Dante e la creazione di una realtà virtuale: realismo, ricezione e le risorse della narrativa [Teodolina Barolini]

Dati bibliografici

Autore: Teodolinda Barolini

Tratto da: La Commedia senza Dio. Dante e la creazione di una realtà virtuale

Editore: Feltrinelli, Milano

Anno: 2013

Pagine: 11-35

Nel suo fondamentale ma insufficientemente utilizzato Dante profeta, pubblicato nel 1941, Bruno Nardi aveva lanciato una sfida critica invitandoci a vedere fa Commedia non attraverso un vetro appannato ma faccia a faccia. Egli inizia là dove tutte queste discussioni non possono che iniziare e cioè con i momenti più apertamente profetici della Commedia, le profezie politiche. Dopo averle situate nel contesto del gioachinismo e dello spiritualismo francescano, Nardi affronta il problema dell'atteggiamento medievale nei confronti di profezia, sogni e divinazione. Ricordandoci l'insegnamento di Alberto Magno che alcune persone "sognano il vero, e, a differenza di altri, hanno visioni veraci, talché non di rado pronunziano perfino chiarissime profezie" (p. 368), Nardi sostiene che Dante considerava la propria esperienza una di tali visioni veraci , con il risultato che coloro che leggono il poema come una finzione letteraria non ne colgono il vero significato: “Chi considera la visione dantesca il rapimento del poeta al cielo come finzioni letterarie, travista il seno” (p. 392). Inoltre, Nardi insiste nel porsi le domande imbarazzanti che sono la logica conseguenza della sua posizione, non solo se "Si deve dunque credere colle donnicciole di Verona, che Dante scendesse davvero all’Inferno, e davvero salisse all'Empireo" (p. 392), ma anche, "Ma fu veramente un profeta, Dante?" (p. 405).
Stabilito che la risposta alla prima domanda è un sì con riserva ("Non precisamente questo; bensì che Dante credette gli fossero mostrati in visione l'Inferno, il Purgatorio, il Paradiso terrestre, come veramente sono nella realtà", p. 392), la mossa successiva è un attacco a Croce per il quale ammettere una simile allucinazione da parte di Dante significa suggerire - un'ipotesi assurda - che il lucido poeta fosse un pazzo. Se questa e pazzia, dice Nardi, Dante era in buona compagnia: "Dobbiamo confessare che di demenza è impastata la psicologia religiosa; e dementi furono del pari Mosè, Zarathustra e Maometto, dementi Geremia, Ezechiele e san Paolo, non meno del protomartire Stefano e dell'autore dell'Apocalisse" (p. 396). Di fronte all'ovvia somiglianza delle rivendicazioni di Dante con quelle dei profeti precedenti, coraggiosamente - soprattutto perché non era un accademico americano ma un ex seminarista italiano - Nardi salta la barriera che, separando Dante dai suoi precursori, protegge i credenti moderni dalla sgradevole necessità di accettare da un poeta medievale ciò che essi ritengono meno antipatico accettare dai vari visionari che lo precedettero: cioè l'autentica ispirazione divina. In questo, Nardi fu veramente unico, poiché esistono complessi fattori culturali che impediscono agli studiosi italiani di essere oggettivi rispetto alle rivendicazioni di verità della Commedia: sia che come credenti essi siano incapaci di prendere alla lettera le pretese profetiche di Dante sia che, divenuti non credenti (e spesso convertiti a un secolarismo militante), non vogliano farlo. Ma se Nardi è più razionale di quanto non sia accettabile tra credenti, egli è anche più credente di quanto non sia accettabile fra non credenti. Il fatto stesso di aver posto la sua ultima domanda (alla quale risponde ancora con un sì con riserva) può aver limitato l'influenza del suo saggio. In questo capitolo traccerò a grandi linee la storia recente della reazione critica alla domanda insopprimibile di tutti i lettori del poema di Dante: come dobbiamo rispondere all’insistenza del poeta di dire la verità? A monte di questa domanda e n’è subito un’altra alla quale non possiamo rispondere ma sulla quale possiamo però permetterci di fare qualche ipotesi: Dante stesso credeva alla verità letterale di quello per cui rivendicava la verità letterale?
In seguito alla querelle americana riguardo l’allegoria dei poeti in contrasto con l’allegoria dei teologi (secondo la terminologia del Convivio che distingue fra un significato allegorico creato e inventato dall’uomo e un significato allegorico intrinseco e divino), sembra di essere arrivati a un’impasse nella quale la questione delle rivendicazioni di verità da parte di Dante è stata in sostanza accantonata, invocata da alcuni, ignorata da altri, considerata ormai risolta da molto. Ciò non significa che il problema non venga mai sollevato: nel tentativo di comprendere l’intertestualità della Commedia, per esempio, esso viene di frequente sfiorato. Ma non c’è accordo – solamente, nell’ambito degli studi danteschi nordamericani , un’indiscussa e acritica ostentazione di fedeltà agli insegnamenti di Charles Singleton. Una delle ragioni principali di questa impasse è stata la questione, ancora irrisolta, della paternità dell’Epistola a Cangrande. Un’impasse accentuata anche dalle differenze culturali che precludono a studiosi essenzialmente d’accordo di trarre beneficio dall’altrui lavoro: sono convinta, infatti, che il contributo di Nardi in Dante profeta e quello di Singleton sull’uso dell’allegoria dei teologi nella Commedia siano essenzialmente complementari. Poiché Singleton, sulla scia di Erich Auerbach sottolinea la validità del senso letterale come storicamente vero e la questione di Dante "profeta", in definitiva, va al di là delle specifiche profezie all'interno del testo per abbracciare il più vasto problema di un poeta che si considera dicitore di verità, queste due tradizioni sono effettivamente modi paralleli di discutere l'unica questione centrale delle rivendicazioni di verità da parte del poeta. Che esse non siano state considerate tali dipende dal fatto che nessuna delle due parti si è dimostrata particolarmente aperta nell’accogliere il modo di porre la questione dell'altra. Negli Stati Uniti abbiamo dibattuto la questione dell'allegoria come un metodo, un genere, o un tipo di interpretazione, dando luogo a una discussione critica sulla Commedia che poco ha a che fare con il testo. Da qui le accuse italiane di sterile allegorizzazione a spese della poesia - un'accusa paradossale se si pensa che la nostra insistenza sull'allegoria dei teologi era intesa a reinvestire il senso letterale di un valore poetico negato dall'interpretazione tradizionale basata sull'allegoria dei poeti. E nemmeno si può dire che abbiamo dato a Nardi il posto che gli spettava. In Dante Theologus-Poeta, Robert Hollander rimprovera quei dantisti che "non hanno difficoltà a capire che Dante rivendica verità letterale al suo poema, ma poi procedono a fare di questo Dante un 'profeta', negando così, come fece Bruno Nardi, il modo in cui il poema è radicato in una quadruplice esegesi in nome dì un singolo aspetto delle possibilità bibliche". Ma Nardi non aveva negato nulla, aveva invece formulato la questione in termini più congeniali a chi, come lui, era meno un critico letterario che uno storico e un filosofo, immerso nelle controversie del tredicesimo secolo, in cui i francescani, per esempio, impugnavano regolarmente la verità dì altri francescani, e l'accusa di "falsa profezia" era tutt'altro che insolita. Al contrario, se interroghiamo la Commedia, come abbiamo in passato interrogato il Convivio e l'Epistola a Cangrande, troveremo che il modo di Nardi di concepire la questione delle rivendicazioni di verità da parte del poeta era tutt'altro che fuori luogo.
