Strategia d’autore: il salmo CXIII e la polisemia [Gian Roberto Sarolli]

Dati bibliografici

Autore: Gian Roberto Sarolli

Tratto da: Prolegomena alla Divina Commedia

Editore: Leo S. Olschki, Firenze

Anno: 1971

Pagine: 40-54

Nelle pagine precedenti s'è visto come Dante impiegasse, con la distinzione (ed uso qui il termine nella sua definizione canonica di distinctio, che il Poeta del resto ben conosce e tradizionalmente impiega nell'originario modulo retorico e in quello derivato retorico-scolastico dell'esegesi biblica) delle due allegorie, quella dei poeti cioè contro quella dei teologi, una problematica scelta di exempla da considerare norma epistemologica ed esegetica insieme. E s'è visto altresì come complicata per consequens e quasi contraddittoria diventasse la definizione del senso letterale nelle lezioni degli editori, e proprio a partire dai più antichi, come più avanti si vedrà, quando chiamati a colmare una delle più vexatae lacunae che si conoscano (Conv. II, i, 3), per colpa di quello «archetipo alquanto malconcio», per ripetere col Folena a cui risalirebbe tutta la tradizione diretta, e senza il soccorso cdi una tradizione indiretta a causa della tarda diffusione dell'originale. Né poteva essere altrimenti di fronte alla necessità di ricorrere alla sola integrazione congetturale, alla sola esegesi dunque non confortata dalla prova testuale. Di questa situazione allo stato fluido, è prova sub judice il diverso e contraddittorio supplemento offerto dai vari editori, fermi ovviamente di fronte a quella successione dei sensi già da noi definita «dimorfa e dinamicamente reversibile» in quanto giocata insieme e sulla tradizione dei grammatici - allegoria dei poeti - e su quella dei teologi - allegoria dei teologi ; fluidità ed incertezza determinate dalla presenza degli ulteriori sensi, quello tropologico e quello anagogico, illustrati dagli exempla tratti dalle Scritture mescidate, dai Vangeli (Matth. XVII, 1-8; Mare. IX, 1-7; Luc. IX, 28-36), il primo - menzionato in Conv. II, i, 5 («... sì come appostare si può ne lo Evangelio, quando Cristo salio lo monte per trasfigurarsi, che de li dodici Apostoli menò seco li tre; in che moralmente si può intendere che a le secretissime cose noi dovemo avere poca compagnia» ), ma ripetuto citando la fonte evangelica nell'Epistola a Cangrande XIII, 80 («Et hoc est insinuatum nobis in Matheo, ubi tres discipuli ceciderunt in faciem suam, nihil postea recitantes, quasi obliti»), e da considerare forse altra prova dell'autenticità dell'Epistola - e dal Salmo CXIII, il secondo: quello stesso Salmo che da solo nell'Epistola a Cangrande diventerà ragion sufficiente, offrendo inequivocabilmente e strategicamente, come si vedrà, la successione dei sensi e la ferrea regola ermeneutica.
Prima però di iniziare la discussione dei vari problemi sollecitati dall'Epistola, che sono del resto quelli che più c'interessano direttamente, sia dato di tornare ancora una volta sulla lacuna e tutto il cap. I di Convivio II, riconsiderando le proposte esegetiche degli editori fino alla Simonelli , in attesa che veda finalmente la luce per le prove testuali quello di Brambilla Ageno che dalle prime indiscrezioni sembra foriero di grosse novità.

La lacuna dell'autografo, collazionando col Moore e con il Pernicone , può essere esemplata così:

L'uno si chiama Litterale, e questo è quello...
...che si nasconde sotto 'l manto di queste favole,
ed è una veritade ascosa sotto bella menzogna...,

ed è lettura tramandata da tutta la tradizione manoscritta con l'eccezione dei due Mss, già segnalati, e piii precisamente il Riccardiano 1044 (R 4), adottato dal Fraticelli e dagli Edd. milanesi fino al Della Torre, per l'edizione Barbera, e il Parigino della Nazionale, Ital. 536 (PN 1), notato dal Giuliani e adottato dal Moore , che offrono due lezioni parzialmente concordanti e risalenti ad un ipoarchetipo comune:

PN 1
L'uno si chiama litterale, e questo è quello che non si stende più oltre che la lettera propria

R 4
L'uno si chiama litterale, e questo è quello che non si distende più oltre che la lettera propria siccome è la narrazione propria di quella cosa che tu tratti: che per certo e appropriato esempio è la terza Canzone che tratta di Nobiltade.

