge»; «ch'era a veder per quell’oscura valle» (98), come «oscura» è quella della selva. Finalmente, allontanarsi dal cerchio ottavo, che è dell’invidia, per lui significa dare «il dosso al misero vallone» (99). Non è dunque esatto scrivere che «le bolge, fra tanti altri modi, sono dette qualche volta valli». Il qualche volta convien riserbarlo per certi altri modi, come tana, gola, chiostra, fossa, e simili. Quest'ultima veramente ricorre altrettanto spesso, forse, quanto valle; ma si spiega pensando che, alla stessa maniera che tutto l’inferno è una valle, così è anche una tomba; se non che tombe le bolge sono solo per metafora; valli, nel senso dantesco, sono realmente di nome e di fatto.
Ma la ragione vera di quella nota, il fatto cioè che me l’ha suggerita, è principalmente questo. Il Poeta ha messo in intima relazione la valle in cui s’era smarrito con la valle buia d’inferno. Ebbene, voi non ci crederete; ma ci vuol poco a sincerarsene; all'orlo dell’alto inferno si trova «in su la proda... de la valle d’abisso dolorosa» (100); cammina verso l’inferno della violenza, ma «per un sentier ch'a una valle fiede» (101); prima di cominciar a visitare l’ottavo cerchio, che è l’inferno della frode, ci fa sapere che esso «ha distinto in dieci valli il fondo»; ha cura cioè di rammentarci la valle a ognuna delle principali partizioni d’Inferno. È inammissibile che l'abbia fatto deliberatamente, si risponderà. Allora osservate. Al principio dell’inferno dell’incontinenza due cognati, Paolo e Francesca; al principio di quello della violenza Obizzo II da Este e il figliastro Azzo VIII (102); al principio di quello della frode, Venedico che prostituisce la sorella (103); alla prima zona di Cocito i due fratelli di Mangona (104). All’ingresso d’ogni inferno una coppia diversa in cui si rispecchia la corruzione della famiglia. Sarà un caso anche questo? Per la maggior parte dei lettori, forse sì; ma non per Francesca, la quale sente il legame del suo cerchio con il Cocito ed esclama con orrore: «Caina attende chi a vita ci spense» (105).