Nel suo più tardo Il unto sull'Epistola a Cangrande, Nardi, dopo aver esposto a sua tesi nei confronti delle rivendicazioni dì Dante, passa a esaminare m che modo esse siano state tradizionalmente evase. In altre parole, formula una teoria che potremmo definire ella “ricezione evasiva". La teoria di Nardi, mettendo l'accento sulla ricezione, e quindi sui commentatori del Trecento - i primi "ricettori" documentati-, implica un cambiamento di prospettiva dalla Commedia all'Epistola a Cangrande. Riportando le accuse di eresia scagliate su Dante, chiamato vaso del demonio dal domenicano Guido Vernani e culminate nella condanna domenicana del 1335, Nardi nota come tutti i primi commentatori di Dante (e tra questi include l’autore della parte espositiva dell'Epistola, un punto su cui torneremo) si sentano in dovere di difendere il poeta dall'accusa di eresia. La loro difesa, invariabilmente, si basa sulla distinzione fra poeta e theologus, fra il senso letterale inventato dal poeta e il senso allegorico utilizzato dal moralista: "E tutti lo mettono al riparo da questa accusa nello stesso modo, cioè distinguendo quello che Dante scrive come poeta (poetizans) da quello che Dante pensa come teologo 'nullius dogmatis expers', ossia in sostanza, fra il senso letterale, intenzionalmente svalutato, e il senso allegorico, il solo vero, cioè quello che si cela sotto il velo delle parole fittizie, 'sotto il velame de li versi strani', come dice Dante stesso in uno dei luoghi veramente allegorici" (p. 27). I primi commentatori spostarono dunque l'attenzione dal senso letterale e dalle sue inaccettabili rivendicazioni, intenzionalmente svalutandolo ed equiparandolo alle immagini presumibilmente fittizie del poeta. Questa divisione stratificata dell'autore del testo secondo criteri allegorici, dove il moralista è responsabile della verità allegorica nascosta sotto la bella menzogna delle immaginose invenzioni del poeta, crea una de recabile dicotomia ancor oggi esistente, che ha dato origine a critici che, “pur riconoscendo a Dante la tempra di vero poeta, ne svalutano l’altissima ispirazione religiosa da cui la poesia sgorga” (p. 30). Per Nardi, la disastrosa lezione su come proteggere il poeta svalutando il senso letterale del suo poema è stata stabilita per la prima volta dal ben intenzionato teologo, responsabile, secondo lui, della sezione espositiva dell'Epistola a Cangrande.
A questo punto, i paralleli fra Nardi e Singleton si fanno più evidenti e con essi i paradossi inerenti alla nostra storia. Nardi è un altrettanto strenuo difensore del senso letterale della Commedia di Singleton; e come Singleton, è profondamente consapevole del significato di documento ermeneutico che possiede l'Epistola a Cangrande. Ma il loro approccio a questo documento non potrebbe essere più diverso. Mentre Singleton basa la sua difesa del senso letterale della Commedia facendo ricorso all'Epistola a Cangrande - "è così chiaro che quella della Divina Commedia e l’’allegoria dei teologi’ (come afferma per mezzo di un esempio l'Epistola a Can Grande) che ci si può solo stupire dei continui sforzi fatti per considerarla un’allegoria dei poeti’" - Nardi rifiuta di riconoscere la paternità dantesca della maggior parte e Epistola perché pensa che essa tratti il senso lettere del poema come pura fictio. In questo, Nardi prese quella che al tempo parve una posizione piuttosto singolare, poiché - come Singleton astutamente osservò - v'era da aspettarsi che gli attacchi all'allegoria dei teologi, quale metodo interpretativo dominante della Commedia, avrebbero preso la forma di attacchi all'autenticità dell'Epistola, come effettivamente poi capitò. Prima di occuparci delle complicazioni nate dalla posizione di Nardi nei confronti dell'Epistola, bisogna però registrare un’altra profonda convergenza tra le sue idee e quelle di Singleton, una convergenza che rappresenta la logica conseguenza della oro difesa del senso letterale del poema.
L’accoglienza indifferente riservata a Dante profeta in Italia è dovuta all'accento posto da Nardi sugli effetti dannosi di separare il theologus dal poeta. L’atteggiamento protezionista degli studi danteschi italiani verso ciò che viene definito “poesia” è un'eredità crociana, e la lezione di Croce - motivata dal suo legittimo disgusto verso un’allegorizzazione sradicata – non rappresenta nella sua essenza altro che una vigorosa e coerente applicazione d un metodo già canonico negli studi danteschi, vale a dire la dicotomia theologus-poeta. Benché, rispetto a Nardi, Singleton non considerasse questa dicotomia altrettanto dannosa, anche lui era consapevole del problema e se ne occupò secondo un’ottica che era effettivamente nardiana, ma che non fu però ereditata dai suoi allievi che conservarono invece la dicotomia e privilegiarono il theologus - esattamente come i critici italiani, che hanno fatto l’opposto, li hanno accusati di aver fatto. Infatti scrive Singleton che "se dovessimo scegliere tra Dante-teologo e Dante-poeta, opteremmo, suppongo per il poeta" (p. 116), aggiungendo a proposito di "Boccaccio e molti altri [che] hanno preferito il teologo”: “Considerare il poeta come un ‘teologo’ vuol dire considerarlo essenzialmente come uno che costruisce un'allegoria dei poeti, che ammanta sotto un velo le verità della teologia - un'opinione che ha una lunga storia nell'esegesi dantesca" (p. 116, n. 3).