È nota la critica del Moore al Fraticelli che aveva accettato troppo apoditticamente la lezione di R 4, critica articolata sull'assunzione che ci si trovi di fronte ad una glossa marginale integrata («all that follows after 'siccome' seems to be clearly a gloss»). E che sia una glossa lo si può capire - sempre per citare il Moore - per due ragioni, la prima perché «the addition is easily accounted for by the supposed need, on grounds of symmetry, that an example should be given of this method of interpretation as of the three later ones... but in fact no illustration is required to explain what is meant by the litteral sense», la seconda perché «the example given is not only superfluous, but it does not even correspond with the later one. It is not a definite 'example' at all, but a very vague and generai reference to a later portion of the treatise itself (p. 36)».
La secca smentita del maestro inglese - ribadita dal Barbi - (sulla quale però torneremo) eliminava da un lato R 4, mentre dall'altro permetteva al Moore d'accettare la lezione di PN 1, dal momento che quest'ultimo Ms supplica «the missing words in a perfectly natural and satisfactory manner, while the cause of their omission» - (un evidente caso di όμοιοτέυτον) - «is one that is obvious and generally familiar».
Ma gli editori del '21, a loro volta, trovando insufficiente la lezione di PN 1, tornavano ancora sull'integrazione di R 4 e sulla sua scìa integravano nel modo ben noto, che per comodità trascriviamo:

L'uno si chiama litterale,
e questo è quello che non si stende pii, oltre che la lettera de le parole fittizie, sì come sono le favole de li poeti. L'altro si chiama allegorico, e questo è quello che si nasconde... ;

integrazione rimasta immutata nell'edizione già citata del Busnelli-Vandelli, mentre il Casella , e la sua proposta è accettata anche dalla Simonelli «come la prima che soddisfi pienamente il lettore», ne preferisce una diversa tratta dallo stesso testo dantesco (Conv. II, xii, 10), che suona:

L'uno si chiama litterale,
e questo è quello che non va oltre a ciò che suona la parola fittizia, si come ne le favole de li poeti. L'altro si chiama allegorico,
e questo è quello che si nasconde...

La proposta del Casella, come si vede, rinunciava alla prudente riserva dimostrata dal Busnelli-Vandelli, i quali nell'Appendice I (Sopra i quattro sensi delle Scritture, pp. 240-42), come già s'è visto, ridiscutendo la lezione comune sia a R 4 che a PN 1, la dichiaravano tale «da poter appagare».
Tra le due lezioni, a volerne cercare l'aprioristico assunto, par d'appercepire le posizioni opposte sostenute da un lato dal Pézard, e cioè di non cercare «trop à améliorer un texte qui peut-ètre est plus fìdèle à Dante qu'il ne semble» , e dall'altro dal Parodi - e condivisa anche dal Pernicone -, e cioè di non rinunciare, per quanto si riferisca al Convivio, alla «bella gara di intuizione e di acume». E la «gara» sia sul piano esegetico che su quello testuale cominciò molto presto, come si sa, con gli inevitabili strascichi polemici tra i quali metterà conto di ricordare l'attacco del Nardi al D'Ovidio perché campioni delle opposte schiere, i sostenitori cioè integrali o parziali, impliciti od espliciti, dell’autenticità, o meno, dell’Epistola a Cangrande con i derivati riflessi confluenti per consequens sull'antitetico metro esegetico da usare nella lettura della Commedia .
Ma tornando alle congetture quali appaiono negli editori moderni e nell'antico - trascuriamo almeno per il momento, e in questa seme, il rapporto diretto o indiretto del copista meccanico con l'autore dell’inserto perché ci porterebbe troppo lontani, e perché memori e delle raccomandazioni del Pasquali -, ci sia dato, sia pur in sede esegetica per il momento, riproporre la sola lezione di PN 1 (già difesa dal Moore) come la più valida e vicina all'intenzione dell'autore, affermando che il senso letterale non ha bisogno di exemplum, e soprattutto facendo rilevare che con l'impiego del vocabolo tecnico (lettera) «propria» che non è stricto sensu sinonimo di «vera» - come sembra suggerire l'integramento dell'«acuto» anche se «poco prudente» correttore di R 4 - ci si trova di fronte ad una sottile distinzione grammaticale e dialettica, ad una lectio difficilior valida come si vedrà per la sua essenza ambivalente a sostenere gli exempla delle due allegorie biiugate e portate da un solo stelo. E questo lo si potrà meglio vedere accostando le tre lezioni più conseguenti e discutendone i passi paralleli su cui si fondano.
Si veda del resto (impiegando il corsivo per le congetture):

