Struttura, allegoria e poesia nella Divina Commedia [Luigi Pietrobono]

Table of contents

Dati bibliografici

Autore: Luigi Pietrobono

Tratto da: Giornale Dantesco

Numero: XLIII

Anno: 1943

Pagine: 9-45

Sommario: I. Perché importa chiarire le allegorie e la struttura della Commedia. - II. Le quali nascono dalla idea fondamentale del poema e la esprimono. - III. Dalla struttura riceve lume anche la morale a cui s'ispira l'episodio di Francesca; e dalle allegorie la soluzione del problema più grave, intorno alla sorte riserbata alle anime dei giusti morti senza battesimo. - IV. Dante di fronte alle civiltà greca e romana. - V. I termini del suo problema già nel primo canto con l'elezione di Virgilio a guida per il suo viaggio fatale. - VI. Con la certezza che dal Limbo è possibile uscire e diventar beati, e con la figurazione del nobile castello il gran dubbio è, si può dire, bell'e risoluto. - VII. Una domanda volta a confermare che le anime del Limbo non sono incorse nell'ira di Dio. - VIII. Virgilio che con Dante sopra le spalle cammina su Dite. - IX. Il significato morale dell'episodio di Casella e del rimorso di Virgilio. - X. Ripreso e svolto nel canto della sirena sognata da Dante nella cornice dell'accidia. - XI. Un'obiezione molto ragionevole. - XII. Il Limbo e la «picciola vallea» dell'antipurgatorio: la tenebra del Limbo e quella del Purgatorio che «col non poder la voglia intriga». - XIII. Il nono cerchio d'Inferno e il primo del Purgatorio; i superbi e Virgilio che con Dante sulle spalle calpesta il gran corpo di Lucifero. - XIV. L'episodio di Stazio rende più penoso il problema della salvezza di Virgilio, ma gli fa fare nel tempo stesso un altro passo verso la soluzione. - XV. Nel cielo di Giove, dove finalmente ragione e fede, sentimento e dogma si conciliano, e l'aquila insegna come i sospesi nel Limbo possano e debbano essere salvati. - XVI. Conclusione.

1. Sezione 1

Non è molto per i tipi del Laterza ha visto da luce un volume di saggi danteschi con il titolo: Gusto filologico e gusto poetico. N'è autore il chiarissimo prof. Mario Rossi, il quale, fermamente persuaso della bontà della tesi crociana che ,allegoria e struttura nuocciono alla bellezza della Commedia e che il mostrarne la impoeticità equivale a rendere un segnalato servizio alla poesia di Dante, ripiglia la quistione, la sviluppa, la conferma con esempi, e tanto s'infervora dietro il filo de' suoi acuti ragionamenti, che arriva perfino a parlare, tra lo sdegno ,e il compatimento, di una «portentosa ottusità estetica del positivistico dantismo del secondo Ottocento, che ha beatamente diguazzato dentro... assurdi problemi e fattone sua delizia e tormento» .
Chi veramente si è deliziato intorno a problemi più o meno inconcludenti, quali quelli di cui fa cenno il nostro egregio autore, sono i dantisti improvvisati che ci affliggono di tanto in tanto con le loro stranissime troviate; non gli studiosi seri, a cui non pare sia saltato mai in mente che il Poema sacro è tutto bello dal primo all'ultimo verso, o che le parti più importanti siano le allegorie e i canti dottrinali, e le disquisizioni più ghiotte quelle che si fanno sul pié fermo ch'era sempre il più basso, o sulle dimensioni del baratro infernale, o sul!' ora dell'ascensione del poeta al cielo. Dov'è la grande poesia di Dante il mondo lo sa da secoli, e non c'è proprio bisogno che i critici vengano a dimostrarci che essa ha la sua espressione alta e imperitura negli episodi di Paolo e Francesca, di Farinata, di Pier della Vigna, ili Ulisse e così via. A intuirlo era bastato il semplice buon gusto. Possibile che gl'indagatori delle allegorie e della struttura della Commedia, tra cui un posto cospicuo l'occupa un poeta autentico, Giovanni Pascoli, solo essi non abbiano capito ciò che sentono tutti, compresi gli analfabeti?
La verità è un'altra. Coloro che non giudicano né tempo né ingegno sciupato quello che si dedica alla illustrazione del pensiero allegorico e della struttura morale del poema, partono da una diversa considerazione. Sanino alla pari di ogni altro dove sia da riporre la grandezza della poesia dantesca, e nondimeno, sebbene consapevoli di far opera più modesta dei critici estetici, non si stancano di attendere con amore al proprio fine, perché Dante, essi dicono, è l'interprete più felice e ispirato dell'anima nostra, raccoglie in sè quanto vive del passato, ci indica con abbastanza chiarezza le mete a cui tendere, è, in una parola, la nostra gloria più pura, la «nostra maggior musa». Perciò appunto dobbiamo e vogliamo intenderlo 'in ogni suo aspetto. Perfino gli stranieri ne seguono venerabondi le orme. E noi ci dovremmo astenere dal cercar di penetrare sotto il velame de' suoi versi, che impenetrabile di sicuro non sarà una volta ch'egli medesimo ci dice: «Mirate»? Somiglieremmo ai figli che del testamento paterno leggono avidamente ciò che torna gradito, e del rimanente non si curano, Per persuaderci a smettere, prima ci dovreste convincere che Dante non è quella grande cosa che riteniamo; ma sarà difficile, non per quanto scrivono i dantisti, ma per quel che ne pare al popolo. Quante volte - e sono state molte - ho esposto in pubblico la Divina Commedia da capo a fondo, senza saltarne un verso solo, a uditori dove non mancavano dei dotti e dei letterati, ma prevaleva di gran lunga l'elemento popolare, e tante ho sperimentato che più andavo avanti, più le difficoltà crescevano, e più cresceva il desiderio dii ascoltare. La gente semplice le allegorie le gusta, e ai ragionamenti del Poeta s'interessa oggi come sei secoli addietro. Non si vede quindi per qual ragione si dovrebbero buttare al macero insieme con quella struttura che dà tanto da fare ai critici estetici. Dato che il chiarire le une e gli altri non giovi, certo non nuoce. Ma giova di sicuro, come si apprenderà fra poco; non essendo poi un assioma fuor di discussione che dove c'è allegoria non c'è poesia, e viceversa. Il Croce lo sostiene con ottimi argomenti, ma perché ammette soltanto una specie di allegorie, quelle che, come lui dice, fanno a nascondino e consistono nel dire una cosa e intenderne un'altra; ma ve ne sono moltissime che meritano d'essere definite, secondo i vecchi trattatisti dì retorica, metafore continuate; e queste, come ogni forma di componimento, possono essere o belle, o brutte. Bello, per confessione del nostro grande critico, è Gerione, la «sozza imagine di froda», e quindi un mostro indiscutibilmente allegorico; belle sono molte favole di Esopo, di Fedro e del Lafontaine, e belle altresì parecchie delle parabole evangeliche. E non sono se non allegorie.
Supponiamo tuttavia, per farla finita, che artisticamente parlando le allegorie sieno da condannare in blocco. Non ne viene che la stessa condanna si possa pronunziare su quanti si studiano di spiegarle. Se si provano a farlo, dopo aver meditato attentamente su tutte le opere di Dante e con la preparazione storica e filologica che si richiede, in conclusione ci rendono un servizio, perché ci agevolano la conoscenza dei pensieri e dei sentimenti del Poeta, così di frequente espressi sotto veli allegorici. La difficoltà che a tal proposito si suol affacciare, osservando che questo chiarimento è impossibile, perché ci mancano gli elementi per giungervi', essendo le allegorie di siffatta natura che se l'autore non ce ne offre lui la interpretazione, noi non possiamo averla, con Dante non regge, checché si voglia argomentare dal gran numero delle spiegazioni discordi che se ne sono date. Perché fino a ora non si è trovata la via, non ne viene che dunque la via non c'è. Dante ce l'ha additata e molto chiaramente. Se essa è rimasta nascosta anche a uomini di grande ingegno e di larga coltura, egli è che non s'erano liberati da spiegazioni più o meno accreditane da! consenso di varie generazioni di studiosi, e specialmente dei più antichi, i quali, non avendo capito il concetto fondamentale della Commedia, per l'autorità di cui godevano hanno impedito agli altri! di capirlo. Ma il peggio si è che non si vuol capire neppur ora, sebbene esposto da Dante in una forma che più aperta non si potrebbe desiderare.

2. Sezione 2

Chiunque infatti abbia una certa dimestichezza con le opere di lui credo debba ammettere che egli mostra una spiccata propensione a fare il pedagogo, se si dia alla parola il suo bel significato etimologico di educatore e guida dei piccoli. Nella Vita Nuova già affiora la coscienza d’esser chiamato a rivelare qual miracolo di donna fosse Beatrice ; nel Canzoniere l’idea di dover aprir gli occhi a chi non vede, o non vuol vedere, è più che manifesta nelle canzoni morali; il Convivio nasce, fra l'altro, da un bisogno prepotente di «dottrina dare» ; la Commedia è scritta senz'altro per adempiere a una missione avuta espressamente dal cielo. Non cito la Monarchia, perché tutti rammentano che egli dichiara di comporla per voler publice utilitati non modo turgescere quin ymo fructificare . Non può quindi far maraviglia a nessuno che, a un certo punto della sua vita, egli si sia dedicato anima e corpo a ricercare le cause dei troppi e insopportabili mali di cui soffriva con lui la società del tempo. Ma a chi un credente della sua tempra si sarebbe volto a chiederne l'origine, meglio che alle fonti della sua fede, la quale lo ammoniva che il peccato di Adamo fu il diverticulum… totius nostre deviationis ? Riaperse «lo Genesi dal principio», e tante vi tenne fermi gli occhi della mente, che alla fine il sole della verità venne a illuminarlo, o gli parve. Ed ecco come.
Dio aveva ordinato ad Adamo: «Di questa pianta non mangerai», assommando in un precetto, solo la legge che, osservata, conserva il genere umano; trasgredita, lo corrompe . Il comando che alla mostra superbia può apparire privo d'un serio contenuto, gli si rivelò pregno di un profondo significato. Con esso Dio voleva far intendere all'uomo che la sua felicità in terra è possibile a una condizione: rispettando cioè i limiti segnati a ogni sua facoltà. Come la vista a troppa luce rimane abbagliata e a troppo poca non distingue, così la mente. Ma un'altra verità non meno imporrante era implicita nell'interdetto di vino. Quella pianta che · Adamo non doveva toccare è figura, per Dante, dell'umana famiglia, la quale alla sua vita civile ha bisogno assoluto di giustizia; e la giustizia non si può né ricevere né rendere che a un patto: che quella pianta non si scinda, non si scerpi, non si divida, ma viva sotto un unico menarca e sia quanto più è possibile una, come uno è Dio .
Se non che il nostro primo padre, insofferente di limiti, mangiando di quella pianta offese le due virtù indispensabili alla vita felice: così la pietà, solo per la quale è dato giungere alla beatitudine celeste, come la giustizia, solo per la quale si viene alla beatitudine terrena: per cui da uno stato di felicità cadde in uno stato di miseria.
Ma la Pietà divina, che è infinita, nell'atto stesso di scacciare i nostri progenitori dal paradiso terrestre, annunziò la redenzione da compiersi mediante un processo tanto «alto e magnifico», che non avrà l'eguale . Ordina due popoli, quello d'Israele e quello di Roma, che, nascendo nel medesimo tempo, prepareranno il mondo a riconquistare per mezzo del primo, con Gesù, la pietà, e per mezzo del secondo, con l'Impero, la giustizia . La croce stenderà le braccia a tutti gli uomini della terra e ne farà una sola famiglia la quale pregando dirà: «O padre nostro»; l'aquila raccoglierà tutte le genti sotto le sue ali e darà loro una patria comune, come cantava il poeta gallico, Rutilio:

fecisti patriam diversis gentibus unam,
urbem fecisti quod prius orbis erat.