Sintomo e causa del punto morto che abbiamo raggiunto rispetto al problema delle rivendicazioni di verità da parte di Dante (espressione che preferisco, sia per chiarezza sia per un approccio più ecumenico agli studi danteschi, alle precedenti allegoria o profezia) sono l'acrimonia e l'inflessibilità dimostrate da coloro che, senza rendersene conto, riflettono la vecchia dicotomia nella sua forma estrema: a forza di scavare sempre più profondamente nell'humus culturale e teologico dal quale scaturisce la Commedia, gli eredi di Singleton hanno fatto apparire il poeta sempre più un teologo, scatenando una reazione in coloro che vorrebbero ci ricordassimo che egli è un poeta. Ci siamo interessati alla poesia della Commedia, cioè alla sua retorica e filologia, e alla sua teologia, cioè alla sua filosofia morale, aspetti del poema che teniamo rigorosamente separati; rifuggiamo dal crogiolo che ne costituisce il fondamento e dove le due cose coincidono - in un poeta che si modella su Davide l’”umile salmista” (Purg. X 65), che Davide compone una teodia e parala come scriba Dei della "materia ond'io son fatto scriba" (Par. X 27) con quella che considera un'autorità teologicamente investita pari almeno a quella dell'autore dell'Apocalisse (è Giovanni a essere d’accordo con lui sui dettagli della visione nel canto XXIX del Purgatorio - non il contrario). E anche quando queste questioni vengono affrontate, esse sono considerate non come prerequisiti fondamentali per qualunque indagine sulla Commedia, ma come componenti indipendenti degli studi danteschi, dedicate all’allegoria, al profetismo, alla letteratura apocalittica, al misticismo e simili. Ampiamente responsabile di questa confusione critica è quella che io considero la falsa pista della paternità dell'Epistola a Cangrande. Il legame fra l'Epistola e la questione del modo di significare della Commedia ha avuto l'infelice effetto di attribuire al problema della paternità dell'Epistola un'importanza decisiva nell'interpretazione del poema. Questa deformazione del dibattito critico è implicita nel contributo di Singleton, che rivela la sua maggior debolezza nella fiducia accordata all'Epistola, ed è esplicita in Nardi.
La questione della paternità dell'Epistola ci ha distratti dal testo che cerchiamo di capire dando origine a una confusione non necessaria. Per esempio, il principale antagonista di Nardi nel dibattito sulla paternità dell'Epistola è stato Francesco Mazzoni, uno studioso lontano dall'essere un sostenitore dell'interpretazione "profetica" della Commedia; è dunque ironico che Nardi e Mazzoni abbiano reagito all'Epistola nello stesso modo, considerandola, cioè, per nulla contraria alla natura fittizia del poema che sta chiosando. A complicare ulteriormente le cose, in La "mirabile visione" di Dante e l'Epistola a Cangrande, Giorgio Padoan si getta nella mischia dalla parte di Mazzoni e dell'autenticità dell'intera Epistola, in difesa della causa di Nardi. Nardi nega l'autenticità della parte espositiva dell'Epistola perché crede che essa incoraggi l'idea della Commedia come pura fictio; Padoan sostiene l'autenticità dell'Epistola perché crede esattamente il contrario, cioè che nei toni e nei contenuti l’Epistola avalli l'idea che Dante abbia intenzionalmente rappresentato il senso letterale del suo poema come vero. Diversamente da altri commenti all'apertura del Paradiso, che rispondono ai versi del primo canto, in cui l'ascesa del poeta viene audacemente modellata sul raptus di san Paolo, “Dio solo sa se col corpo o fuori dal corpo” (II Cor. XII 2-4), con cauti appelli alla finzione poetica, Padoan nota come l'Epistola a Cangrande non contenga simili sconfessioni: "Il fatto essenziale per questo discorso è che nell'Epistola - proprio come abbiamo visto per la Comedia - si afferma esplicitamente che non di viaggio metaforico si tratta, né di immaginazione di fantasia, bensì di vera e propria 'elevatio ad coelum'" (p. 43). Ancora più significative sono per Padoan le autentiche visioni bibliche invocate dall'Epistola come modelli per la Commedia, "tre esempi biblici di visioni (ancora una volta) realmente avvenute: (1) il raptus al cielo di S. Paolo; (2) la visione che S. Pietro, S. Giacomo e S. Giovanni ebbero della trasfigurazione di Cristo; (3) la visione della gloria di Dio avuta da Ezechiele" (p. 44), esempi che a turno sono rafforzati da riferimenti alle tre autorità dell'esperienza visionaria, Riccardo da san Vittore, san Bernardo e sant'Agostino.
Spronandoci a confrontare e a discutere apertamente i problemi sollevati da Nardi, Padoan ci rivolge la domanda chiave degli studi danteschi: "Ma questo insistere sulla visione e questo tono profetico sono essi ad imporsi a Dante per la forza insita nel suo stesso realismo e per la foga della sua appassionata polemica, oppure derivano da una scelta deliberata e consapevole dell'autore da una sua ben meditata convinzione?" (p. 39). Perché questa domanda, articolata quasi quarant'anni fa, e le cui implicazioni da una parte sollevano problemi di rappresentazione e dall'altra di intenzionalità autoriale, ci perseguita ancora oggi? Come ho suggerito, una delle ragioni per cui le argomentazioni di Padoan non sono state in grado di penetrare e far convergere il pensiero critico come l'autore avrebbe desiderato è il loro collegamento con l'Epistola; il fatto che esse abbiano a che fare più con l'Epistola che con la Commedia, e il fatto che esse siano presentate nel contesto della difesa della paternità dantesca dell'Epistola, hanno permesso di sminuirne più facilmente l'importanza. Inoltre, collegando una questione secondaria (la paternità dell'Epistola) alla questione principale (il modo di significare della Commedia) e sfumando poi i contorni tra le due, abbiamo fatto sì che le acque critiche si intorbidassero paurosamente. Un esempio in questo senso è un libro di Peter Dronke del 1986, nel quale l'autore (come Padoan, un allievo di Nardi) inveisce contro l'approccio esegetico che abbiamo etichettato come allegoria dei poeti, e che egli pensa faccia un cattivo servizio alla forza immaginativa della Commedia. Seguendo Nardi, egli sostiene che le rivendicazioni di Dante non sono risibili nel loro contesto storico: "i grandi profeti dei secoli dodicesimo e tredicesimo - Hildegard e Gioacchino, Mechthild e Marguerite - rivendicarono in modo inflessibile laa veridicità delle loro visioni. Credo che sia questo il genere di rivendicazione che Dante avanza" (p. 56, n. 8). Tuttavia, Dronke prende posizione contro la stesura dell'Epistola da parte di Dante, il cui autore egli considera un inetto allegorista, e dunque contro Padoan ; inoltre, mette Singleton e Hollander nel mucchio di quella maggioranza di "studiosi successivi a Croce, [che] hanno continuato a pensare alla Commedia in termini di finzione" (ibidem), un'affermazione che non rende giustizia alla posizione di entrambi e nemmeno rinforza la causa per la quale egli combatte. Ma se vogliamo fare chiarezza nella complessa tradizione critica che abbiamo ereditato è necessario un maggiore impegno verso l'individuazione delle diverse posizioni. Il libro di Dronke, che avvicina inoltre le rivendicazioni profetiche di Dante a quelle di Alano, non riconoscendo che uno dei dogmi fondamentali dei sostenitori di Nardi è stato quello di separare Dante da quei poeti per i quali il senso letterale è esplicitamente meno importante di quello allegorico, illustra bene la confusione causata dalla mancanza di consenso critico.