Molto più grossa devo averla detta, quando ho ceduto alla tentazione di osservare che nel verso «già di veder costui non son digiuno», l’immagine. che non è certo una gemma, gli dev'essere «stata, forse, suggerita dallo studio di rifarci presente l’inferno dell’incontinenza» (106).
Ma qui per non andar troppo per le lunghe son costretto, mio malgrado, ad aprire una parentesi. Nel volume che s'intitola Dal centro al cerchio credo di aver offerta la dimostrazione, oserei dire matematica, dei principi da cui Dante è partito nel costruire i suoi mondi. Tra l’altro ho asserito che, come il leone comprende in sé tutto il male della lonza, aggravandolo con la violenza, di cui è simbolo; e la lupa tutto quello delle due fiere che la precedono, aggravandolo con la frode; così l’inferno dell’ira mala o matta bestialità — settimo cerchio — riepiloga e svolge il male che va dal secondo a tutto il quinto cerchio, e quello di Malebolge il male che va dal secondo cerchio a tutto il settimo. E lo spiego dimostrando che nel concetto di Dante il male è unico, ma piglia naturalmente aspetti diversi nel suo divenire. A misura che dal meno grave si cade nel più grave, il meno non scompare del tutto, ma, anche degenerando nel più, lascia sempre intravvedere qualche sua traccia. Nei vizi dell’uomo maturo si ravvisano le tendenze di quando era giovane.
A tal conclusione non sono arrivato per via, diciamo così, teoretica, ma dopo aver diligentemente studiati e paragonati fra loro, uno per uno, tutti i cerchi infernali. Non è un'idea che abbia inventata io, ma messa e inchiodata nel mio cervello dallo stesso Poeta. Le prove chi le vuole le cerchi nel volume ricordato; ché qui non posso certo rifar da capo lo stesso lavoro. Qui per rispondere alle critiche del Barbi, quasi tutte della stessa specie di quelle analizzate, basterà che io indichi la fonte comune da cui in grandissima parte derivano le note disapprovate.
A me è sembrato, e fino a prova contraria sembra ancora, di aver veduto il legame sottile, e pure innegabile, che unisce fra loro le parti diverse in cui l'Inferno si distingue. Se di quando in quando nel mio commento ho dato luogo ad annotazioni che rimandano a cerchi già visitati, a parole, frasi e personaggi già incontrati lungo il nostro cammino, l’ho fatto nella speranza di mettere nelle mani dei lettori più attenti il filo che li può condurre ad ammirare la struttura stupenda e armoniosissima dei mondi immaginati da Dante. Perciò non ho esitato d’insinuare che egli, per dire di aver veduto già Venedico de’ Caccianemici, ricorre all'immagine del digiuno, forse per ricondurci alla memoria con la stranezza della frase l'inferno dell’incontinenza. S'intende che, qualora dei cerchi dell'inferno superiore non ci avessi trovato altri ricordi, non mi sarei neppur lontanamente sognato di ravvicinarli alle prime bolge. Ma si rilegano i canti relativi, per accoppiarli con la mente fissa, senz’andare a cercar il mio libro, e si vedrà che la prima valle dell’ottavo cerchio dice relazione con quello dei lussuriosi, come la seconda dei lusingatori con quello dei golosi, la terza dei simoniaci con quello degli avari, la quarta degli indovini con quello degli accidiosi dello Stige, la quinta dei barattieri con quello degl’irosi della stessa palude, e così di seguito ordinatamente fino alla fossa degli usurai, che ha il suo riscontro con il fosso della decima bolgia.
Ma come — insisterà il lettore — può Dante essersi messi tanti freni e aver creata così grande poesia? Lo stesso da principio dicevo tra me e me; e pure finii col convincermi che è così; anzi mi parve di capire che doveva essere così. Doveva, perché l’estetica, ossia l’idea che egli s'era fatta della bellezza, glielo comandava. «Quella cosa dice l’uomo essere bella cui le parti debitamente si rispondono, perché de la loro armonia resulta piacimento. Onde pare l’uomo essere bello, quando le sue membra debitamente si rispondono; e dicemo bello; lo canto, quando le voci di questo, secondo debito de l’arte, sono intra sé rispondenti» (107). Per Dante dunque l’arte ha un debito, deve cioè distribuire le parti in maniera che si rispondano fra loro. È chiaro? Ma, qualora non fosse, si può seguitare a piacere. «Ne le parole armonizzate e ne li canti... tanto più dolce armonia resulta, quanto più la relazione è bella» (108). E le parole armonizzate sono poesia. «Quello sermone è più bello, ne lo quale più debitamente si rispondono [le parole» (109). «La bellezza del corpo resulta da le membra, in quanto sono debitamente ordinate» ( 110). Oltre di che, ragiona il Peota, «è da sapere che ogni tutto si fa de le sue parti. È alcuno tutto che ha una essenza semplice con le sue parti, sì come in uno uomo è una essenza di tutto e di ciascuna parte sua; e ciò che si dice ne la parte, per quello medesimo modo sì dice essere in tutto» (111). Né si può supporre che quando si mise all’opera della Commedia avesse rinunziato a queste dottrine. L’arte nostra segue quanto è possibile l’arte divina quale si manifesta nella natura (112); e l’arte divina appunto perciò è grande e ammirabile, perché dominata e animata tutta dalla legge dell’ordine:

lo primo ed ineffabile Valore

quanto per mente e per loco si gira
con tant'ordine fe’, ch’esser non puote
sanza gustar di lui chi ciò rimira (113).

L'ordine fa bello il mondo visibile e invisibile; e dunque deve far bello l’Inferno, sulla cui porta sta scritto che esso pure è opera di Dio. Tanto lo fa bello che Dante, alla vista della terza bolgia, esclama pieno di ammirazione:

O somma Sapienza, quanta è l’arte
che mostri in cielo, in terra e nel mal mondo,
e quanto giusto tua virtù comparte! (114)