Di qui la dottrina delle due guide supreme: del pontefice che per mezzo delle verità rivelate e delle virtù teologali d mena alla beatitudine eterna, e dell'Imperatore che per mezzo delle virtù intellettuali e morali ci mena alla beatitudine temporale .
Con che fede Dante abbia guardato a questa sua idea e con qual impeto di amore -e riconoscenza abbia celebrata la Roma di Cristo e la Roma imperiale, non occorre ridirlo. Nessun'altra egli n'ha sognata, invocata, meditata con più passione. N'è convinto, come noi delle verità assiomatiche di cui non si dubita. La Commedia nasce e vive di essa e per essa, A scuoterlo dalla certezza d' esser andato al fondo del disegno della Provvidenza non valgono neppure i fatti con le amare delusioni a cui lo mandano incontro. Sotto l'incalzare degli avvenimenti contrari un poco si smarrisce, ma presto torna a credere e sperare nel suo sogno bello . Arrigo VII fallisce miseramente nell'impresa di drizzare l'Italia; ebbene, se in un primo momento Dante contempla atterrito la rovina del suo mondo, non va molto che, ripigliando animo, esclamerà: Verrà di sicuro un altro, il Veltro, che la libererà da quella maledetta lupa, sbucata dall’Inferno allorché Costantino, cedendo Roma al papa e trasportando la sede dell'Impero a Bisanzio, ha scerpata di nuovo la pianta di Adamo, ha di nuovo rotta l'unità del genere umano. Da quel giorno gli uomini, abbandonato il cammino della giustizia, son finiti da capo in una selva oscura, diventando un'altra volta schiavi del maligno. Chi non parte da questa idea le allegorie non le spiegherà mai e mai non vedrà le ragioni della struttura della Commedia.
Che la pianta del paradiso terrestre è stata dirubata da seconda volta, Dante lo attesta in aperto latino ; ma gli studiosi non vogliono riconoscere che alla stessa causa il Poeta abbia fatto seguire gli stessi effetti, quantunque rappresenti il mondo del suo tempo «diserto d'ogni virtute» , tutto sviato dietro il malo esempio , e scriva che ,rpropr.ro per la donazione costantiniana il mondo è «distrutto» , e la nuova colpa raffiguri nella lupa che non permette a nessuno di salire al dilettoso monte , e dichiari che a ricacciarla nel baratro infernale Dio manderà un grande, che, senza essere una altro Verbo incarnato, avrà la pienezza delle virtù divine, come quegli che si ciberà di Sapienza, la quale si predica più propriamente del Figlio, di Amore, che si predica dello Spirito Santo, e di Virtute, che si predica del Padre . Come per riconformare a sè l'umana natura nel «congiuntissimo consistorio de la Trinitade» si elesse che la seconda Persona s'incarnasse, così ora, per riparare al nuovo dirubamento dell'albero della vita, è decretato scenda dal cielo un Messo, fornito delle qualità necessarie a far morire la bestia nella sua magrezza carca di tutte brame.
Nessuna cosa in Dante è più certa di questa, che cioè I'humana civilitas, in seguito alla divisione operata da Costantino, e quindi della novella infrazione della giustizia divina, è ricaduta nelle stesse condizioni di miseria che avanti la Redenzione del Cristo . Rimarrà sempre soggetta alle potenze del male, o si rileverà? - Si rileverà di sicuro, risponde il Poeta; non essendo pensabile che resti frustrato il consiglio eterno con cui Dio ha provveduto al governo del mondo, e che gli uomini siano lasciati per sempre sotto il dominio del suo e loro avversario. – Un segno anzi che la liberazione è vicina l'ha dato già, mandando fra noi per breve ora Beatrice, la «donna de la salute» . Con un processo non così «alto e magnifico» come il primo, e tuttavia molto somigliante al primo, Egli si apparecchia già a redimerci.
Alla stessa guisa che nella discesa del Verbo operarono «congiuntissime» le tre Persone divine, così ora a preparare l'avvento del Veltro si è accinta «congiuntissima» una Trinità femminile: Maria, ministra della grazia operante; in rappresentanza del Padre; Lucia, ministra della: grazia giustificante, in rappresentanza del Figlio; e Beatrice, ministra della grazia santificante, in rappresentanza dello Spirito . Non solo. Come avanti di liberarci dalla colpa originale a Dio piacque che Enea, eletto padre di Roma e dell'Impero, andasse a secolo immortale, e dopo vi andasse Paolo, a conforto della fede; così ora a preparare il rinnovamento dell'Impero e della Chiesa ha eletto che Dante facesse lo stesso viaggio , perché scendendo giù per i cerchi della città dolente, salendo su per i santi scaglioni del Purgatorio e volando di sfera in sfora sino all'empireo, apprendesse il giudizio eterno sul male e sul bene e riportasse agli uomini questa indiscutibile verità, che dannati sono quelli che hanno offeso le virtù teologali, di cui è maestro il papa, e le virtù umane, di cui è maestro l'imperatore; che dal male si torna al bene lasciandosi guidare dalle virtù dell'Impero e della Chiesa operanti in ammirabile concordia; e che la felicità perfetta si gode in un impero «giustissimo e pio», al cui esempio dovrebbe conformarsi il nostro di quaggiù .
Coloro che fanno tanto sottili ragionamenti intorno alla struttura della Commedia non si sono avvisti che i tre regni del di là sono costruiti come esigeva l'idea ispiratrice del poema e ne dipendono in ogni loro particolare. Date le sue ferme convinzioni, nelle loro linee fondamentali era impossibile li immaginasse diversi, Potevano, forse, variare un poco; ma in definitiva dovevano riuscire alla medesima conclusione. Per Dante sarebbe stato un assurdo il non incontrare puniti nell'inferno quanti hanno peccato contro le virtù divine e umane, su cui riposa la Chiesa e d'Impero, e il trovarli distribuiti diversamente da quel che sono. L'impronta del pensiero più originalmente suo il Poeta l'ha impressa in tutta la Commedia, la cui struttura fa una cosa sola con l'ispirazione fondamentale del Poema sacro, nato dall'ardore e dalla esaltazione e dalla fede con cui il Poeta ha vagheggiata la sua idea più cara, quella della liberazione dello stato di miseria in cui eravamo caduti, per mezzo dell'Impero e della Chiesa, tornati ciascuno al proprio ufficio.

3. Sezione 3

Si dirà che l'episodio di Francesca da Rimini è grande poesia, e intanto non ha nulla da vedere né con l'uno né con l'altra. E si dirà male, perché i due cognati sono andati contro la legge civile che comanda la santità della famiglia, fondamento della società e quindi dell'Impero. Se credete che il mio sia un sofisma, ripercorrete con la fantasia le principali regioni in cui è. distinto l'Inferno, e vi persuaderete che Paolo e Francesca non sono posti li a caso, al principio del vero inferno. All'ingresso di ognuna di quelle divisioni cui s'è accennato, il Poeta ha cura d'invitarci a meditare sulla corruttela dell'istituto familiare: con il gruppo di Farinata e Cavalcante, da cui è impossibile staccare l'immagine di Guido, epicureo come il padre e il suocero, all'ingresso della Città di Dite ; con Obizzo da Este che fu spento dal figliastro, all'orlo dell'inforno della violenza ; con Venedico Caccianemico che prostituisce la sorella, nella prima bolgia del cerchio ottavo ; e con i fratelli di Mangona, che si cozzano come due becchi, sull'entrare del nono . Una corrispondenza esatta e costante non può essere accidentale, è voluta sicuramente dal Poeta, che per aiutare il lettore a vederla trova il modo dì mettere il cerchio di Francesca in relazione con la Caina, una circuizione d'Inferno bastevole solo col nome a richiamarci alla corruzione della famiglia, come sopra uno dei primi e più gravi effetti della colpa di origine: «Caina attende chi a vita ci spense» . Sono osservazioni che possono dar lume anche ai critici estetici, nessuno dei quali, se non sbaglio, nell'analisi del famoso episodio ha tenuto conto di questo motivo morale e civile in esso sottinteso; quantunque e Semiramis, autrice, per coprire tante sue turpitudini, della legge che inter parentes et filios, nulla delata reverentia naturae de coniugiis adpetendis, ut cuique libitum esset licitum fieret ; e Didone, che «ruppe fede al cener di Sicheo»; ,e Cleopatras, che accorre all'invito di Antonio dopo che questi ha ripudiata la moglie legittima; Elena, che fugge con Paride abbandonando il letto coniugale; e Achille, di cui Deidamia si duole ancora; e Paris e Tristano: tutte insomma «le donne antiche e i cavalieri» additatigli da Virgilio, siano rei di offese più o meno gravi contro l’integrità della famiglia.
È un'osservazione da tener presente per non lasciarsi sviare dall'accoramento con cui Francesca parla del suo amore, e da quei lettori che non si pèritano di suppone che in fondo Dante in cuor suo que' due adulteri li scusa, come se proprio lui non li avesse posti lì a essere in perpetuo travolti dalla bufera infernale. Non considerano che quando il Poeta manda il suo grido affettuoso, ha già l'animo invaso da pietà ed è quasi smarrito: segno evidente che la fonte della sua commozione è già aperta. In grazia dei norrù che ha uditi? Non direi: tra essi ce n'è di quelli che muovono piuttosto a disgusto, come Semiramis e Cleopatràs. Egli prova compassione di tutti in genere quei peccatori, perché pensa al poco che ci vuole per cadere in una colpa, a cui tutto sembra spingerci: la natura stessa dell'animo nato ad amare, la bellezza con le sue seduzioni, la illusione di trovar nell'amore la felicità più piena. Questo forma l'oggetto delle riflessioni di Dante, dopo ascoltata la prima parte del racconto di Francesca. Perciò Virgilio, che gli legge dentro, lo riscuote chiedendogli: «che pense?»; e la infelice, che ha capito anche lei il fine a cui mira la domanda di Dante, ricorda a uno a uno, esitando per pudore, i momenti di dolce trepidazione precedenti al punto, un punto solo, che li vinse e determinò la catastrofe. Il motivo profondo dell'episodio è da ricercare nella natura dell'amore, che sembra promettere la felicità, e invece, quando non sia legittimo, con la dolcezza dei pensieri e con d'ardore dei desideri che suscita, è causa di morte: «Amor condusse noi ad una morte»; e a una morte anche più crudele condurrà colui che ci uccise. Han sospettato che il canto non fosse ispirato a una morale sicura, e ne contiene una chiarissima e austera.
L'esserci indugiati un poco sopra il quinto dell'Inferno serva a mostrare come Io studio della struttura possa dar lume a una retta interpretazione anche di quelli episodi, che sembrano sottrarsi alle esigenze architettoniche dell'opera. Il medesimo si potrebbe fare con il canto di Ulisse; ma ora importa più far vedere quanto giovi alla critica dell'arte dantesca l'interpretazione delle allegorie. Lo farò esponendo la maniera tenuta dal Poeta nel trattare il problema più angoscioso e imbarazzante della sua coscienza di uomo e di cristiano, quello cioè della sorte riserbata nel di là agl'infedeli che, vissuti prima o dopo la venuta di Cristo, seguendo i dettami della ragione, non peccarono né con il pensiero né con le opere, e morirono non battezzati e senza fede. Ad eccezione di pochi commenti i quali, senza dir né come né perché, hanno espresso il parere che saranno in qualche modo salvati, tutti gli altri ritengono che, in perfetto ossequio al dogma, rimarranno e devono rimanere eternalmente nel Limbo. Ma è davvero questa la sentenza ultima in cui ha riposato la mente di Dante?