Ho suggerito prima che se dovessimo interrogare la Commedia come abbiamo interrogato il Convivio e l'Epistola troveremmo elementi di sostegno sia per le tesi di Nardi che per quelle di Singleton. Qualunque studio metatestuale della Commedia deve fare i conti con l’autorappresentazione del poeta quale dicitore di verità e dunque con "Dante profeta" nel senso più ampio. Certamente, uno dei risultati di interrogare la Commedia su se stessa potrebbe essere quello di far cadere la distinzione tra approccio “allegorico” e approccio “profetico” suggerendo che, dal punto di vista di Dante, essi sono la stessa cosa. In altre parole, ciò che potremmo chiamare la maniera profetica dantesca corrisponde all'allegoria dei teologi di Singleton o all'interpretazione figurale di Auerbach. Questa affermazione è tanto più facile se si considera che non è l'interpretazione quadruplice in sé, come tecnica pratica di esegesi, a essere importante per Dante, quanto ciò che questa interpretazione veramente significa. Ciò che è significativo nella tesi di Singleton riguarda l'uso di un approccio allegorico, chiamato “allegoria dei teologi” nel Convivio, ma “figura” altrove, dove il senso letterale è considerato storicamente vero. Non c’è bisogno di inferire che Dante volesse che il suo poema venisse ovunque decodificato secondo un metodo (l’interpretazione allegorica quadruplice) al quale perfino gli esegeti della Bibbia molto spesso aderivano formalmente più che servirsene veramente. E non c’è nemmeno bisogno di ritenere che la scrittura divina della Commedia – la teodìa dantesca, Par. XXV 73 – abbia bisogno dell’Epistola a Cangrande o di qualunque altro documento esterno per essere provata. Il poema stesso fornisce segni sufficienti e inconfutabili del modo in cui desidera essere letto.
Con questo, non voglio dire che l’Epistola non sia interessante; per l'esattezza, io credo che essa sia di Dante e ancora non ho visto niente che mi convinca del contrario, Va tuttavia notato che il clima critico si è alterato al punto da rendere la posizione di Nardi, un tempo considerata idiosincratica, poco meno che profetica. Recentemente, Zygmunt G. Baranski ha messo in dubbio l'autenticità dell’Epistola poiché crede che essa presente la Commedia alla stregua di “una mediocre finzione letteraria con un messaggio eticamente utile”. Quel che mi preme qui di sottolineare è che la paternità dell’Epistola, dovesse essere un giorno la questione concludersi definitivamente a sfavore di Dante, non deve in nessun modo interferire son l’interpretazione della Commedia.
La distanza che separa Nardi da Singleton non riguarda tanto le loro idee su come il poema si fa interpretar, quanto la loro risposta alla seconda delle mie domande iniziali; riguardo la percezione che Dante aveva di se stesso, Singleton presenta un profilo critico meno “naif” di quanto faccia Nardi, più vicino in questo all’insegnamento di Croce: “Ma pensare che un Dante, dotato di menta critica e riflessiva, poetesse credere di essere un altro Enea o un altro san Paolo significa semplicemente scaricare su di lui la nostra riluttanza a misurarci direttamente con il mito e a comprenderlo” (p. 109). In questo, io seguo Nardi, proprio perché ritengo che sia lui che di fatto affronti “il mito più direttamente”; perciò, la mia approvazione della famosa affermazione di Singleton che “la fictio della Divina Commedia è che non sia un fictio" (p. 88), non si estende al suggerimento che Dante stesso pensasse che il suo poema fosse una finzione narrativa nel senso semplice della parola. Secondo me Dante usava consapevolmente i mezzi della finzione letteraria - le strategie poetiche e narrative - al servizio di una visione che riteneva vera, creando in questo modo un ibrido che definiva un “ver c’ha faccia di menzogna” (Inf. XVI 124). Dobbiamo ricordare che l’uso delle tecniche retoriche al servizio di un messaggio divinamente ispirato è esplicitamente difeso da Agostino nel De Doctrina Chiristiana, il quale dopo aver fornito esempi dell'abilità retorica di san Paolo si chiede: "Che dunque? Forse l'apostolo è in contraddizione con sé stesso, se da una parte dice che è l'azione dello Spirito Santo che fa i dottori e dall'altra proprio lui insegna a Timoteo e Tito che cosa e in che modo avrebbero dovuto insegnare?" (iv 16 33). In altre parole, Agostino scredita l'equivoco comune secondo cui un "profeta" non può essere anche un "poeta", che colui che è ispirato non debba anche occuparsi di lingua e di retorica.
Nondimeno, la convinzione che poesia e profezia siano incompatibili è intramontabile, ed è ben radicata negli studi di esegesi dantesca. Abbastanza recentemente, Peter Hawkins ha commentato la straordinaria autoconsapevolezza letteraria del canto XXIX del Purgatorio, esprimendo la preoccupazione che essa sia in contrasto con le rivendicazioni profetiche di Dante: "Ma nello stesso momento in cui il poeta fa queste rivendicazioni, le rende anche problematiche. Egli ci abitua a ciò che Battaglia Ricci chiama 'la forma letteraria della Bibbia', ma cancella poi il suo incanto con istanze di autoreferenzialità letteraria (siano esse le invocazioni alle muse o gli appelli al lettore) che sono totalmente estranee alla Bibbia, o ai 'grandi poeti visionari del dodicesimo e tredicesimo secolo' che Peter Dronke uguaglia a Dante". Benché io sia d'accordo con la conclusione di Hawkins riguardo l'assoluta confusione da parte di Dante delle categorie che Croce aveva cercato di separare (p. 91), non condivido il suo convincimento che da questo punto di vista Dante sia così diverso da tutti gli altri profeti, dai cui testi Hawkins ritiene del tutto assente ogni autoconsapevolezza letteraria. L’uso autoconsapevole della retorica non è estraneo alla Bibbia, o ai tardi profeti-visionari: l'Apocalisse, il testo profetico precursore più diretto del canto XXlX del Purgatorio, non è per nulla esente da autoreferenzialità letteraria. Al contrario, il suo autore si rivolge a se stesso come scrittore e a noi come lettori, senza preoccuparsi, così facendo, di "cancellare il suo incanto". E Agostino è convinto dell'eloquenza retorica dei profeti, dei quali tratta dopo essersi occupato dell'eloquenza di san Paolo: "Ma forse qualcuno può pensare che io abbia scelto fra i nostri autori l'apostolo Paolo in quanto dotato di buona eloquenza [...] Vedo perciò che è opportuno dire qualcosa anche riguardo all'eloquenza dei profeti, dove però il significato di molte parole è tenuto coperto dall'uso della tropologia." (De Doctrina Christiana IV VII 15). Nemmeno testi relativamente poco sofisticati mancano di autoconsapevolezza rispetto al loro status di fabbriche linguistiche. L’autore della Visione di Tundalo, per esempio, si impone certi precetti narrativi: crede nella selettività ("Poiché dovremmo provare ad essere brevi, non tutto quello che udiamo vale la pena di essere trascritto"), non vuole essere ripetitivo ("Poiché l'abbiamo già descritto prima, non dobbiamo ripeterlo di nuovo"), è cosciente dei propri limiti ("Né può il tuo umile scrittore capirlo né la sua lingua dirlo") e anche dell'utilità della sua opera, e afferma di aver descritto la visione di Tundalo "a beneficio dei nostri lettori". Nell'essere contemporaneamente I poeta e theologus, nell'uso, cioè. di linguaggio metaforico con i suoi pericoli inerenti, e nel dichiararsi a conoscenza di un ordine soprannaturale, l'autore della Commedia non è un’eccezione isolata; qualunque profeta, visionario o mistico che cerchi di rendere linguisticamente la verità rivelata è costretto a lottare con i limiti insiti nel mezzo stesso.