L'inferno per il quale discendo, vuol dire il nostro Poeta, non l’ho fatto io, ma «la divina Potestate la somma Sapienza e ’l primo Amore», e perciò vagheggiate, com'io vagheggio, la perfetta rispondenza delle parti e del tutto. Considerate il peccato della simonia in se stesso, e vedrete che le anime le quali ne furono ree precipitano giù nell'inferno non altrimenti di quel Simon mago, da cui si denominano che precipitò capofitto dal cielo, dove s'era per virtù diabolica innalzato. Chiedeva costui che lo Spirito, per denaro, scendesse sul suo capo; quel medesimo ‘che in forma di lingue di fuoco discese sui discepoli il giorno di Pentecoste; e vedete che, non lo spirito, ma solo il fuoco arde le piante dei piedi de’ suoi seguaci e li succia. Credettero nella potenza dell’oro e delle ricchezze che si cavano dalle viscere della terra, e, quando è arrivato il loro turno, cadono giù «per le fessure de la pietra piatti», col petto cioè attaccato alle fenditure delle miniere oscure e fonde che amarono. Confrontate la loro pena con quella degli avari, e troverete che somigliano a questi, condannati a voltar pesi — «i pesi de l’oro» e delle pietre — per forza di poppa. Se lassù si dicono un «ontoso metro», quaggiù papa Niccolò degli Orsini dice onte maggiori contro Bonifacio VIII e Clemente V. Son belle relazioni, senza dubbio; ma quando sarete davanti a Dite, ricordatevi che piantati allo stesso modo per la sola forza della gravità stanno i simoniaci alla bocca della loro tomba; e poi levate gli occhi a Giuda « che ’l capo ha dentro e fuor le gambe mena », e stupirete che i papi simoniaci somiglino al discepolo che tradì Gesù come, e più quasi, i figli al padre. Continuate a meditare e scoprirete altre armonie.

Prima dunque di darmi torto, al Barbi sarebbe convenuto sgretolare il principio da cui parto, attaccandolo direttamente, e provarmi che Dante alle armonie o rispondenze o concordanze, che pretendo siano disseminate largamente in tutta la Comedia, non ha mai pensato; che egli non ha badato alla relazione fra il tutto e le parti; che non ha conosciuto e non poteva conoscere l’arte di porre un motivo per poi ripigliarlo svolgerlo e variarlo tutte le volte che l’argomento lo richiedesse. Il mio critico invece, quando gli mandai il volume Dal centro al cerchio, che m’era costato tanta fatica e dove queste e altre cose son dimostrate, non lo degnò neppure di un’occhiata. Nel fascicolo settimo de’ suoi Studi danteschi lo annunziò così: Luigi Pietrobono delle Scuole pie, Dal centro al cerchio, La struttura morale della Divina Commedia. Torino, Società editrice internazionale, 1923; 16°, pp. XII, 311. L. 10. Non una parola di più. Non valse ad attrarlo nemmeno il titolo, e non dovette scorrere neanche la prefazione, dove mi attribuivo il vanto di aver finalmente risoluto il così detto problema morale della Commedia, un argomento che a quei tempi sembrava appassionasse tanto gli studiosi, i quali, si vede, amavano di fare le loro esercitazioni più o meno erudite, più o meno filosofiche, a spese del poema di Dante, e non avevano interesse nessuno di conoscere come egli avesse dato ordine alla Commedia, deducendolo dallo stesso pensiero che l’anima tutta, come mi lusingo, anzi son certo, di aver provato. Ma io ero e sono un pascoliano, e i pascoliani, per definizione, di Dante non se ne intendono. Nondimeno davanti le ragioni siamo tutti eguali; e siccome per affermare ciò che affermo io ho arrecato ragioni e non sogni, solo dopo confutati i miei argomenti il Barbi avrebbe potuto far manifesta tutta l’inanità e l'infondatezza delle mie note e provare che l’espressione «novo tormento e novi frustatori» (Inf. XVIII, 23) non ha nulla da vedere con « novi tormenti e novi tormentati» (VI, 4); il verso «di qua, di là, su per lo sasso tetro» (XVIII, 34), non è fatto per riecheggiare all’altro: «di qua, di là, di giù, di su li mena» (V, 43); né il «sasso tetro » della prima bolgia a «lo cerchio tetro» degli avari (VII, 31).