4. Sezione 4

Sopra una quistione tanto grave sarebbe stato opportuno, per non procedere alla cieca, cominciar con il determinare l'atteggiamento preso da Dante rispetto alle civiltà antiche. Si sarebbe visto agevolmente che della Grecia, salvo le opere di Aristotile tradotte in servigio dei filosofi, egli conosceva ben poco: quel tanto che gli era accaduto di spigolare nella lettura de' suoi autori latini. Eppure l'ammirazione con cui ne parla direi quasi che tocca H cuore. Proclama Omero poeta sovrano; raggruppa intorno allo Stagirita, come intorno a maestro amato e venerato, tutta la schiena nobilissima dei sapienti; recita con affetto i nomi di quanti ha preso aver lasciata fama di sé nel campo delle arti; e quel che più monta, Intuisce che l'anima greca è insaziabile di sapere e di bellezza, e la personifica in Ulisse, consacrandola per sempre alla riconoscenza degli uomini, in quanto con il suo esempio li sprona all'acquisto d'ogni più desiderabile virtù, e con il suo destino li ammonisce a non oltrepassare i limiti segnati loro da Dio. Ma rutto questo impallidisce di fronte al culto che egli professa per la Roma imperiale e per la Roma cristiana. Formano, prese insieme, fa sua passione più vera. Pensando all'una si sente esaltare, pensando all'altra commovere. La prima lo conquide di stupore, la seconda di venerazione. Anziché nemiche, vede quella diventar sacra per la luce che riceve da questa, e questa diventar augusta per l'universalità ereditata da quella. Egli è che si è levato a contemplarle da un punto molto alto; chè certo per lui non fu un giorno come un altro quello in cui gli parve di avere scoperta la legge posta da Dio al governo del mondo. Anche in seguito, disponendosi a manifestarla altrui, sente rivivere l'orgoglio concepito in quell'ora e scrive: «nel cominciamento di questo capitolo posso parlare con la bocca di Salomone, che in persona de Ia Sapienza dice ne' suoi Proverbi: «Udite, però che di grandi cose io debbo parlare» . Credeva di aver letta nell'abisso del consiglio divino l'idea capace, non solo di fornirgli la soluzione del problema più urgente della sua età, bisognosa quanto altra mai di giustizia e di pace, ma di innalzarlo a una concezione della storia, in grazia della quale il mondo antico e il nuovo, il paganesimo e il cristianesimo gli apparivano concorrere al compimento di un unico disegno. «E però che ne la sua (di Gesù) venuta nel mondo, non solamente lo cielo, ma la terra convenia essere in ottima disposizione; e la ottima disposizione de la terra sia quando ella è monarchia, cioè tutta ad uno principe, come detto è di sopra, ordinato fu per lo divino provedimento quello popolo e quella cittade che ciò dovea compiere, cioè la gloriosa Roma» .
Queste e altre espressioni, che ricorrono nei capitoli IV e V dell'ultimo trattato del Convivio, sarebbero state più che sufficienti a destare nel Rossi il dubbio che forse era un correr troppo l'affermare che Virgilio, una delle più mirabili creazioni ispirate a Dante dall'alto concetto dei valori umani, non sempre è poetico, perché minato da un giudizio negativo di disvalore. La storia di Roma, secondo il nostro Poeta, si svolse «non pur per umane ma per divine operazioni»; essa fu «essaltata non con umani cittadini ma divini, ne li quali non amore umano ma divino era inspirato in amare lei». Fabrizio, Muzio, Torquato, i Deci, i Drusi, Regolo, Cincinnato compirono le loro gesta per «divina inspirazione», con «divino aiutorio» «per divina istigazione», mossi «da divina natura». «E manifesto esser dee questi eccellentissimi essere stati strumenti con li quali procedette la divina provedenza ne lo romano imperio, dove più volte parve le braccia di Dio esser presenti». Sì che non esita conchiudere: «Certo di ferma sono oppinione che le pietre che ne le mura sue stanno (nelle mura de la santa cittade) siano degne di reverenzia, e Io suolo dov'ella siede sia degno oltre quello che per li uomini è predicato e approvato» .
Chi ragiona così, difficilmente, pur ritenendola finita, s'indurrà a negare il suo valore eterno alla mente umana, e a concepire un Limbo, come vuole il Rossi, «inquinato dal compromesso fra l'umanità di. Dante che picchia consapevole alle porte dell'Umanesimo, e il dogma il quale non concede la salvezza a chi non abbia creduto nel Cristo venturo o nel Cristo venuto». Ammetto che così possa parere anche a una lettura non superficiale, ma così non è. Fin dal prologo il Poeta pone i termini del suo problema in modo da avviarlo alla soluzione richiesta dal suo sentimento senza punta offesa alla sua fede, e con tanta naturalezza che non ce ne avvediamo.

5. Sezione 5

Basta un cenno perché ognuno si rappresenti alla fantasia il Poeta nel punto che, spaventato dalla lupa, mina di nuovo verso la selva oscura, simbolo dell'errore in cui tutti si aggiravano smarriti, e dalla quale nondimeno egli, senza saper come, era venuto fuori sul far del mattino. Proprio nell'atto che sta per rientrarvi, sul lembo della selva gli apparisce un'ombra: quella di Virgilio. Siamo appena all'inizio del viaggio fatale, che già entra in scena il cantore più grande dell'Impero, colui che meglio di ogni altro n'ha intuita l'origine divina, ha cantato che ad esso non sono stati assegnati. limiti di spazio e di tempo e n'ha celebrata la missione nel verso famoso: Tu regere imperio populos, romane, memento .
Abituati come siamo a leggere la Commedia come un qualunque altro libro di poesia, al quale nessuno sogna di chiedere la ragione dei fantasmi di cui l'autore si è servito per esprimere il suo mondo, non ci domandiamo come mai a ricondurre Dante, e con esso il genere umano, sul retto sentiero, ossia a ricostituire la società civile sulle basi da eterno assegnatele, Dio abbia eletto un rappresentante della civiltà antica, vissuto «al tempo de li dei falsi e bugiardi» , virtuoso quanto si vuole, ma pagano e, secondo l’opinione comune, condannato a desiderar per sempre senza frutto una liberazione che non verrà. Solo che ci si ripensi un istante, la scelta di Virgilio rischia di parere alquanto strana. Non sarebbe stato più in carattere un gran santo, un trionfatore del male, oppure uno delle tante miriadi di angeli? Se non che, e per quel che fu nella vita e negli scritti, e per la maniera nobilissima e piena di delicatezza con cui nel poema adempie al suo ufficio, Virgilio lo circondiamo di tanto affetto e riverenza che non sogniamo neppure si potesse chiamar un altro a far le sue veci. Incantati dalla poesia non proviamo il bisogno di ragionarci su: siamo paghi di essa e non cerchiamo più in là.
Della medesima opinione non è Dante. Dopo aver camminato dietro lui una lunga giornata, verso sera, un dubbio viene ad assalirlo. Sulle prime, notate, egli si era detto felice di affidarsegli e lo aveva, in nome di quel Dio che non conobbe, pregato di farsi sua guida; mia quando il sole sta per nascondersi, un'ombra scende anche sul suo pensiero. Il viaggio da intraprendere era il più arduo a cui ci si possa avventurare. Prima di lui, è vero, lo avevano compiuto Enea e san Paolo; ma per altissimi motivi noti all'avversario d'ogni male - «Ma io perché venirvi? o chi 'l concede?» . - Davanti al serrato argomentare di Dante, il maestro è costretto a parlare; e parla raccontando come e da chi egli era stato inviato al soccorso. Beatrice in persona ne lo ha pregato con gli occhi lucenti di lagrime, e Beatrice è stata a sua volta mossa da due altre donne benedette di cielo. La grazia singolarissima scende dunque da chi solo poteva concederla, e quella di Virgilio è una vera e proprio missione ordinata da Dio per liberare novamente il mondo dalla lupa, a vincere la quale - i due poeti l'hanno sperimentato ciascuno per conto suo - le forze umane non bastano.
A tal racconto Dante, con l'anima sgombra da ogni esitazione, prima manda un ringraziamento alla pietosa che Io ha soccorso, e poi: «Or va, soggiunge, ch'un sol volere è d'ambedue» . Il rappresentante dell'Impero, ossia della giustizia, opera in pieno accordo con la rappresentante della Chiesa, ossia della pietà. L'aspirazione del Poeta comincia a diventare realtà, e Dante, destinato fin dall'età della Vita Nuova a dire della sua donna quello che non fu detto d'alcuna, si avvia dietro te poste de le care piante, fidato alla virtù di Roma che ripiglia con Virgilio l'ufficio di guidare gli uomini alla felicità terrena, figurata nel paradiso terrestre: ufficio al quale è stata eletta prima ancora che la Chiesa nascesse. E questo spiega perché Dante non ha avuta nessuna difficoltà a proclamare duca signore e maestro il cantore del giusto figliuol d'Anchise per un cammino voluto da Dio.