Trattando della verità della Genesi, Agostino affronta il nocciolo del problema. Dopo aver ammesso l'incertezza che dovrà per forza accompagnare la ricezione di una verità trasmessa attraverso dei segni ("per signa", XII 23), e dopo aver chiarito che una verità non deve essere necessariamente ridotta a un’unica vera interpretazione (XII 24), formula in termini personalissimi la necessità dell'eloquenza nel far pervenire un messaggio di verità. Se ad Agostino stesso fosse stato affidato da Dio il compito di scrivere la Genesi, dice, egli avrebbe desiderato di possedere la capacità retorica di creare una verità polisemica:

se fossi stato ai suoi tempi Mosè - visto che usciamo tutti dalla medesima massa, e cos'è l'uomo, se non ti ricordi di lui? - dunque, se fossi stato lui ai suoi tempi, e tu mi avessi incaricato di scrivere il libro della Genesi, avrei voluto in dote una tale capacità di esprimermi e una tale maniera di intessere il discorso, che quanti sono ancora incapaci di comprendere il modo in cui Dio crea, non respingessero le mie parole come superiori alle loro forze; e quanti ne sono ormai capaci, ritrovassero non trascurata, nelle poche parole del tuo servo, qualsiasi opinione vera avessero escogitato con la propria riflessione; e se altri altre ne avessero scorte alla luce della verità, nemmeno queste ultime mancassero, ma fossero riconoscibili nelle medesime parole. (Conf. xii 26)

In questo luogo delle Confessioni, Agostino, un uomo che immaginò effettivamente di essere chiamato a rendere la verità divina attraverso il linguaggio, e che per di più riuscì a persuadere i molti tra i suoi lettori di essere all'altezza del compito, ci sta dicendo che per esprimere una verità polisemica, eloquenza e retorica sono auspicabili. Siamo dunque tornati a quanto egli ci aveva detto di san Paolo: l'Apostolo non è in contraddizione con se stesso quando dice che gli uomini sono resi maestri per opera dello Spirito Santo e allo stesso tempo dice loro cosa e come devono insegnare. In altre parole, se Dante vede se stesso come qualcuno reso maestro per opera dello Spirito Santo, non per questo gli è proibito sfruttare pienamente il suo genio poetico quanto a cosa - e soprattutto a come - insegnare; se a un poeta è affidata ciò che crede essere una missione profetica, egli può legittimamente sfruttare tutta la sua scaltrezza poetica. Cosciente, come Agostino, dell'apparente tensione fra ispirazione divina e prassi poetica, Dante descrive il suo poema come un "ver c'ha faccia di menzogna", situando la menzogna dell'arte all'interno di una cornice profetica che garantisce la verità. Un ulteriore paradosso fornisce la definizione che il poeta dà del suo poema: la Commedia è un non falso errore, non una finzione che finge di essere vera, ma una finzione che È vera. La frase "non falsi errori" (Purg. XV 117), usata per descrivere le visioni estatiche della cornice dell’ira (cioè gli equivalenti locali della visione estatica globale che induce al sonno di cui il poeta parla all’inizio e alla fine del poema) ci dà i mezzi per capire come Dante stesso concepiva la sua impresa: non solo theologus e non solo poeta, Dante mantiene le aporie e le contraddizioni di un poeta profeticamente ispirato – un’opera che in quanto arte può essere menzogna, ma in quanto profezia è “non falsa” – entro il rigoroso abbraccio del paradosso.
Per tirare le somme, propongo di accettare l'insistenza di Dante e di credergli quando sostiene di dire il vero, e di passare invece alle conseguenze, una cosa che possiamo fare solamente accettando il fatto che egli intende presentare la sua finzione come credibile, plausibile, vera. Come recidere il nodo gordiano di una finzione vera? Potremmo, come Jeremy Tarnbling nel suo studio del 1988 su un Dante "deriddano" per il quale il significato è sempre relativizzato e rinviato, eliminare del tutto il problema sulla base che “il problema del credere non è mai rilevante dato che il credere comporta una gerarchia di significato”. Quest’interpretazione del poema in termini di apertura totale e di significanti fluttuanti deriddani sostituisce al totem della tradizionale certezza un blocco monolitico di relatività. Ma se anch’io sono d'accordo nel dire che Dante era perfettamente consapevole del fatto che i testi generano altri testi e i segni altri segni, credo però che egli trattasse questa sua consapevolezza non relativizzando le proprie rivendicazioni, ma, semmai, rendendole assolute (dire che Dante volesse farlo, non significa, naturalmente, dire che ci sia riuscito). Come ho tentato di dimostrare in uno studio precedente, Dante tenta di sottrarsi alla semiosi che regredisce all’infinito erigendo un muro tra la sua testualità e qualunque altra che non fosse la testualità biblica; impugnando la credibilità dei segni di chi lo aveva preceduto, egli cerca disperatamente di ricavare per i suoi uno spazio di stabilità e di verità. Non possiamo evitare il problema del credere o meno a Dante, perché Dante stesso non lo evita. Al contrario, egli continua ad affrontarlo, direttamente con le sue rivendicazioni di verità e indirettamente con le strategie di cui fa uso nei riguardi degli altri testi, che rappresentano ulteriori mezzi di controllo. Benché sia d'accordo che la Commedia sia fatta di segni, che "non c'è nulla nella visione che eluda la rappresentazione" (p. 68), pure, per approfondire la comprensione di questa rappresentazione è necessario riconoscere che una sua componente fondamentale è che essa affermi di essere una rappresentazione della verità.
L’argomento in questione è il realismo di Dante. Benché Dante condivida con altri autori la preoccupazione di autenticare la sua narrativa, le sue pretese religiose rendono la sua preoccupazione particolarmente urgente. Infatti, come nota Morton Bloomfield, “il problema fondamentale di ogni religione rivelata è precisamente questa autenticazione”. Bloomfield nota ancora che questo stesso problema si ponevano gli autori della Bibbia, dove potremmo aggiungere, esso si articola esattamente nei termini indicati da Nardi in Dante profeta: "La fine del capitolo 18 del Deuteronomio discute con franchezza il problema di come distinguere la vera profezia dalla falsa" (p. 344). Questo è il punto di intersezione fra le discussioni sulla Commedia e quelle su tutta la narrativa realistica: a causa delle sue aspirazioni bibliche e profetiche la Commedia propone in forma esasperata il problema narrativo universale della verità.