«Il peggio è, conclude il Barbi, che per tale libertà d’interpretazioni allegoriche e per la stessa preoccupazione dii dimostrarle attendibili, s’acquista ardire e franchezza a trattare in ugual modo anche le espressioni dirette del sentimento e del pensiero, o per lo meno non si presta la necessaria attenzione a tutti quegli elementi del contesto) che servono a precisare il valore di un dato passo» (115). Ma qui non si tratta né punto né poco d’interpretazioni allegoriche. Le note finora riprovate concernono tutte l’arte di Dante: l’allegoria in esse non ci ha nulla da vedere. E il rimproverarmi di non aver prestata la necessaria attenzione ecc., è una cosa che mi muove un poco a riso; perché se in qualcosa he peccato e pecco, forse è nell’averlo studiato e studiarlo troppo il nostro poeta, «com'egli sae veracemente». Per provare tuttavia quanto ingiustamente io m'allontani più di ogni altro dalla tradizione esegetica anche per la parte letterale. il Barbi continua: «Ne vogliamo un esempio? Il Pietrobono, per ispiegare secondo le sue idee come il ruscello che spiccia della selva dei suicidi possa dirsi la cosa più mirabile vista sin allora in inferno, ha bisogno d'intendere il verso «non se’ ancor per tutto il cerchio volto» (Inf. XIV, 117) non hai percorso ancora tutto attorno questo secondo girone, e supporre quindi, per l’inciso «giù calando al fondo», che il bosco de’ suicidi sia in pendio e i somigli alla selva fonda del primo canto». Ma idee mie in proposito non ne ho; nell'interpretare un poeta mi studio quanto è possibile, per ciò che riguarda il significato, di attenermi alle idee espresse dall'autore che illustro; i come in questo caso che dovrebbe colpire di meraviglia, e forse anche di una nobile indignazione per l’audacia con cui lascio da parte la spiegazione tradizionale e torno... a Dante. C'è infatti cosa più evidente di questa che il cerchio vuol dire il cerchio, e non altro? La parola cerchio s'incontra molte volte nella Commedia; ma io sarei grato a chi m’indicasse dove ha un senso diverso dall’ordinario. I cerchi d’Inferno Dante li chiama sempre cerchi, e lo stesso fanno tutti coloro che ne parlano. Sicché, spiegando alla maniera che si è vista, non ho commesso nessun arbitrio; mi sono limitato a sostituire la parola girone a quella più comune di cerchio, ma perché il Poeta ha detta innanzi che l'inferno È della violenza in tre gironi è distinto e costrutto» (116). Il mio torto, a dir la verità, sarebbe un altro, nell’aver cioè inteso che con il luogo Virgilio si riferisce al cerchio dove si trovano, e non al baratro infernale, come generalmente fanno i commentatori.
Ma sarà opportuno per amor di chiarezza esporre per intero la questione. Dopo ascoltato dal maestro che cosa sono i fiumi d’inferno e donde scaturiscono, stando sempre davanti il rio, di cui fin lì non ha veduto cosa più notabile, il nostro Poeta non si sa spiegare come mai quel ruscello lo abbia incontrato sole a quel punto e chiede:

Se ’l presente rigagno
si diriva così dal nostro mondo,
perchè ci appar pur a questo vivagno? (117)

Virgilio risponde:

Tu sai che ’l luogo è tondo;
e tutto che tu sie venuto molto
pur a sinistra, giù calando al fondo,

non se’ ancor per tutto ’l cerchio volto;
per che, se cosa n’apparisce nova
non de’ addur maraviglia al tuo volto (118).

Il discorso è preciso e non può sollevare dubbi di sorta; ma è stato ingarbugliato fin dagli antichi, e i lettori conoscono ciò che mi è toccato per aver tentato di rendergli il suo senso genuino. Virgilio ha detto chiaro che le lagrime fluenti dalle ferite del Veglio di Creta

fanno Acheronte Stige e Flegetonta;
poi sen van giù per questa stretta doccia
infin là ove più non si dismonta:

fanno Cocito (119).