6. Sezione 6

Giunti che sono sulla proda della valle d'abisso, Virgilio comincia: «Or discendiam qua giù nel cieco mondo» ; ma tutto smorto e con la voce che forse gli trema, Sta per rientrare nel suo cerchio, dove con gli altri spiriti magni dell'antichità è relegato a vivere in un desiderio che continuamente rinasce e continuamente ricade, perché non sostenuto dalla speranza. Ossia, annota il Rossi, in una condizione 'inimmaginabile . Nella stessa, direi, del Carducci, quando cantava di provare un desiderio vano della bellezza antica, e tuttavia seguitava a cercarla; oppure dello stesso Dante allorché ci si rappresenta simile al cicognino:

E quale il cicognin che leva l'ala
per voglia di volare e non s'attenta
d'abbandonar lo nido, e giù la cala;

tal era io con voglia accesa e spenta
di dimandar, venendo infino all'atto
che fa colui ch'a dicer s'argomenta.
Purg. XXV, 10-15

Il Poeta veramente non si è accorto di aver posto Virgilio in una situazione assurda, forse perché ha continuato sempre a sognare il suo ritorno a Firenze pur sapendo che la sua città non gli avrebbe mai riaperte le porte; al contrario, apprendendo la sorte di tante anime grandi e virtuose, condannate a vivere sospese in quel Limbo, esclama: «Gran duol mi prese al cor quando lo 'ntesi» ; e mentre poco prima aveva abbassato il capo per vergogna e s'era astenuto dall'interrogar oltre il suo duce, ora invece Io incalza così -: «Dimmi, maestro mio, dimmi, signore», da questo carcere è uscito mai nessuno, «o per suo merto o per altrui», che poi sia salito al paradiso? - . A tal domanda egli non ci dice se il pallore di Virgilio crebbe o si attenuò, troppo preso, forse, dall'ansia che la risposta fosse quale il cuore si aspettava. - Ne sono usciti, assicura il dolce padre, Adamo, Abele, Noè, Abramo, David, Giacobbe «e altri molti» . - Un catalogo di nomi, notano i critici estetici; ma perché non avvertono il respiro di liberazione che esce dal petto di Dante a ciascuno di essi. Più il maestro ne enumera, e più egli ne gode. Con quei nomi e con quegli «altri molti» la difficoltà più grave era stata superata, e il suo angoscioso problema aveva frutto un gran passo verso la soluzione. Uno per uno e tutti insieme attestavano col fatto che la legge scolpita sull'architrave della porta infernale: «Lasciate ogni speranza, voi ch'entrate», non si stende fino al primo cerchio, o, diciamo meglio, nel primo cerchio soffre una notevole eccezione. Da esso si può uscire, e che ne siano usciti i patriarchi dell'Antico Testamento non è soltanto accertato da Virgilio, ma una verità di fede consacrata nella formola del Credo. È da ritenere che, saputo ciò, il Poeta abbia continuato più volentieri per la sua via.
Arrivano a un castello dove splende un fuoco circondato da un emisfero di tenebre, e si vedono venire incontro quattro grandi ombre: i quattro «signori dell'altissimo canto». Sanno la missione affidata a Virgilio e vengono a salutare il suo ritorno e a fargli onore. Accolto come sesto nella bella scola dei poeti, Dante attraversa con loro senz'alcuna difficoltà il fiume che difende in giro il nobile castello, passa per le sette porte dei sette ordini di mura sorgenti le une più alte delle altre su per le pendici di un colle, e giungono in un «prato di fresca verdura» .
- Quel contrasto di luce e di tenebre, il bel fiumicello che passano senza alcuna difficoltà; i sette cerchi di mura, le sette porte e ogni particolare non si nega che nelle intenzioni di Dante abbia il suo significato allegorico; ma non importa ricercarlo, ammoniscono gl'intendenti di poesia. Godiamoci in pace il riposo che ci concede, viaggiando per l'inferno, il capitare in un sito così armonioso e spirante un senso di dignitosa malinconia. Si andava per un deserto, e ci siamo imbattuti in un'oasi. -
E godiamocelo pure, chè niente lo vieta. Si converrà nondimeno che in un luogo riservato alle anime prive di speranza riesce alquanto contradittorio veder disteso davanti i loro occhi e sotto i loro piedi il colore della speranza. Anche se non si fa professione di andare alfa caccia di sensi nascosti, nasce spontanea la curiosità del perché. E quel fresca significherà che li l'erba è sempre verde e lucente, oppure che è spuntata da poco e somiglia al verde delle «fogliette pur mo nate», delle vesti degli angeli discesi a cacciar via il serpente dalla valletta dell'antipurgatorio; o a quello del «fresco smeraldo in l'ora che si fiacca»? . Tra il Limbo, assegnato a coloro che altra colpa non ebbero se non quella figurata dal serpe che «diede ad Eva il cibo amaro» , e la valletta amena dove sono, anch'essi dipartiti dal modo degli altri, i reggitori dei popoli che si lasciarono sedurre dalla stessa biscia, corrono parecchie somiglianze. Non farebbe maraviglia se anche la fresca verdura del prato fosse pensata in rapporto con tutto quel verde lussureggiante dentro il seno della «picciola vallea». Lascio che il lettore lo decida da sè quando saremo alla fine. Ora a una cosa sopra tutto convien far attenzione: alla forma del castello, dove il Poeta ci ha condotti.
A me pare incredibile non si sia veduto che essa riproduce fedelmente la forma del Purgatorio; e più incredibile ancora che, dopo veduto, non se ne tenga nessun conto. Qui un castello alto sopra un colle, difeso tutto all'intorno da un fiume; là una montagna altissima, circondata e difesa dall'emisfero delle acque : qui sette giri di mura, l'uno più alto dell'altro; e là sette cornici ascendenti di grado in grado verso il cielo: qui sette porte, e là sette entrate: qui, alla cima, un luogo «aperto luminoso e alto»; e lì, sulla vetta, un altipiano sciolto nell'aria e nella luce: qui un prato smaltato di verde, e là una «divina foresta spessa e viva»: e qui e là spiriti magni. La somiglianza è innegabile, mi sembra. Il nobile castello è un purgatorio in embrione. Se riflettiamo che dell’uno e dell’altro è autore un architetto infallibile e inesauribile nell’espressione del suo pensiero, dovremo di necessità concludere che dunque il Limbo è una specie di antipurgatorio, non potendosi ammettere che Dio per costruire due edifici destinati a un uso diverso, si fosse servito dello stesso disegno. Le linee fondamentali di una fabbrica pigliano naturalmente norma dalla vita che vi si mena. Dall'arte divina non dobbiamo esigere meno di quanto ci aspettiamo dall'umana, specie da quella di Dante che con le sue strutture e le sue allegorie proietta sui propri canti una luce, sotto cui anche la poesia prende colori nuovi, perché nuova ne risulta l'ispirazione.
Ma prima di volgete le spalle al nobile castello sarà opportuno ricordare che le anime del Limbo non sono incorse nell'ira divina. Al contrario le opere belle ·e grandi compiute dagli spiriti magni hanno acquistata grazia presso il tribunale divino, che le ha prese e collocate lì in un luogo onorevole, appartate dalle altre e libere da ogni pena di senso.

7. Sezione 7

Un altro canto dove alla mente del Poeta si riaffaccia il problema della condanna degli infedeli è l'undecimo, e preciso nella difficoltà che muove al maestro, non appena questi ha finito di esporgli l'ordinamento morale dei cerchi di sotto, riguardo ai dannati sui quali cade l'ira divina. Facendosi accertare da Virgilio che essa cade pure, quantunque meno crucciata, sulle anime che popolano i cerchi precedenti, dai secondo al quinto, egli ottiene indirettamente fa conferma che dunque gli abitanti del Limbo non sono incorsi nell'ira di Dio, che è appunto il fine nascosto a cui il buon duca sospetta che egli miri. Ma perché non si dica che sono ragionamenti sottili, passo oltre e vengo al momento che i due via tori dell'oltremondo si dispongono a superare l'ultimo e più grave ostacolo per uscire «a riveder le stelle».

8. Sezione 8

Detto che han veduto quanto c'era da vedere e che ormai è tempo di partir dall'inferno, Virgilio prima fa che il compagno diletto gli si avvinghi con le braccia al collo, poi, quando Dite ha aperte ben bene le ali, dall' orlo gelato dell'ultimo pozzo d'abisso spicca un salto e si aggrappa alle vellute coste dell'orribile mostro. Con Dante sul dorso, attenendosi al pelo lungo e folto del gran bestione, scende, alla maniera dei ragazzi nelle palestre giù dalla fune, fino al grosso delle anche. Arrivano così al punto «al qual si traggon d'ogni parte i pesi», ossia al centro di gravità. È evidente che se fin lì sono discesi, di lì in poi per passare all’emisfero australe convien che salgano. Onde Virgilio, tenendosi sempre appigliato al vello di Lucifero, fa un mezzo giro sopra se stesso portando i piedi dove prima aveva la testa, e comincia a salire su per la coscia e poi per la gamba del gran diavolone, finché non viene all'uscita opposta di quel tristo buco e pone Dante a sedere sull'orlo di questo, non altrimenti dalle mamme allorché dalla schiena depongono sopra un muricciolo il doro bambino. È il passo più arduo di tutto il viaggio, -e si spiega: si tratta di struccarsi finalmente dalla radice di ogni male. Non sorprende perciò che il buon duca abbia a durare una grande «fatica», soffra «angoscia» e, volendo ammonire l'alunno che si tenga stretto a lui, gli manchi il fiato e parli «ansando come uom lasso» .
Qualcuno noterà che il Poeta avrebbe fatto meglio a risparmiare tanta umiliazione a colui che chiama «più che padre». Anziché assoggettarlo, sia pure per breve ora, al mestiere più vile, dei «portatori in collo», a lui sarebbe costato poco l'inventare un'altra uscita, mentre così, con la scena descritta, gli fa perdere molta della dignità di cui abitualmente lo riveste. E qualche altro osserverà che non c'era neppur bisogno per far intendere all'alunno d'esser venuti all’emisfero opposto di accumular tante notizie, delle quali nessuno vede la necessità:

E se' or sotto l'emisperio giunto
ch'è apposito a quel che la gran secca
coverchia, e sotto 'I cui colmo consunto

fu l'uom che nacque e visse senza pecca.
lnf. XXXIV, 112-115.

Lucifero, la gran secca, il paradiso terrestre, il Calvario e la passione di Gesù, son discorsi da mettere sulle labbra di uno che ha l'affanno? Divagazioni, allegorie, struttura, dice la critica estetica. Né io dirò che son poesia, sebbene sappia che anche i critici di qui a non molto riconosceranno che sono motivi messi li per essere poi ripresi e sviluppati a formare le stupende armonie della Commedia. La forma non avrà risposto all'intenzione dell'artefice, ma il sentimento che vi palpita dentro è d'una profonda umanità. Lo vedremo.