Allo stesso tempo tuttavia Dante non cerca di nascondere il fatto che sta ricreando la parola di Dio. Al contrario, richiama l'attenzione sul suo ruolo di narratore in molti modi diversi, inclusi i suoi celebri appelli al lettore. Notevole, ai fini del nostro discorso, il fatto che Auerbach abbia colto negli appelli di Dante ai lettori l'urgenza di un profeta ; in altre parole, si può dire che Dante abbia sfruttato i momenti testuali potenzialmente più vulnerabili, cioè, narrativamente più esposti, per forgiare la sua voce più autorevole. Leo Spitzer respinge l'insistenza di Auerbach sulla profezia in favore di un'interpretazione che pone l'accento sulla mimesi, sugli appelli come ausilio alla visualizzazione del lettore e quindi al realismo del poema. Spitzer non capisce che Auerbach è in grado di formulare la sua ipotesi (Dante visto come nuovo profeta capace di inventare il topos nuovo dell'appello al lettore al servizio della sua visione profetica) proprio perché ha così a lungo pensato in termini di realismo dantesco. Infatti, in Dante l'atteggiamento profetico è indissolubilmente legato alla preoccupazione del poeta di raggiungere la mimesi suprema. Come studioso interessato al funzionamento della Commedia in quanto opera d'arte, Spitzer è infastidito dalla formula Dante-profeta; non si accorge che per vederne il funzionamento in quanto opera d'arte, dobbiamo prima accettarne - non crederci! - le rivendicazioni profetiche alle condizioni che il testo ci impone. Solo così possiamo vedere con chiarezza la pressione che tali rivendicazioni esercitano su un poeta. Nel rimprovero che Spitzer muove ad Auerbach si rispecchia uno dei maggiori problemi de li studi danteschi: studiosi, quali Nardi e Auerbach, è e prendono sul serio le affermazioni del poema, vengono criticati per non vedere l'opera in quanto creazione artistica, per essere troppo creduli. In realtà, sono quelli che vedono la creazione artistica con maggiore chiarezza e meno credulità.
La straordinaria fusione, nella Commedia, fra certezza assoluta (per quanto riguarda il contenuto) e ambivalenza (per quanto riguarda la "menzogna" artistica che ne è il veicolo), ha continuamente dato luogo a nuove varianti dell'antica posizione critica theologus o poeta, anche se espresse con linguaggio critico contemporaneo: per esempio, nel suo studio del 1985, Jesse Gellrich (in una sorta di versione decostruzionista della critica spitzeriana di Auerbach) critica quella che chiama la visione mitica favorita da Singleton, in favore dell'autoconsapevolezza della Commedia, affermando che “la consapevolezza di Dante di creare illusioni è inevitabile" e che il poema "non si protegge da tale consapevolezza ma la incoraggia". Io direi, piuttosto, che Dante crea un poema nel quale tali incoraggiamenti possono costituire una delle sue più efficaci forme di autoprotezione. Come con gli appelli al lettore, Dante si protegge di più quando più pare esposto; egli neutralizza il tradimento dell'autoconsapevolezza implicito in ogni meccanismo narrativo di autenticazione rendendo tali meccanismi oltraggiosamente inautentici (ci basti ricordare Gerione, che è letteralmente una figura della frode, cioè dell'inautenticità). Gellrich fraintende la posizione di Singleton in maniera istruttiva: accusa Singleton di ritenere realmente che Dante imitasse la scrittura divina, di essersi innamorato cioè del "mito", mentre invece Singleton sostiene che sia Dante a volerci far credere di imitare la scrittura di Dio. In altre parole, Gellrich fonde insieme ciò che Singleton stesso crede con ciò che Singleton dice che Dante voglia farci credere. Causa di questo fraintendimento è l'enorme impegno necessario per distinguere fra le due cose; una delle conseguenze del realismo di Dante - e una delle sue più insidiose forme di autoprotezione - è di farci pensare di essere d'accordo con lui, quando in realtà stiamo semplicemente parafrasandolo (come chi insegna la Commedia sa fin troppo bene, è difficile convincere li studenti del contrario). D’altro canto è vero anche il contrario: il realismo di Dante induce la critica a "credere" a Dante senza rendersene conto, cioè a porre interrogativi e a discutere all'interno dei presupposti stessi della finzione narrativa che si cerca di interpretare.
Un esempio di tale comportamento è una tipica mossa di difesa della critica dantesca che si può definire l”’argomento della collocazione": quei presupposti, cioè, che permettono a un critico di controbattere un determinato punto di vista rispetto a una particolare anima, sulla base della sua collocazione all'interno del mondo fittizio possibile della Commedia. Quindi, l'interpretazione X non è difendibile rispetto al personaggio X perché, se così fosse, allora il personaggio X sarebbe collocato altrove. Per esempio, Ulisse non può essere colpevole di consiglio fraudolento perché in questo caso dovrebbe trovarsi con Sinone tra i falsatori di parola. Ma perché la collocazione di un’anima deve essere elevata a strumento euristico? Solo perché leggiamo il poema attraverso la lente della sua stessa finzione narrativa, considerata alla stregua di un dogma. Quando ci avviciniamo al poema in questo modo, trattando la finzione come realtà oggettiva, ci dimentichiamo del fatto che è Dante stesso a esserne il creatore e che il suo sistema di classificazione, benché apparentemente oggettivo, è una rappresentazione (e una rappresentazione piuttosto arbitraria e intollerante!) ideata con lo scopo di provocare l’illusione dell’oggettività. Il fatto che l’inferno di Dante sia costruito in modo da sembrare una colonia penale non significa che il poeta che l’ha costruita avesse la finzione letterale di un gendarme. La sua funzione è quella di un poeta i cui compiti includono la costruzione dell’illusione dei principi infinitamente più complessi e fluidi di quanto l’utilizzo dell’argomento della collocazione non suggerisca. Ancora una volta la complice specularità del “ver c’ha faccia di menzogna” ha operato il suo incantesimo, portandoci a rendere al suo creatore l’estremo tributo di dimenticare che il mondo che descrive è stato effettivamente creato da lui.
Finiamo tutti con il soccombere alla magia narrativa della Commedia; è un testo che ci rende tutti in – senso nostalgico - credenti. Con questo, intendo dire che accettiamo il mondo possibile (per usare un termine della logica) inventato da Dante, che non ne discutiamo le premesse o i presupposti se non nei termini di quello stesso mondo. Leggiamo la Commedia come i fondamentalisti protestanti leggevano la Bibbia, come se fosse vera, e lo facciamo a prescindere dal nostro credo religioso, perché, a livello narrativo, crediamo alla Commedia senza rendercene conto. La storia della ricezione della Commedia offre una lunga dimostrazione della nostra credulità narrativa, della nostra incapacità di sospendere la "sospensione dell’incredulità" di fronte al pieno spiegamento da parte del poeta-creatore di quelle che sono essenzialmente tecniche di verosimiglianza. Per esempio, il poeta controlla la nostra reazione scandalizzata al suo incontro con l'amato maestro tra i sodomiti, mettendo in scena la sua stessa scandalizzata reazione: "Siete voi qui, Ser Brunetto?". La reazione di Dante crea una complicità tra lettore e pellegrino che maschera l'artificio sempre presente in ciò che è, dopotutto, un testo, una creazione artistica. Oppure, il poeta crea con Virgilio un costrutto fittizio così "reale" e irresistibile che non solo generazioni di lettori ne hanno desiderato la salvezza (una reazione legittima), ma periodicamente - e meno legittimamente - la questione viene sollevata da studiosi che discutono della faccenda in termini di plausibilità teologica piuttosto che di realtà testuale. Di rado pensiamo realmente alle esigenze narrative che richiedono la dannazione di Virgilio o agli usi narrativi nei quali egli è uno strumento della battaglia di Dante contro una trama rigorosamente predeterminata. In altre parole, discutiamo della salvezza di Virgilio come se la questione appartenesse al mondo reale, e non a un testo dalla cui forza narrativa è stato generato il problema stesso. Qualunque altra cosa Dante potesse aver avuto in mente, la sua abilità di creare un testo che noi trattiamo come se fosse un mondo reale costituisce la sua vera “allegoria dei teologi”. Forse, piuttosto che tentare continuamente di appurare il metodo di significazione di Dante astrattamente, dovremmo cominciare con quello che il poema fa davvero, e con il modo in cui lo porta a termine, ad estrapolare a ritroso fino al suo metodo di significazione teoretico.