Il soggetto è e rimane sempre lo stesso: le lagrime, che accolte insieme forano la grotta di Creta e si riversano nel baratro. Nessuno, suppongo, ha mai immaginato che esse, cadendo nell'inferno, si diramino in quattro fiumi diversi, ciascuno con il suo proprio corso. Né l'alto inferno, specie per il cerchio degli avari, né l’ottavo cerchio, specie per la quarta, la quinta, la sesta e la nona bolgia, possono immaginarsi tagliati da un fiume qualsiasi. Dio avrebbe condannate le anime rispettive che vi abitano a una pena impossibile a osservare. È evidente che le stesse acque dell’Acheronte, riapparendo all’orlo del cerchio degli avari fanno lo Stige; e quelle dello Stige, similmente, attraversando il sottosuolo ardente della campagna degli eretici, sboccano al principio del settimo e fanno il Flegetonte. Ma da questo alla fine dell’inferno della violenza non s’inabissano un’altra volta sotto terra, ma sen vanno giù per la stretta doccia, causa di tanta ammirazione, attraversando la selva dei suicidi e l’orribil sabbione. Ora Dante, che ha capito benissimo la spiegazione del maestro, sa che le lagrime del Veglio. dopo alimentato l’Acheronte, lo Stige e il Flegetonte, sen vanno giù, passano tutte per quella stretta doccia; ma sa pure d’essersi aggirato a lungo per il secondo girone (120). — Come mai, domanda, dopo percorsa tanta parte della trista selva, non ci è mai capitato d’incontrar questo ruscello? — E Virgilio: È fero che noi abbiamo camminato parecchio per questo luogo, calando sempre a sinistra, ma non l'abbiamo mica percorso in tutto il suo giro. Se quindi trovi qualcosa di nuovo, non te ne devi maravigliare — E sia, dirà a sua volta il lettore: ma non si vede a che miri con un simile ragionamento — A fissar bene nella nostra mente due cose semplicissime: che il superar la selva dei suicidi non fu punto agevole, e che il Flegetonte, diversamente dagli altri fiumi infernali, scorre sempre alla superficie del settimo cerchio dal principio alla fine. Ma in questa cosa semplicissima si nasconde un grande mistero. Se quelle acque si sprofondassero daccapo, non potrebbero spegnere coi loro vapori le fiammelle che vi piovono sopra e l'inferno, come s'è visto, non si potrebbe superare. Esse ‘adempiono nel viaggio di Dante alla stessa funzione delle ruine, che poi sono le ferite con cui il Possente vulnerò l’inferno a fin di sanare quelle, onde il maligno aveva vulnerato il genere umano. Ma queste son cose ragionate dal Pascoli, che era un poeta e non poteva perciò capire il nostro Poeta, nonostante il lungo studio e il grande amore.
Vediamo ora come quei versi si dovrebbero intendere secondo il buon metodo, l’esegesi tradizionale e i suoi custodi. Al parere di costoro, i quali si guardano bene dallo spiegare perché quel ruscello sia la cosa più notabile vista fin lì, con l’espressione il luogo si alluderebbe a tutto l’inferno, e con il verso: «non se’ ancor per tutto il cerchio volto», si vorrebbe dire: non hai ancor compiuto il giro di tutto l’inferno. Per garanzia dei lettori trascrivo qui la chiosa dell’Andreoli, che si può considerare come riassuntiva delle altre, anche di quelle del Casini-Barbi, del Torraca e del Vandelli, i tre «che da più lungo tempo tengono il campo nelle scuole e fra le persone calte» (121): «Finge il Poeta di percorrere nel suo viaggio la nona parte di ciascun de’ nove cerchi infernali, acciocchè giunto nel fondo e’ si trovi aver tutta percorsa la circonferenza dell’abisso. Per ciò Virgilio gli dice che se adesso la prima volta ei vede quel rigagno che pure attraversa tutti gli altri cerchi già visitati, non se ne dee maravigliare, considerando com’egli nessun di quei cerchi ha visitato intero».
Tante proposizioni, quasi, e tanti spropositi. Di dove i commentatori abbiano ricavato che: Dante finge di attraversare la nona parte di ciascun cerchio, lo sapranno loro; ché nella Commedia non c'è parola che lo lasci sospettare. Nella Commedia si legge chiaramente che in certi cerchi i Poeti si aggirano a lungo, fanno un grande arco, e certi altri invece li tagliano per diritto da sponda a sponda. Ma dato pure che ne attraversassero la nona parte, chi ci spiega come mai, così facendo, all’ultimo si troverebbero «aver tutta percorsa la circonferenza dell’abisso»? L’inferno di Dante, avendo forma di cono, ha tante circonferenze quanti sono i punti del suo asse, e quindi infinite. Quale allora la circonferenza dell’abisso? E da che cosa si argomenta che quel rigagno attraversa tutti i cerchi già visitati? Non certo dalia lettera del poema, il quale dice che poi, dopo fatto cioè Flegetonte, le lagrime del Veglio sen van giù a formare, proprio esse, il Cocito. E nemmeno dalla struttura generale dei cerchi, per molti dei quali, come si è notato, è addirittura inconcepibile che ci passi un fiume grande o piccolo; senza dire che il Poeta «quell'acqua tinta» del ruscello dal rossore raccapricciante la paragona a un fiume,