9. Sezione 9

Dalla valle inforna anche per noi è tempo di salire a riveder la serena montagna del Purgatorio. I pellegrini del mistero vi giungono avanti l'alba, e sorto quel cielo di zaffiro, a quell'aria pura, alla vista del «bel pianeta che d'amar conforta», si sentono riavere. Cammina e cammina, da una «piaggia deserta» sono approdati a un «solingo piano» e vanno «com'om ehe toma a la perduta strada - ch' 'ìnfìno ad essa li pare ire invano» ; quando sul tremolio del mare scorgono un lume correr veloce verso la spiaggia: l'angelo che conduce le anime dalla foce del Tevere al regno della purgazione. Tra esse, quando sono approdate, ce n'è una che ravvisa Dante e si fa Innanzi con le braccia tese per abbracciarlo: è Casella. Rendiamoci anche noi -alla malia del suo canto, che si Ieva agile e limpido nella pace del mattino luminoso, a ridire: «Amor che ne la mente mi ragiona», tanto dolcemente, assicura il Poeta, «che la dolcezza ancor dentro gli suona». Il primo a rimanerne preso è esso Virgilio, il «savio gentil che tutto seppe».

Lo mio maestro e io e quella gente
ch'eran con lui (con Casella) parevan sì contenti,
come a nessun toccasse altro la mente.
Purg. II, 115.

Per pochi istanti, allettato dalla musica, dimentica anche lui il fine per il quale fa quel cammino, lasciandosi andare interamente alla seduzione di un canto, scritto in lode della «donna gentile», ossia della filosofia, ossia della ragione che, paga di sè, non chiede altro per reputarsi felice. Ma appunto perciò ecco sopraggiungere Catone a rimproverarli perché non vanno verso il bene con la prestezza e la diligenza che dovrebbero. Onde tutti, come a rifarsi del tempo perduto e ammendare il breve fallo, si danno a fuggire per quella campagna solitaria verso il monte: anche Virgilio, il duca, il signore, il maestro. Un acuto rimorso gl'invade subito il petto avendo intuito da qual remota sorgente sia nato il sentimento dal quale, per un poco, si è lasciato sedurre. Quel canto in cui, abbellita dalla musica, è un'amorosa esaltazione della mente umana, gli ha parlato con tutte le magie di un'antica passione. Ma il grido del «veglio onesto», simbolo di quello che manda la sua vigile coscienza, lo fa tosto accorto dell'errore, al quale come si sarebbe potuto sottrarre se fu rivestito un tempo della carne di Adamo? Le conseguenze della colpa d'origine le risentì potentemente anche lui e ora, dove e quando meno se lo aspetta, la vecchia illusione risorge sotto gli aspetti più attraenti. Se ne avvede e, confuso di vergona, abbassa il capo e sospira:

Matto è chi spera che nostra ragione
possa trascorrer la infinita via,
che tiene una sustanza in tre persone.

State contenti, umana gente, al quia;
ché se possuto aveste veder tutto,
mestier non era partorir Maria;

e disiar vedeste sanza frutto
tai che sarebbe lor disio quetato,
ch'etemalmente è dato lor per lutto:

io dico d'Aristotile e di Plato
e di molt'altri - E qui chinò la fronte,
e più non disse, e rimase turbato.
Purg. III, 34-45.

Poco addietro mi è accaduto di notare gli accenni vaghi che, non appena ha terminato di mettersi sotto i piedi Lucifero ed è uscito dal baratro infernale, Virgilio fa al monte della passione del Cristo, diametralmente opposto a quello dove fu commessa la colpa originale. Se qui, ripigliando, il discorso, mi permetto di richiamare l'attenzione del lettore all'accento diverso con cui ora Virgilio parla della necessità della Redenzione e fa la sua professione di fede nel dogma della Trinità, spero non si supponga lo faccia per la mia scarsa sensibilità estetica, che m'impedisce di gustare la commovente bellezza della scena. Egli è che, dato il mio assunto, a me qui preme si veda che la differenza con cui Virgilio pronunzia il suo atto di fede può avere una ragione artistica. Appena finito di camminare carponi sullo smisurato corpo· di Dite, le verità, a cui gli si aprono gli occhi in grazia dell'atto di umiltà compiuto, egli le vede in confuso, e però parla come chi balbetta e non sa bene il valore dei fatti avvenuti sul paradiso terrestre e sul Golgota: salito invece al purgatorio, aperto alle anime per merito della Passione del Cristo, ne ragiona come chi vi avesse meditato sopra a lungo. Si sente più vicino a Dio. Il riconoscimento dei limiti segnati alla ragione è espresso in una forma che più piena e viva non si potrebbe, e la sua anima profondamente buona, senza spogliarsi di quell'aria dì rassegnata tristezza che la rende adorabile, ci si dona intera, comunicandosi immediatamente alla nostra, immedesimandosi con la nostra. All'udirlo anche noi chiniamo la fronte e rimaniamo turbati, fino a che non lo vediamo levar di nuovo il viso a dire con libero piglio:

Andiamo in là, ch'ei vegnon piano;
e tu ferma la spene, dolce figlio.
lb. III, 65

- Ma sarà poi questa la interpretazione da dare all'episodio di Casella? Fino a oggi, si potrebbe obiettare, in esso avevamo ammirata l'arte sovrana con cui Dante rappresenta il fascino che la musica aveva sul suo animo; e nessuno, che si sappia, aveva tirato fuori i residui della colpa originale con le professioni di fede nei misteri cristiani o con gli aperti riconoscimenti dei limiti della nostra mente: si annotava che al Poeta era convenuto attribuire alla sua guida una discreta conoscenza delle verità da credere, e bastava per godersi in pace la poesia. Con coteste vostre chiose voi la turbate. - Non la turbo, risponderei, perché il testo non nasconde a nessuno che il buon duca «parea da se stesso rimorso» , e parla con tanto abbandono per dare qualche sfogo al dolore che prova della mancanza commessa e fame ammenda. Senza questo sottinteso non saprei da qual altro sentimento sarebbe mossa quella così calda esortazione agli uomini di star contenti al quia.
Dante il suo autore lo conosceva bene, e, o lo avesse appreso dai commenti, o lo avesse arguito dagli scritti di lui, sapeva che anche Virgilio aveva amato con passione la filosofia e sofferto della sua stessa brama di rutto vedere, tutto approfondire. Ricordava forse che un giorno egli aveva esclamato:

Felix qui potuit rerum cognoscere causas,
atque metus omnes et inexorabile fatum
subiecit pedibus, strepitumque Acherontis avari!;
(Georg. II, 490).

e perciò ora gli fa dire, in riparazione, il contrario.
Chi dubitasse della mia interpretazione, ripercorra il secondo canto d'ogni cantica della Commedia. Per amore di quelle armonie che a larga mano e con tanta sapienza ha disseminato nel poema, vedrà che in ciascuno di essi il Poeta l'ispirazione centrale l'ha derivata dal motivo della finitezza delle nostre facoltà: nel secondo dell'Inferno con la dimostrazione che a salvar Dante e il mondo ,dalla lupa le forze umane non bastano e si richiede il diretto intervento di Dio; nel secondo del Purgatorio con Virgilio che si lascia, quasi inconsapevole, andare alle attrattive della vecchia sirena, ma per farne, nel terzo, splendida riparazione; nel secondo del Paradiso con la quistione delle macchie lunari, che porta a concludere essere in facoltà della mente umana di spaziare a suo piacere, ma in un campo ben determinato: dal cielo della luna in giù; chè sopra di essa aeterna sunt omnia e noi ne sappiamo quel tanto che ci è rivelato dalla fede. Del resto Virgilio era così persuaso che solo e questo patto, rispettando la legge dei limiti, poteva prestare il suo aiuto all'opera della nuova liberazione del mondo, che si affretta a dichiararle subito nelle prime parole rivolte a Beatrice:

O donna di virtù, sola per cui
l'umana spezie eccede ogni contento
di quel ciel c'ha minor li cerchi sui,

tanto m'aggrada ecc.
Inf. II, 76.

10. Sezione 10

Ma la prova più bella si ha nel XIX del Purgatorio. Con esso siamo nella cornice dell'accidia, ossia delle anime lente e negligenti al vero bene, allorché a Dante viene in sogno una «femmina balba» che, come ognuno ricorda, di bruttissima che è, sotto gli sguardi di lui diventa molto bella, tanto che si colora perfino del color di perla dell'amore . Così trasfigurata incomincia a cantare:

io son dolce serena
che i marinari in mezzo dismago,
tanto son di piacere a sentir piena!

Io volsi Ulisse del suo cammin vago
al canto mio; e qual meco s'ausa,
rado sen parte: sì tutto l'appago.
Purg. XIX, 19-24.

Dante non lo dice e noi non abbiamo il diritto di affermarlo; ma fa dolcezza e l'armonia del canto trema ancora nei versi, sì che possiamo supporre l'arte e la voce della maliarda superiore a quella del pigrissimo Casella. Comunque, e non se ne discute, la sirena si prova a sedurlo con l'attrazione stessa della musica, come sul piano solingo dell'antipurgatorio, e, quel che riesce anche più significativo, con l'esempio di Ulisse, il quale preso di quel medesimo ardore verso la sapienza, da cui nacque la canzone Amor che ne la mente, non ebbe nessun riguardo alle colonne di Ercole e violò così i limiti posti da Dio. Ma Dante ha confessato tante volte di aver corso pericolo di avventurarsi a quel «folle volo», che non importa tornar sulla quistione. Qui, in cambio di badare a lui, conviene badare al maestro che, guardate caso, sembra addormentato anch'esso. Ha bisogno infatti che una donna «santa e presta», quella stessa che ha parlato per bocca di Catone, venga a ridestarlo, dicendo «fieramente»:

O Virgilio, o Virgilio, chi è questa?

Non vedi dunque che il tuo alunno è tentato dalla sua pericolosa ammaliatrice? - Ma Virgilio -evidentemente non la vedeva, perché l'aveva dentro anche lui ·e ne subiva, inconsapevole, l'incanto. Per cui va per la seconda volta incontro a una riprensione, fatta di una domanda in cui non c'è una parola di più di quanto occorre a richiamarlo alla coscienza di sè. Somiglia a uno che, intento al proprio dovere, un poco se ne distrae per il riapparire vago d'un’idea un tempo grandemente amata e poi riconosciuta ingannatrice, che, come trasognato scuote il capo, e torna con più zelo al proprio ufficio. La sirena infatti non la vede. neppure; con gli occhi fissi in «quella onesta» - un epiteto che rammenta il «veglio onesto» che sita a guardia del santo monte, strappa i veli di cui si ammanta l'«antica strega», e scopre a Dante il marcio che nasconde. Sotto forme diverse il motivo ritorna e con l'accenno a Ulisse determina il significato della canzone Amor che ne la mente, al quale i lettoci non badano, allettati anche loro dalla voce di Casella, mentre contiene la chiave dell'episodio, che a essere inteso non perde nulla della sua bellezza, anzi ne acquista facendocisi ammirare come una delle tante variazioni immaginate dal Poeta intorno al terna dell'incapacità dell'uomo a conoscer tutto, e quindi della sapienza che c'è a confessare come la sete naturale di sapere sazia solo con le acque scaturenti dal fonte «ond' ogni ver deriva». Dante ci torna su con tanta frequenza che per esaurirne la trattazione sarebbe mestieri ripercorrere la Commedia dal principio alla fine. Posta ne' primi due canti l'idea madre del poema, in seguito altro non fa che svilupparla fu ogni sua parte, diramandola e conducendola a sempre maggior determinatezza. Quando s'è capita l'arte con cui egli ha costruito i suoi mondi, si ha il modo di rispondere a ogni domanda e risolvere ogni dubbio. Una cosa sola rimane indecifrabile: la persona in cui s'incarnerà il cinquecento diece e cinque; ma ha il buon senso -di annunziarlo in guisa da far intendere che non lo sapeva neppure lui.