Rimanendo fermamente fuori dal gioco degli specchi della finzione letteraria, possiamo iniziare a esaminare le strutture formali che condizionano il lettore al punto di impedirgli ancor adesso, a causa del totale raggiungimento degli obbiettivi che il testo stesso si è autoimposto, di apprezzare pienamente il suo valore in quanto creazione. Per riuscire ad afferrare questo poema, non è di un "nuovo storicismo", strumento efficace quando si tratta di testi che sono sempre stati letti come testi, cioè, come fittizi, che abbiamo bisogno, ma di un "nuovo formalismo": uno strumento che non si areni sul fatto che il testo si presenta come vero. Come è stato osservato nel contesto degli studi letterari afroamericani, l'approccio più efficace in un dato momento in una data disciplina non dipende da ciò che succede da un'altra parte, ma dalla storia della disciplina: "In un momento in cui i teorici della letteratura europea e angloamericana criticavano il formalismo di scuola angloamericana, gli studiosi di letteratura afroamericana, rispondendo alla storia della propria disciplina, trovavano 'progressista' insegnare metodi formali di interpretazione". Mutatis mutandis, io suggerisco che un metodo formale - nel senso di una "filologia della struttura narrativa", come ha esortato Gian Biagio Conte - potrebbe essere particolarmente utile nel contesto degli studi danteschi, perché ci permetterebbe di attraversare lo specchio, di vedere ciò che sta dietro lo speculum teologico dell'autore. Se vogliamo capire in che modo la teologia aderisce al testo, dobbiamo "deteologizzare" la nostra interpretazione della Commedia. Perché l'estremo paradosso della tradizione esegetica dantesca e - diretta conseguenza della dicotomia poeta-theologus - che spesso, in nome della poesia, abbiamo offuscato la grandezza della poesia, accettandone acriticamente direttive e premesse, in una parola la "teologia". Leggere il poema secondo le indicazioni di Dante significa non apprezzare pienamente la straordinarietà delle sue indicazioni. Dare sempre ascolto a ciò che Dante dice, invece di prendere nota di ciò che fa, significa considerarlo come avrebbe voluto che lo considerassimo - non come un poeta, ma come un’autorità, come un "teologo".
I capitoli seguenti proporranno un'interpretazione "deteologizzata" della Commedia. Questo non vuol dire che la teologia sarò esclusa. "Deteologizzare" non è antiteologico; non è un invito ad abbandonare la teologia o a escludere le preoccupazioni teologiche dalla critica dantesca. "Deteologizzare" è invece un metodo interpretativo che tenta di uscire dagli schemi ermeneutici strutturati da Dante all'interno del suo poema, schemi ermeneutici che risultano in letture "teologizzate" le cui conseguenze sono state predeterminate dall'autore. "Deteologizzare" significa, in altre parole, liberare l'interpretazione della Commedia dalla presa dell'autore per trovare un'uscita dalla sala degli specchi creata da Dante. Perché ciò possa accadere, io privilegio la forma sul contenuto, tenendo in mente che quando Beatrice dice "Anzi è formale" (Par. III 79), sta dicendo "Anzi è essenziale": cioè la forma è l'essenza. La forma, in questo senso, non è meno profonda della metafisica; non la si può astrarre come qualità esteriore, valore della superficie. Come ogni poeta, Dante è soggetto alle esigenze della forma, ma è abilissimo a camuffare il fatto che la forma può dettare le scelte poetiche; egli ideologizza la forma in modo tale da riuscire a sviare la nostra attenzione dalla forma all'ideologia da cui dipende. Pertanto, l'interpretazione formale contenuta nelle pagine che seguono è diversa dalle interpretazioni formali precedenti, essenzialmente stilistiche, nel senso che nella mia interpretazione la forma non è mai separata dal contenuto, non perde mai le tracce dell'ideologia da cui dipende. È proprio nell'ideologia della forma che e possibile avvertire il modo con il quale Dante controlla i suoi lettori e plasma la loro interpretazione del poema, e scoprire quindi l'origine della sua arte mimetica.
Non è sufficiente dichiararsi interessati nella narrativa per "deteologizzare" la propria interpretazione della Commedia, come dimostra il libro che Robin Kirkpatrick ha dedicato all'Inferno nel 1989. L'interesse di Kirkpatrick per le proprietà narrative è deformato dalla lente morale attraverso la quale egli vede le istanze formali; il suo interesse nell"'atto etico della scrittura" lo porta a confondere il contenuto del testo con la sua forma - una confusione che certamente Dante stesso incoraggia nei suoi lettori, ma che lo studio della dimensione narrativa dovrebbe aiutarci a superare. Kirkpatrick sostiene per esempio, che l'Inferno è stata la cantica più difficile da scrivere per Dante – e analogicamente il Paradiso la meno difficile – e che si tratta letteralmente di “morta poesi” (Purg. I 7), ciò di cui Dante si vergona. Dentro la sala degli specchi di Dante, Kirkpatrick ha fatto una svolta in più: invece di teologizzare semplicemente ciò che è stato rappresentato, come Dante vorrebbe che facessimo, egli teologizza l'atto stesso della rappresentazione. Anche nel suo precedente studio sul Paradiso, Kirkpatrick nega strenuamente le implicazioni ideologiche delle decisioni formali di Dante; quindi, per esempio, egli sottolinea la "voce modesta" che detta i ricorrenti topoi di ineffabilità della terza cantica e si sofferma sulla "modestia" implicita nella palinodia del canto XXVIII sull'ordine delle gerarchie angeliche. Com'è noto, nel canto XXVIII Dante rifiuta la gerarchia angelica di Gregorio Magno, che aveva seguito nel Convivio, per adottare quella di Dioniso. Ma invece di dichiararlo apertamente, Dante, in qualità di scriba di Dio, fa raccontare a Beatrice di come Gregorio avesse riso di se stesso quando, arrivato in paradiso, aveva scoperto il suo errore. Non sto mettendo in dubbio la sincerità della vocazione visionaria di Dante quando dico che questa mossa non è molto modesta come strategia poetica – ma come potrebbe esserlo, se sostituisce alla realtà del fatto che Danta ha cambiato idea un’altra “realtà”, nella quale Gregorio ha imparato che avrebbe dovuto cambiare la sua? Ma discutere in questi termini significa riconoscere che Dante desidera persuaderci della realtà che ha da offrirci, un mondo possibile che egli ha visto e poi creato, mentre la preoccupazione di Kirkpatrick di ristabilire l’”ornamentale” lo porta a negare, nel nome del formalismo, l’ideologia della forma di Dante.