che si chiama Acquaqueta suso, avante
che si divalli giù nel basso letto,
e a Forlì di quel nome è vacante (122),

e piglia quello di Montone; come accade appunto delle lagrime del Veglio che si chiamano successivamente Acheronte, Stige, Flegetonte e Cocito. secondo le regioni che attraversano e la natura dei peccati che vi sono puniti. Il fiume infernale è in conclusione uno solo. Chi non lo crede, apra il canto parallelo del Purgatorio, dove è descritto il corso dell'Arno, per la «misera valle»; e vedrà che anche questo è distinto in quattro parti, secondo i paesi che attraversa e secondo gli abitatori che popolano le sue sponde: porci come Ciacco, botoli come l’Argenti, lupi come i diavoli accorsi alla difesa della porta di Dite e poi tornati nel loro cerchio, che è l’ottava; e volpi, come i Pisani, che l'Arno dovrebbe sommergere, come il Cocito fa con i traditori.
Ma supponiamo che queste siano tutte difficoltà da nulla e i fiumi d’Inferno, in cambio di un corso solo, ne abbiamo quattro, ciascuno distinto dall’altro, e cinque con quello del fiumicello sanguigno: che autorizza a intendere che con il luogo che è tondo il Poeta si riferisce al baratro tutto intero? Che questo sia tondo credo non l'abbia detto mali nessuno e che a nessuno sia lecito dirlo. Parlandone o scrivendone diciamo che rassomiglia a un cono rovesciato, un imbuto, un anfiteatro con le sue grandi gradinate, con l’asse che va dalla crosta al centro della terra, e cose simili. Tondi o circolari diremo i cerchi e le piagge in cui si divide, e non l’inferno dantesco, che non è stato mai né una palla, né una sfera. Ma concediamo anche questo, che Dante cioè, costretto dalla rima, abbia chiamato tondo il suo inferno. Rimarrà sempre da chiarire il motivo per il quale, in quest’unico caso, leggendo: «non se’ ancor per tutto il cerchio volto», si dovrebbe credere che il cerchio non indica il cerchio dove sono, come esige la nostra lingua latina, antica e nuova, e come reclama l’uso dei parlanti, antichissimi e novissimi, ma un cerchio indeterminato. Se Virgilio avesse voluto alludere a un cerchio diverso da quello in cui si trovavano, avrebbe detto: «non se’ ancor per tutto un cerchio volto»; e solo allora sarebbe stato opportuno ricercare se quel ruscello non avesse per avventura un corso a parte. È indubitabile al contrario che in esso non dobbiamo vedere che un emissario del Flegetonte, come ne assicura il «rossore» delle sue acque, e «il bollor dell’acqua rossa», in cui stanno a bollire coloro che misero le mani nel sangue e negli averi del prossimo. Non mi fermo sull’inciso «giù calando al fondo», perché chi riconosce, e riterrei lo dovessero riconoscer tutti, che con le due espressioni il luogo e il cerchio Dante allude al luogo e al cerchio in cui si è a lungo aggirato, ossia al bosco dei suicidi, vede che l’esser questo in pendio è una conseguenza, non immaginata da me, sì imposta inesorabilmente dal senso letterale dei versi analizzati.
Stando così le cose, conchiuderò con le parole del mio non sempre dolce amico: «Lascio giudicare al lettore se il contesto permetta una interpretazione» (123) simile a quella che ha il vanto di passare per ufficiale e tradizionale.

Date: 2021-12-28