11. Sezione 11

Ma se così è, e non se ne può dubitare, se, voglio dire, Virgilio stesso avverte fin dal prologo di essere tra i sospesi, tra i sospesi dobbiamo tenere per certo che rimanga. Ce ne assicura proprio lui in maniera più che esplicita in seguito all’episodio di Casella. Essendo gli spiriti magni condannati a vivere senza speranza in un desiderio che non verrà mai appagato, è del tutto vano far quistione se un giorno saranno redenti o no. La sorte toccata alle anime del Limbo è ben triste, ma bell'e definita, e chiaramente definita: staranno li a desiderare eternalmente - com'è lunga e dolorosa qui questa parola - eternalmente... senza frutto. La sanzione divina è enunciata in una forma che non ammette discussione.
È vero; ma non· potrebbe quest'espressione così sconsolata essere effetto naturale del ·turbamento d'animo in cui Virgilio si trova? In fine vedremo che è proprio così; ma intanto non sarà male riflettere se non sia altrettanto chiaro e indiscutibile il verso che suggella la scritta della porta infernale: «Lasciate ogni speranza voi ch'entrate». E nondimeno i patriarchi dell'Antico Testamento insieme con «molti altri», tra cui certamente Catone, quel loro desiderio lo videro appagato. Cristo scese all'inforno e li liberò. L'Uticense, ne convengo, non è ancora beato; ma verrà il giorno che sarà. Intanto lì ai piedi della santa montagna direi che rappresenta già una bella promessa. Una volta che da quel carcere è uscito lui, pagano e suicida, perché rinunzieremo a credere che possa essere egualmente appagato il disio dei grandi, che appartennero al popolo destinato a essere il ministro della giustizia? Vivono nello stesso cerchio e nelle medesime condizioni dei figli d'Israele, e han servito anche loro al compimento di un profondo consiglio divino, La giustizia è una virtù fondamentale e non meno necessaria della pietà; e come i patriarchi ottennero grazia per aver preparato l'avvento del Cristo, così potrebbero ottenerla gli spiriti magni per aver preparato l'avvento del Veltro. Insomma, qualora nella Commedia ci fossero solo le parole sospirate da Virgilio, certo il problema dei sospesi non sarebbe sorto e sarebbe dannoso l'agitarlo; ma c'è ben altro. Il fatto che il «dolcissimo padre» crede di dover desiderare per sempre invano, non è argomento sufficiente a ritenere che così è e non può essere altrimenti. Supponete sapesse fin d'ora che, quando che sia, sarà liberato da quel carcere: saprebbe una cosa per la quale Dante sarebbe stato dichiarato eretico, e molta parte della sua poesia andrebbe perduta. Virgilio ci è immensamente caro per molte ragioni, ma specialmente per quell'umanissima mestizia che gli aleggia sul volto. Seguitiamo dunque a cercare.

12. Sezione 12

I nostri poeti pigliano a salire l'erta dell'antipurgatorio tra le nove e de dieci del mattino, verso sera l'han percorsa quasi tutta e si avviano, guidati da Sordello, alla «picciola vallea», nel cui grembo sono raccolti imperatori, re, duchi, reggitori, in breve, di popoli, negligenti nell'adempimento del proprio dovere. Divertitevi a paragonare il nobile castello con questa aiuola che fiorisce sulla costa scabra e nuda del monte della purgazione, e farete presto a scoprire che le due sedi in parola sono state pensate in relazione fra loro. Per fortuna è stato già rilevato e non si dirà che la somiglianza si deve alla mia fantasia, cupida di trovar corrispondenze. Ho nondimeno da aggiungere qualcosa, a cui credo non sia stato fatto caso. Mentre il trovatore di Coito con cortese premura ragguaglia il vate mantovano di quanto può agevolargli il cammino, gli accade naturalmente di avvertirlo che nel purgatorio, tramontato che sia il sole, non è più possibile muovere un passo verso l'alto - Come mai? - chiede subito Virgilio:

Come è ciò? - fu risposto. Chi volesse
salir di notte, fora elli impedito
d'altrui, o non sarria che non potesse?
Purg. VII, 49.

Dopo quanto gli aveva insegnato Catone, la notizia pan-ebbe non gli dovesse giungere inaspettata. Pure, come si vede, lo colpisce assai, e con le ipotesi che fa per spiegarsela mostra di' annettervi un grande interesse. Deve aver intuito in quella legge qualche elemento utile a diradare un poco il mistero della sua condizione. - Egli è, risponde Sordello, che la tenebra notturna «col non poder la voglia intriga» . - Se la volontà dunque non nasce, l'impedimento deriva solo dalla tenebra. Di guisa che, guardate caso, il medesimo potrebbe forse accadere agli abitatori del Limbo, proprio poco prima, nemmeno a farlo apposta, descritto da Virgilio come luogo

non tristo da martiri,
ma di tenebre solo, ove i lamenti
non suonan come guai, ma son sospiri;
Purg. VII, 28

La differenza che passa fra le due schiere di spiriti, ambedue, sebbene diversamente, nobilissime, consiste in ciò che nelle une la volontà è stroncata a ogni momento, nelle altre a ogni cader del sole; perchè quanto a sospiri Enrico di Navarra, suocero di Filippo il Bello, ha poco da invidiare ai sospesi del Limbo, se

ha fatto alla guancia
della sua palma, sospirando, letto.
Ib. 107.

Si spiega di qui per qual ragione il volto di Virgilio si dipinge di maraviglia. Avrà pensato, «quasi ammirando» , che un quissimile avviene anche a lui, ma poi, come per scacciare da sè l'idea di un rapporto fra dl Limbo e al Purgatorio, prega subito Sordello che li meni dove ha promesso. La speranza non ha finito di affacciarglisi al pensiero che già cade. Ma, «andiamo a maggior fretta».

13. Sezione 13

Sul duro e lucido pavimento della prima cornice del Purgatorio camminano a grande stento le anime dei superbi quale più e quale meno curvi alla terra da gravi massi che ne domano la altera cervice. A fin di aiutare l'amarezza della loro contrizione l'artefice eterno ha intagliato nel marmo della strada le immagini dei più famosi superbi nell'atto che ne scontano il fio. Di guisa che, a ogni giro attorno al monte si ritrovano a calpestare di nuovo quelle figure, tra le quali primeggia naturalmente il gran corpo di Lucifero. Guardateli attentamente nel punto che camminano sopra questo, e forse stupirete scoprendo che Virgilio, con Dante sopra il dorso, scendendo e salendo, non meno faticosamente, su quell'immenso acervo di materia quasi bruta che è Dite, si è rassomigliato in tutto e per tutto a costoro. La cosa è così nuova e così densa di significato che probabilmente vi rifiuterete di crederla.
Orbene, confrontate l'ultimo cerchio infernale, il nono, con dl primo del santo monte. Prima ancora di scoprir la relazione in cui il Poeta li ha posti, osserverete che se nell'Inferno dai peccati meno gravi si scende ai più gravi e nel Purgatorio, all'inverso, dai più si sale ai meno gravi, vien naturale che il primo girone di questo deve in qualche modo corrispondere all'ultimo di quello. E corrisponda infatti in molti modi. I peccatori più notevoli sono in gran parte gli stessi in ambedue i luoghi: in Cocito Nembrod, Fialte, Briareo, Anteo e, a capo di tutti, Lucifero; nella prima cornice Nembrod, i giganti, Briareo e Lucifero. Laggiù, nel pozzo scuro, un pavimento di ghiaccio più duro d'ogni pietra; e un duro pavimento di marmo quassù. Là anime trasparenti sotto il gelo, come un filo di paglia nel vetro, immobilizzate in eterno nell'atteggiamento che vi sono cadute; qua anime effigiate nel marmo da un'arte che le fa parer vive. In ambedue i casi a Dante par di camminare sopra tombe terragne, avanzando lentamente a testa bassa, là per specchiarsi nelle anime, ciascuna delle quali similmente «in giù tenea volta la faccia», qua per andar di pari passo con Oderisi, «come buoi che vanno a giogo». In Cocito un traditore gli grida:

Guarda come passi;
va si che tu non calchi con le piante
le teste de’ fratei miseri lassi;
Inf. XXXII, 19.

nel girone dei superbi le teste le calcano con le piante non pure le anime, ma anche i poeti. È inutile, credo, continuare. Un pavimento di ghiaccio traverso il quale le anime traspariscono in vari atteggiamenti, e uno di marmo effigiato dei più solenni superbi da una mano che non teme di gareggiare con la stessa natura, somigliano tanto che sono quasi la stessa cosa. Lo studio di creare uno stretto rapporto tra dl primo giro del vero Purgatorio e il «fondo d'ogni reo» apparisce più che evidente, e il rimando dai superbi, che stanno a scontare la loro colpa, a Virgilio che calpesta il cadaverico imperatore del doloroso regno è indiscutibile. Per non avvertirlo bisognerebbe non avere né occhi né fantasia. Perciò dicevo che la pena di vedere il dolce padre umiliato e angosciato a quel modo si sarebbe poi convertita in piacere. Era la condizione per menar Dante fuori dell'inferno e nel tempo stesso quella imposta a lui per cominciare a uscirne.
Che conto i critici estetici faranno delle figurazioni, delle quali Dante si serve per esprimere il suo pensiero, non so prevederlo. Certo è che il Poeta, rappresentando in quell'atto il suo buon duca, si è ispirato a un sentimento che è insieme amore, bisogno di giustizia, ardimento e pietà. Con quell'immaginazione egli suggerisce ai lettori che Virgilio è ammesso a purgare l'unica colpa di cui involontariamente è stato reo, quella di superbia ereditata da Adamo. Se, subito dopo, gli occhi gli si aprono alle verità principali della fede, e, come divagando, accenna all'uom «che nacque e visse senza pecca», e che non poteva quindi esser figliuolo di Adamo, al paradiso terrestre e al Colle della Redenzione, mentre firn qui del Cristo ha parlato come di un Possente, alla cui morte «l'alta valle feda» pare si scotesse tutta, producendo, forse, quelle ruine, di cui non sa rendersi ragione , ora non sorprende più. La grazia divina, che non sempre illumina appieno, ma più spesso scende a gradi, comincia a fargli tralucere nella mente le verità soprannaturali della fede. Poi, quanto più si allontanerà da colui che fu «principio del cader», e tanta più chiarezza gli si farà dentro. Arrivato all'ultima cornice sentirà d'esser più presso a Dio e lo dirà candidamente .
Ma i nemici della struttura e del pensiero allegorico, che di simili discorsi non voglion sapere, diranno che, nonostante la buona volontà del Poeta, in conclusione si ha da fare con fredde e inopportune divagazioni; perché la commozione, della quale magari sarà stato pieno, non si è comunicata ai versi, non è espressa, e dunque non c’è.
A tal osservazione, se la facessero, suppongo che Dante risponderebbe così:

Come per sostentar solaio o tetto,
per mensola talvolta una figura
si vede giugner le ginocchia al petto

la qual fa del non ver vera rancura
nascere 'n chi la vede;
Purg. X, 130.

così credevo si commovesse il lettore mirando, non una figura di legno o d'altra materia, mia lo stesso mio dolcissimo padre nell'atto di camminare con tanta angoscia e così a lungo sul corpo di Lucifero portando me sopra le spalle. Se ora, dicevo, ne prova compassione, poi, quando vedrà che Virgilio è sottoposto a tale pena perché ammesso dalla bontà infinita a purgare la colpa umana, allora si sentirà inondare l'anima di gioia, vedendo in quell’atto chiaramente adombrata la soluzione del problema che non tormenta me solo, ma la grande maggioranza dei cristiani. –
E qui, dopo quanto si è veduto, si potrebbe far punto. La Provvidenza che sceglie il più genuino rappresentante dell'idea imperiale a preparare la liberazione del mondo dalla lupa, insidiatrice implacabile degli uomini; il luogo della relegazione degl'infedeli fatto a immagine e somiglianza del Purgatorio; Beatrice che promette al cantore del giusto figliuol d'Anchise di lodarsi spesso dii: lui alla presenza dell'Altissimo; e Virgilio che, gravato dal peso dell'animo, calpesta Lucifero e subito dopo allude, sia pure vagamente, al rapporto che il dramma della Passione ha stabilito tra i punti centrali de' due emisferi della terra, sono argomenti più che valevoli a dimostrare che Dio ha collocati bensì gli spiriti magni e i parvoli innocenti nel Limbo, ma nel tempo stesso ne ha apparecchiata la liberazione. Ma poiché la quistione, oltre il teologico, ha un grande interesse artistico e umano, la condurrò a termine con la maggiore brevità possibile.

14. Sezione 14

Allorquando i due viatori del di là stanno per uscire dal quinto girone degli avari e prodighi, all'improvviso un forte terremoto scuote dl santo monte dai piedi alla cima. Non sapendone la ragione i Poeti da principio ne rimangono tra impauriti e maravigliati; ma tosto li rassicura il coro immenso, a cui pigliano parte tutte le anime del secondo regno cantando: Gloria in excelsis Deo. Quantunque di terremoti lungo il cammino ne siano avvenuti parecchi, Virgilio non ne ha ancora penetrato il senso, ed è ben lontano dall'immaginare che lo scotersi della montagna sia segno che una delle anime ha terminata da purgazione e si prepara a volarsene al cielo. Questa volta il gran giorno è spuntato per l'anima di un poeta, C. Papinio Stazio, vissuto presso a poco tra il 45 e il 96 d. C. L'episodio, a cui dà luogo l'incontro di essa con i nostri pellegrini, bello per se medesimo, acquista colore e calore nuovi, visto alla luce dell'idea che andiamo esponendo.
L'autore della Tebaide è evidentemente concepito quasi continuazione e compimento dell'autore dell'Eneide. È, spiritualmente, un figliuolo che, procedendo stretto sulle orme del padre, lo svolge e lo mena a quel grado di perfezione a cui, più o meno consapevolmente, aspirava. Per influsso e merito di Virgilio Stazio fu poeta, e per influsso e merito di Virgilio si convertì al cristianesimo. Mi chiedi, egli dice al maestro, chi mi dette il lume per entrare nella fede sincera; e io ti rispondo: Non altri che tu. «Per te poeta fui, per te cristiano» . Tu prima m'insegnanti l'arte delle muse, poi mi desti la spinta alla conversione con l’ecloga IV, dove dài l’annunzio di un secolo nuovo, canti il ritorno della giustizia e ella pietà e una nuova progenie scendente dal cielo. Dopo Dio, il conforto a battezzarmi mi venne da queste tue parole, perché vidi che dicevano quel medesimo dei nuovi predicatori.

Facesti come quei che va di notte,
che porta il lume dietro e sé non giova,
ma dopo sé fa le persone dotte.
Purg. XXII, 67.

Momenti di poesia così grandi sono rari: in una semplice figurazione quanta storia, quanta verità e quanto sentimento! Ma anche quanta tristezza; chè Stazio è salvo, e il vate che lo ha disposto aiutato e deciso alla conversione, sta a sospirare in un eterno esilio dalla patria che sola è vera. La mente può anche umiliarsi a credere che così sia giusto, ma il senso morale ne rimane turbato. Il destino di Virgilio più che altrove ci mette nell'animo una inquietudine, da cui è difficile liberarsi, pensando che proprio lui, il savio gentile il quale ha aperto la via della luce a Stazio e la riapre a Dante, è destinato a scomparire fra le tenebre del primo cerchio d'infermo. Non è ammissibile. Alla sorte di Virgilio ci si rassegnava male prima; dopo l'incontro con Stazio non ci si rassegna più.
Ma avanti di allontanarci dalla quinta cornice sarà opportuno ripensare un poco al modo con cui si è iniziato il dialogo fra i due antichi. L'appiglio al discorso l'ha dato il terremoto, rispetto al quale Virgilio vede poco chiaro, e perciò non arde meno di Dante del desiderio di saperne la ragione. Tanto è vero che, detto di sè quanto era necessario ad appagare la giusta maraviglia di Stazio, si affretta a domandare:

perché lai crolli
dié dianzi il monte, e perché tutti ad una
parver gridare infine ai suoi pié molli.
Purg. XXI, 34.

L'anima, felice di fornirgliene un'ampia spiegazione, entra nei particolari di tempo e di modo con cui avviene quel commovimento di tutta la montagna. - Avviene in un momento sacro, quando non amiamo più di stare alla pena, ma sentiamo nascer dentro all'improvviso «Iibera volontà di miglior soglia», per cui ci leviamo e cominciamo la nostra ascensione verso il paradiso . - Così il poeta della Tebaide prima ancora di sapere che chi lo interroga il desiderio di mutar sede lo concepisce bensì a ogni istante, ma avverte dentro sè qualcosa che gli vieta di trasformarlo in vera e propria volontà, quella tenebra che «col non poder Ia voglia intriga». Talchè, considerando bene, do stato delle anime del Limbo somiglia assai a quello delle anime del Purgatorio. Le une e le altre provano un continuo desiderio dr cambiar sede ; ma queste sono contente anche nel fuoco, perché sicure di ascendere, «quando che sia, a le beate genti», e aspettano il momento in cui il desiderio diventerà «libera volontà», ossia vera e propria volontà; quelle non sanno se tal momento verrà, ma vivono sospese tra il desiderio e la nessuna speranza che si avveri. Se lo sapessero, tra il Limbo e il Purgatorio ci sarebbero solo queste differenze: che in quello il desiderio è intermettente, nasce e muore quasi di continuo, combattuto com'è dalla tenebra; in questo nasce e muore col nascere e il morire del giorno; nel primo, essendoci spiriti che non hanno peccato, la pena è solo spirituale; nel secondo anche di senso. Con la sua spiegazione il cantore di Tebe, senza saperlo, compie l’insegnamento avviato da Sordello poco prima di scendere nella valletta dei principi, quando fregò il dito in terra e disse al suo grande cittadino:

Vedi? sola questa riga
non varcheresti dopo il sol partito.
Purg. VII, 52.

E il sole non ci vuole uno sforzo a capire che rappresenta la grazia necessaria a compiere opere meritorie. Stazio dichiara che la grazia ultima, quella che lo chiama al paradiso, viene solo allorché la purgazione è finita. Verrà anche per Virgilio?
Un'altra cosa ce lo fa ritenere più che probabile. Non appena il poeta di Napoli - Dante lo credeva nato a Tolosa - ha soddisfatto alle domande del maestro, e questi non ha più altro da chiedergli, ecco che il primo manifesta il bisogno di aver notizie di coloro che ebbero compagni nel culto della poesia:

dimmi dov'è Terenzio nostro antico,
Cecilio e Plauto e Vario, se lo sai:
dimmi se son dannati, ed in qual vico.
Purg. XXII, 97.

È preoccupato naturalmente dalla loro sorte. E Virgilio lo contenta, rassicurandolo che essi e molli altri, di cui fa il nome, sono tutti nel Limbo con Omero, «con quel greco - che le Muse Iattar più ch'altro mai». Raccontando la visita fatta a quel cerchio, il Poeta s'era data premura di ricordar quanti poteva di quei grandi, ma aveva dovuto con rammarico tacer di tanti altri; «Io non posso ritrar di tutti a pieno» ; se non che, la enumerazione, interrotta nel IV dell'Inferno ecco che si ripiglia nel XII della seconda cantica, in maniera che l'una si richiami all'altra per avere il suo compimento, e i due luoghi di pena siano legati fra loro come da un filo invisibile, attraverso il quale gli abitatori dell'uno mandino a quelli dell'altro il proprio sospiro. I due mondi non solo somigliano, ma, direi quasi, si cercano, come sentissero l'affinità della legge che li governa.

15. Sezione 15

E ora trasferiamoci con il Poeta al cielo dii Giove. Gli spiriti, apparsi a incontrarlo in quel pianeta prima si dispongono in forma di lettere che, messe insieme, dicono: Diligite justitiam qui iudicatis terram; poi rimangono qualche tempo fermi nella emme di terram, su cui altre anime, scendendo dall'alto, si fermano a guisa di corona; infine, in perfetto accordo, cantando, fanno tutte insieme un magnifico volo e, «quietata ciascuna in suo loco» si compongono in figura di aquila. Dante ha voluto gustare la gioia di contemplare sul fondo argenteo di Giove dipinta in color d'oro l'iniziale della tanto vagheggiata Monarchia, ordinata da Dio a vivere sotto il sacrosanto segno di Roma, simbolo venerato e venerando della giustizia. Se, giunto là, dove questa vive non solo in idea ma nella realtà più concreta, egli non ottiene di risolvere il problema, intorno al quale da lunghissimi anni si affatica invano, può anche rinunziare a vederlo mai risoluto. Quell'aquila, intessuta di migliaia di anime che cantano ciascuna in sua nota e rendono un'armonia ineffabile, parlano, e di tante parole n'esce una voce sola, è proprio essa la ministra di quella giustizia, che, relegando nel Limbo le anime dei giusti morti senza battesimo, gli ha messo dentro la puntura di un implacabile assillo. Senza dunque aspettare, come fa sempre, l'assenso di Beatrice, appena l’aquila ha finito, egli comincia:

O perpetui fiori
de l'eterna letizia, che pur uno
parer mi fate tutti vostri odori,

solvetemi, spirando, il gran digiuno
che lungamente m'ha tenuto in fame,
non trovandogli in terra cibo alcuno.
Par. XIX, 22.