Ne Il miglior fabbro, ho avuto occasione di osservare che “se, secondo la formula di Singleton, la finzione della Commedia è di non essere una finzione, segue allora che la strategia della Commedia è di non avere alcuna strategia” (p. 81). Ciò che mi interessa adesso è di identificare più attentamente come funziona questa strategia che nega la sua propria esistenza. In precedenza, avevo usato l’esempio di Cacciagiuda, la cui spiegazione che al pellegrino sono state mostrate solamente le anime famose, “anime che son di fama note”, viene di frequente citata dai critici; meno di frequente essi hanno notato – Auerbach è l’eccezione che mi viene in mente - che l’affermazione di Cacciaguida non è vera. Come ho sottolineato, la maggior parte delle anime che incontriamo nella Commedia sono famose perché la Commedia le ha rese famose, e l’anticipazione di questo fatto da parte di Cacciaguida produce una contaminazione tra testo e vita che è proprio quello che Dante si propone di ottenere. Un altro esempio di questa strategia che nega se stessa è l'iscrizione sulla porta dell'inferno, definita da John Freccero come il tentativo riuscito da parte del poeta di "fissare il canone dell'immediatezza". Dopo averci ricordato che se “la visione appartiene al dominio della profezia, scopo del poeta è la rappresentazione" (p. 145), Freccero cerca di "dissipare l'ingenua opinione, favorita ovviamente dalla fictio, di un autore innocente che sarebbe impegnato a descrivere la realtà infernale piuttosto che a costruirla" (p. 156). Come la rappresentazione dell'arte di Dio nella cornice della superbia del purgatorio, che confronta il lettore con l'enigma di un'arte verosimile (quella del poeta) che rappresenta un'arte definita il "ver" stesso (quella di Dio), Cacciaguida crea una "illusione ottica" all'interno del testo come un'illusione ottica creano anche i versi che fingono di presentare le parole di Dio sulla porta dell’inferno.
È importante notare che questi tre esempi vengono da tutte e tre le cantiche: perché sul fronte della rappresentazione il poema e neutrale. Nel regno della mimesi la collocazione delle anime non implica un giudizio di valore, come invece accade nella sfera tematica. Nell'interpretazione di Freccero, invece, la forma rimane asservita alla teologia, come dimostrano le distinzioni che egli cerca di delineare fra la mimesi delle tre cantiche. Egli inizia il suo saggio Ironia infernale, facendo appello ai tre tipi di visione del De genesi ad litteram - corporea, spirituale e intellettuale - come analoghi al tipo di rappresentazione presente in ciascuna cantica, e poi suggerendo che la "la 'mimesis' è peculiarmente infernale ed esprime lo sforzo da parte di Dante di rendere la visione corporale" (p. 146). Mentre l'ironia può essere una proprietà particolare dell'inferno, la mimesi pone problemi al poeta durante tutto il poema, problemi che tendono ad aumentare man mano che il poema va avanti. Associare le tre cantiche con i tre tipi di visione di Agostino significa affrontare il problema dal punto di vista del contenuto, non della forma.
I tre esempi citati sopra - la porta dell'inferno, l'arte della cornice della superbia, l'avvertimento di Cacciaguida - sono tratti dall'Inferno, dal Purgatorio e dal Paradiso per dimostrare che non possiamo accostarci a questi temi invocando la griglia teologica che ci siamo abituati ad applicare alla Commedia, secondo cui qualunque cosa capita nell'inferno è "cattiva" e problematica, e qualunque cosa capita in paradiso è "buona" e senza problemi. Mentre ciò può dimostrarsi vero rispetto al contenuto del testo, alla sua trama e quindi al pellegrino, non lo è necessariamente rispetto alla forma e quindi al poeta. Il Paradiso non è più sereno, narratologicamente, dell'Inferno, né le ansie di rappresentazione di Dante diminuiscono man mano che il poema va avanti. Sono due gli errori logici che hanno generato questi cliché critici, errori che recentemente hanno ricevuto nuovo impulso dalla critica derridana. Primo, il contenuto della Commedia è proiettato dentro la sua forma, in modo che gli incontri difficili o pericolosi (che effettivamente diminuiscono man mano che il poema procede) si traducono in rappresentazioni difficili o pericolose. Secondo, l’Inferno è visto come l’unica cantica “narrativa”, a causa della sua forza drammatica, come se la filosofia, la storia, la teologia, la cosmologia, eccetera non costituissero anch’esse forme narrative.
Dante plasma costantemente la narrativa in modo da autenticare il suo testo, facendolo apparire inevitabile, un "fatale andare", e conferendo a se stesso l'autorità che di fatto gli abbiamo raramente negato. La nostra tendenza è stata quella di ascoltare ciò che Dante dice accettando – come s fosse un "teologo” - invece di esaminare e quindi capire il divario tra ciò che dice e ciò che effettivamente ha realizzato.
Dunque, se non abbiamo fatto i conti con le implicazioni derivanti dalla rivendicazione di Dante di essere un secondo san Paolo, un secondo san Giovanni, non siamo nella posizione giusta per afferrare pienamente il genio della sua poesia - della sua abilità di costruire una metafisica testuale così avviluppante da impedirci di analizzare le condizioni che danno origine all'illusione che tale metafisica sia possibile. In The Irreducible Dove, Singleton risponde alle accuse dei critici che temono che il suo approccio alla questione dell'allegoria in Dante lo esponga al "rischio di soccombere così totalmente all'illusione di realtà del poema di Dante da fargli dimenticare che si tratta di un'illusione". Benché non se ne rendesse conto, preferendo pensare in termini di una [orma mentis medievale che autorizzasse tale illusione, e che gli "permettesse così di 'liberarsi' dal Rinascimento, sia pure per un breve istante" (p. 135), il tentativo di Singleton di individuare l'origine dell'illusione in una finzione che finge di non esserlo costituisce il primo passo per smantellare la metafisica testuale della Commedia. I suoi critici, proprio in proporzione al prudente e razionale rifiuto di piegarsi a una teoria stravagante formulata su di un'asserzione stravagante, finirono con il rivelarsi i più gabbati da un autore la cui astuzia non avevano iniziato a comprendere. Le pagine che seguono sono un tentativo di analizzare la metafisica testuale che rende credibili le rivendicazioni di verità della Commedia e di mostrare come viene costruita, forgiata, prodotta l'illusione - da un uomo che è, dopo tutto, "solo" un fabbro, un artefice... un poeta.

Date: 2021-12-22