«In exitu Israel de Aegypto» [Carlo Ossola]

Dati bibliografici

Autore: Carlo Ossola

Tratto da: Introduzione alla Divina Commedia

Editore: Marsilio, Venezia

Anno: 2012

Pagien: 29-30

Nella Commedia tutti i tempi sono convocati poiché la lettera del testo è egualmente «storia», secondo l'esegesi offerta dall'Epistola a Cangrande, e rinvia - come le Scritture sante - a una "ulteriorità" di senso che è l'allegoria:

Il senso di quest'opera non è semplicemente uno, anzi essa può dirsi "polisema", cioè di più sensi; infatti il primo senso è quello che si ha dalla lettera, ma altro è quello che si ottiene aldilà delle cose significate letteralmente. Il primo si chiama letterale, il secondo allegorico, o morale, o anagogico. Questo modo di esporre, perché sia più chiaro, può essere considerato in questi versi: «All'uscita di Israele dall'Egitto, della casa di Giacobbe da una nazione barbara, la Giudea diventò il suo santuario, Israele il suo dominio». Ora se guardiamo solo alla lettera, ci vien significato che i figli di Israele uscirono dall'Egitto al tempo di Mosè; se ci riferiamo all'allegoria, ci viene significata la nostra redenzione attuata da Cristo; se al senso morale, la conversione dell'anima dal lutto e dalla miseria del peccato allo stato di grazia; se all'anagogico, ci vien significata la liberazione dell'anima santa dalla servitù della corruttibilità terrena verso la libertà della gloria eterna (Ep. XIII, 7).

Il sistema dei «quattro sensi» delle Scritture, per cui l'Antico prefigura il Nuovo Testamento e questo anticipa e promette l'Apocalissi, essendo Cristo a un tempo Α e Ω, principio e fine, viene da Dante suggerito come modello di lettura per la Commedia, che si offre dunque a un tempo come poema "letteralmente storico" (tutti i personaggi condannati sono letteralmente, e storicamente, nella posizione di dannati) e come visione anagogicamente rivolta alla contemplazione della Gloria promessa. Dante stesso cita il versetto In exitu lsrael de Aegypto (Ps., CXIII, 1) nel n canto del Purgatorio, canto delle anime che il «celestial nocchiero» porta a purificazione ai lidi della santa montagna. Non c'è nulla, dunque, nella sua Commedia, che sia passato: tutto è nel presente del pellegrino e del lettore, al quale Dante si volge - nel poema - contemporaneamente al cammino che compie e alla scrittura che si distende nell'eterno: «O voi che siete in piccioletta barca, / desiderosi d'ascoltar, seguiti / dietro al mio legno che cantando varca, / tornate a riveder li vostri liti: / non vi mettete in pelago, ché forse, / perdendo me, rimarreste smarriti./ L'acqua ch'io prendo già mai non si corse» (Par., II, 1-7). Il poema è dunque - come ha osservato acutamente Ezra Pound (cfr. infra) - scena e testo di Everyman, di Ognuno. E quest'Ognuno-di-noi, via via che avanza nel testo, sente anche - secondo l'invito e la certezza di Mandel'stam - che tutto il poema fermenta in futurum1, continuamente deborda ed eccede, perennemente in atto, perennemente in fieri, come il più alto suo Fattore entro di Sé e nel creato: «in sua etternità di tempo fore, / fuor d'ogne altro comprender, come i piacque, / s'aperse in nuovi amor l'etterno amore» (Par., XXIX, 16-18).

Notes
1
Mandel'stam, Conversazione su Dante, cit., cap. v, p. 96.
Date: 2021-12-26