Voi sapete qual è, soggiunge, e sapete con qual ansia mi apparecchio ad ascoltarvi; perciò, per udirvi più presto, non lo dico. Non so chi altri abbia rappresentato con immagini e suoni più potenti il bisogno di conoscere.
Ma: - Ohi sei tu, risponde d'aquila, che con una vista tanto miope, qual è quella della mente umana, pretendi scandagliare gli arcani divini? Dio non poteva creare un mondo infinito - due infiniti sono inconcepibili -; per cui, anche avesse voluto, non avrebbe potuto dare alla vostra intelligenza la capacità di adeguare il suo pensiero. Qual maraviglia allora che voi non possiate vedere, se non in piccolissima parte, le ragioni divine? Presso alla riva l'occhio distingue il fondo del mare; in alto, non lo vede più: concluderete perciò che il fondo non ci sia? Dio è volontà assoluta di bene e non può a nessun patto volere l'ingiustizia. Se ha stabilito che a questo regno non salga mai nessuno il quale non abbia creduto nel Cristo venturo o nel Cristo venuto, vuol dire che così è giusto .
La risposta dell'aquila è d'una -logica stringente che non concede nulla; anzi ribadisce il dogma in tutta la sua rigidezza. Con che animo Dante l'abbia accolta, il Poeta non Io descrive. Con umiltà di credente, senza dubbio, ma d'un credente che si senta ferire in una delle sue speranze più vive. Se non che l'aquila continuando ripiglia: - Vedi; molti i quali gridano Cristo, Cristo, il giorno del giudizio finale saranno più lontani da Lui di tanti altri che non lo hanno mai conosciuto. Saperne il nome e invocarlo non basta: si salva chi fa la volontà del Padre celeste. È sentenza di Gesù ; e l’aquila in un impeto di sdegno l'applica ai re sedenti sui troni d'Europa, scendendo sui loro misfatti terribile come folgore. Poi, giacché il trattenersi con questo suo eroico amatore le giova, ricomincia. - Ora guarda alle anime che mi scintillano nell'occhio; sono le più giuste dell’ordine a cui appartennero: David, che mi fa da pupilla, Traiano imperatore, Ezechia re di Giuda, Costantino imperatore, Guglielmo II re di Sicilia e Rifeo troiano .
All'udire i nomi di Traiano e di Rifeo, due pagani autentici, vissuti, l’uno tra il primo e il secondo secolo dopo Cristo, l'altro circa dieci secoli avanti la sua venuta, Dante, non credendo quasi a se stesso, non può tenersi dall’esclamare: Che è mai ciò che ascolto? . - Ma l'aquila, che si aspettava alla sorpresa del Poeta, gode dello stupore che gli si dipinge nel volto, e corruscando e facendo grandi foste, gli spiega per quali vie misteriose Dio redense que’ due. Traiano deve la sua salvezza alle preghiere e alle lagrime di papa Gregorio, a cui parve inammissibile andasse perduta l'anima di colui, che per render giustizia a una povera vedovella, si ferma e fa fermare tutto il suo seguito nel punto ch'è già mosso per la guerra contro i Parti . Ma chi ha mai pregato per Rifeo? - Nessuno. È un semplice nome il suo, che si legge due volte appena nel II libro dell’Eneide e poi scompare. «Cadde pure Rifeo che fra tutti era il più giusto e il più osservante dell'equità . Ma se fu uomo di tanta virtù, non sarebbe stato più conforme a giustizia che fosse uscito illeso dalla ruina di Ilio? In cuor suo lo stesso mormora Virgilio; ma sa che la vita è piena di misteri e conclude: Dis aliter visum; agli Dei piacque altrimenti, facendo rientrare la morte dì Rifeo nella legge arcana che immola le vittime più pure alla nascita delle nuove grandi ere. Conveniva che nella sua ora suprema Troia fosse bagnata dal sangue del cittadino più giusto che ci fosse per meritare che dalle sue mura uscisse il gentil seme di Roma, destinata a diventare la maestra della giustizia agli uomini.
Sta bene, sì osserverà: il pensiero di Dante ha delle armonie mirabili. Ma l'aquila non aveva cominciato riaffermando solennemente la inflessibilità della giustizia che condanna i non credenti in Cristo? Come dunque il Poeta si fa lecito di assumere nella gloria del paradiso due che non ebbero fede? - Per questa ragione, risponde il segno dell'aquila, che Traiano era morto, e san Gregorio gli ottenne di tornare al mondo, credere, battezzarsi e ascender là dove lo vedete; e Rifeo per il suo grande amor-e alla giustizia ebbe la rivelazione della redenzione futura, credette in essa, e le tre virtù teologali di cui si si rivestì gli tennero luogo di battesimo .
Consultate i teologi e vi persuaderete che una simile forma di battesimo non l'ha inventata Dante ; egli ha avuto il merito di applicarla alla soluzione del suo dubbio tormentoso. Ma le difficoltà da rimuovere non finivano qui. Le anime del Limbo, si sarebbe potuto obiettare, sono ormai giudicate; nella città dolente c'è un quartiere apposta riservato a loro, ed è inutile appigliarsi al fatto che quelle dei patriarchi ne sono uscite, per dimostrare che la conclusione della scritta monta può soffrire eccezioni. Abramo e gli altri credettero nel Grato venturo, e rientrano quindi nella legge comune, gli spiriti magni e quanti sono a sospirare nel primo cerchio infernale non ebbero tal fede e devono rassegnarsi a rimanervi eternalmente. - No, «Minos me non lega» , dichiara il dolce padre al custode del Purgatorio, insospettito che que' due non abbiano rotte le leggi dell'abisso - che equivale a dire il giudizio divino essere intorno a loro sospeso, non essendo ancora detto che appartengano alla categoria dei veri morti. - Ma che Traiano fosse risuscitato, opporrà un altro, lo racconta una leggenda, e in una quistione di tanta importanza male ha fatto il Poeta a darle tanto peso - È vero, rispondo; ma una leggenda a cui ha creduto un santo, come Giovanni il Damasceno che era pure un gran teologo, e san Tommaso d'Aquino, teologo più grande di lui e d'una potenza dialettica che non teme paragoni . - E sia, si potrà finalmente notare; ma per Virgilio non prega nessun santo. - Per Virgilio prega Beatrice, e ha pregato Dante – con quanta fede e con quanta passione spero di averlo chiarito -; e per Virgilio, e non per lui solo, d esorta implicitamente a pregare la stessa aquila, ossia il più grande e autorevole consesso dei giusti di Paradiso. Allorché, riferendosi a una sentenza sonata sulle labbra divine di Gesù, afferma che la volontà di Dio ama d'esser vinta, e può esser vinta «da caldo amore e da viva speranza», essa c'invita a far forza al Cielo. «Regnum coelorum violenza pate» , e i violenti lo conquistano.
Ma noi, uomini dì poca fede, diciamo di credere, e in realtà non crediamo nella bontà infinita, la quale ha voluto che gli spiriti giusti dei morti senza battesimo siano li, nel primo cerchio, né dentro né fuori dell'Inferno, né salvi né dannati, ma sospesi. Per qual altro fine, se non per questo che sì preghi per loro in modo da piegarla e quasi sforzarla a liberali da quel carcere per dischiudere poi anche a essi le porte della beatitudine a cui sospirano?

16. Sezione 16

Così, fra dubbi e incertezze, smarrimenti e speranze, ora cadenti e ora risorgenti, conciliando l'ossequio al dogma con le sue ansie umanissime, Dante è giunto alla fine a risolvere il suo problema più penoso, additando alla nostra pietà i padri gloriosi, e incuorandoci a soccorrerli nel loro desiderio con una delle parole grandi del Vangelo. La fede non ha motivo alcuno di lagnanza; si allieta anzi di non contrastare a uno dei sentimenti più puri del genere umano; né motivi di rimpianto ha la poesia. Avvertito dal suo squisitissimo senso di artista, Dante prima c'interessa alla sorte di Virgilio, che è la creazione forse più umana della Commedia, mettendoci in cuore il suo stesso tormento, e poi, solamente verso la fine, mostra come e da chi si può aprire il carcere malinconico in cui è relegato il suo e nostro dolcissimo padre.
La fede non ha creato nessun dissidio nello spirito del Poeta, e la Commedia non ne soffre né punto né poco. La tesi del Rossi, sebbene sostenuta con grande apparato di filosofia, non regge. Perché la mente umana è finita non ne segue, almeno per Dante e per quanti non professano le dottrine idealiste, che essa sia un disvalore, incapace di mettere l'anelito della vita e destinato a precipitar nell'abisso del nulla. Per non correre ad affermarlo bastava riflettere che Traiano e Rifeo, soltanto perché giusti, erano stati dal Poeta assunti già nella gloria del cielo.
Il libro quindi, dal quale abbiamo preso le mosse, ricco d'altra parte di notazioni estetiche finissime e di molte felici osservazioni, non segna, come il Croce vorrebbe, «un momento risolutivo della critica dantesca». E nemmeno risponde a verità quanto questi scrive nel Fascicolo della Critica del 20 settembre scorso che «col metodo del Rossi si redime veramente la poesia di Dante, liberandola, come già era stato fatto per l'asservimento alla ricerca delle allegorie e dei modi d'intendere le costruzioni dei tre regni e dei rispettivi sistemi di pene e di premi, dall'altra servitù dell'astratta filologia, la quale tende a sostituire alla parola, che bisogna cogliere viva nel suo collocamento e nel suo ritmo, i morti vocaboli dei cimiteri, ossia dei dizionari storici della lingua». Con il metodo del Rossi, diciamo noi, non si redime nulla, perché la poesia di Dante non si finisce di capite, e perfino negli episodi di Francesca e di Ulisse e nello stesso Virgilio si scoprono delle parti morte che non ci sono. È indiscutibile che la poesia non domanda d'esser veduta al lume dell'astratta filologia, ma neppure a quello dell'astratta filosofia, in quanto presume di aver detta l'ultima parola sopra un'opera d'arte prima ancora che sia stata pienamente intesa.

Date: 2021-12-25