Casella
l'uno si chiama litterale, e questo è quello che non va oltre a ciò che suona la parola fittizia, si come ne le favole de li poeti
L'altro si chiama allegorico, e questo è quello…

Moore (PN 1)
L'uno si chiama litterale, e questo è quello che non si stende più oltre che la lettera propria
L’altro si chiama allegorico, e questo è quello…

Della Torre (R 4)
L'uno si chiama Litterale, e questo è quello che non si distende più oltre che la lettera propria siccome è la narrazione propria di quella cosa che tu tratti: che per certo e appropriato esempio è la terza Canzone che tratta di Nobiltade.
L’altro si chiama allegorico, e questo è quello…

Tanto il Casella quanto l'autore della glossa di R 4, nel congetturare i diversi exempla sono ricorsi all'impiego tradizionale (e che Dante stesso seguendo gli esegeti scritturali dimostra di conoscere ed applica) dei passi paralleli, ma con una differenza che vedremo fondamentale e determinante, e cioè il primo a Convivio II, xii, 8-10:

Per che io, sentendomi levare dal pensiero del primo amore a la virtù di questo, quasi maravigliandomi apersi la bocca nel parlare de la proposta canzone, mostrando la mia condizione sotto figura d'altre cose: però che de la donna di cu' io m'innamorava non era degna rima di volgare alcuna palesemente po[e]tare; nè li uditori erano tanto bene disposti, che avessero sì Ieggiere le [non] fttizie parole apprese; nè sarebbe data loro fede a la sentenza vera, come a la fittizia, però che di vero si credea del tutto che disposto fosse a quello amore, che non si credeva di questo. Cominciai dunque a dire: Voi che 'ntendendo il terzo ciel movete. E perché, sì come detto è, questa donna fu figlia di Dio, regina di tutto, nobilissima e bellissima Filosofia, è da vedere chi furono questo movitori, e questo terzo cielo. E prima del cielo, secondo l'ordine trapassato. E non è qui mestiere di procedere dividendo, e a littera esponendo; chè volta la parola fittizia di quello ch'ella suona in quello ch'ella 'ntende, per la passata sposizione questa sentenza fia sufficientemente palese;

il secondo a Convivio IV, i, 10-11:

E però che in questa canzone s'intese a rimedio così necessario, non era buono sotto alcuna figura parlare, ma convennesi per via tostana questa medicina, acciò che fosse tostana la sanitade, [dare]; la quale corrotta, a così laida morte si correa. Non sarà dunque mestiere ne la esposizione di costei alcuna allegoria aprire, ma solamente la sentenza secondo la lettera ragionare. Per mia donna intendo sempre quella che ne la precedente ragione è ragionata, cioè quella luce virtuosissima, Filosofia, li cui raggi fanno ne li fiori rifronzire e fruttificare la verace de li uomini nobiltade, de la quale trattare la proposta canzone pienamente intende.

A questi passi che sentiamo così profondamente diversi, come se tra Convivio II e IV si fosse aperta una voragine nel cuore del poeta e l'urgenza apertamente dichiarata con l'impiego di quella parola «rimedio» - che con non minore sofferto impegno ritroveremo nel Machiavelli - imponesse una rinuncia ai distesi e solo ornati colori retorici, e quindi all'allegoria dei poeti , aggiungeremo questi altri sempre di Convivio II, xv, 1-2:

Per le ragionate similitudini si può vedere chi sono questi movitori a cu'io parlo, che sono di quello movitori, sì come Boezio e Tullio, li quali con la dolcezza di loro sermone inviarono me, come è detto sopra, ne lo amore, cioè ne lo studio, di questa donna gentilissima Filosofia, con li raggi de la stella loro, la quale è la scrittura di quella: onde in ciascuna scienza la scrittura è stella piena di luce, la quale quella scienza dimostra. E, manifesto questo, vedere si può la vera sentenza del primo verso de la canzone proposta, per la esposizione fittizia e letterale. E per questa medesima esposizione si può lo secondo verso intendere sufficientemente, infine a quella parte dove dice: Questi mi [ace una donna guardare. Ove si vuol sapere che questa donna è la Filosofia; la quale veramente è donna piena di dolcezza, ornata d'onestade, mirabile di savere, gloriosa di libertade, sì come nel terzo trattato, dove la sua nobilitade si tratterrà, fia manifesto,

e infine sempre del cap. xv, 6., perché vi compare uno dei sensi - ma si noti attentamente la puntuale nomenclatura impiegata, non tropologico (sive moralis della Sacra Scrittura) ma moralitade, che implica ambivalenti esegesi - di cui il Poeta aveva promesso di toccare a tempo e a luogo (Conv. II, i, 15: «Io adunque, per queste ragioni, tuttavia sopra ciascuna canzone ragionerò prima la litterale sentenza, e appresso di quella ragionerò la sua allegoria, cioè la nascosa veritade; e talvolta de li altri sensi toccherò incidentemente, come a luogo e a tempo si converrà), e il corrispettivo exemplum :

Lo terzo verso ancora s'intende per la sposizione litterale infino là dove dice: l'anima piange. Qui si vuole bene attendere ad alcuna moralitade, la quale in queste parole si può notare: che non dee l'uomo, per maggiore amico, dimenticare li servigi ricevuti dal minore; ma se pur seguire si conviene l'uno e lasciar l'altro, lo migliore è da seguire, con alcuna onesta lamentanza l'altro abbandonando, ne la quale dà cagione, a quello che segue, di più amore.

Ugualmente non taceremo che la glossa di R 4 è formulata in modo tale da rivelare una conoscenza globale del testo e perfino là dove sembra tradire altra mano diversa da quella del Poeta, e precisamente nell'impiego del pronome personale «tu», sentiamo una tal quale consonanza con i molti «appelli a lettore» (gli Addresses to the Readers di spitzeriana ed auerbachiana memoria), di cui Dante farà largo uso nella Commedia, e quindi l'intervento cosciente di un espositore che sta spiegando un passaggio difficile - un caso acutissimo di usus describendi - e colma la lacuna con il rinvio, come s'è visto, al più idoneo degli exempla, la già citata «Canzone che tratta di Nobiltade», che per esser sottesa al senso allegorico, quello cioè «che si nasconde sotto 'l manto di queste favole», per tacita attrazione iscrive la Canzone stessa e il Convivio, in senso lato, e Dante all'allegoria dei poeti, in modo analogo del resto alla lezione del Casella che impiega specificatamente e globalmente «le favole de li poeti». Nell'un caso (Casella) e nell'altro (R 4), comunque, non s'arriverà mai basandosi su tali definizioni ed exempla del senso letterale al senso anagogico, a quel quarto senso cui Dante puntualmente accenna. S'arriverà invece e più facilmente a formulazioni dicotomiche del già citato tipo arnolfiano: «Modo quasdam allegorice, quasdam moraliter (exponam) et quasdam historice», che Dante conosce ed impiega disgiuntivamente (Conv. II, i, 15), completando con l’exemplum della «ingratitudine» l'allegoria dei poeti fino al terzo senso tropologico, ma con il ricorso al passo scritturale e al Salmo per completare l'allegoria dei teologi il cui sottese exemplum è incentrato nell'equazione tipologica Orfeo-Cristo, come già s'è ampiamente discusso.
Ma per poter far questo Dante doveva - e noi con lui – arrivare ad una padronanza globale dell'epistemologia e dell'ermeneutica dei sensi, fino a poter arrischiare, impiegando una tastiera a più registri, d'imbrogliare apparentemente la sua matassa tanto da far parlare di «pasticcetto» ed essere accusato di mancanza di chiarezza. Le difficoltà e lo sforzo di Dante si appuntano invece da un lato contro le limitazioni che San Tommaso ha posto ai poeti nelle Questiones Quodlibetales (VII, q. vi, a. 16):

Fictiones poeticae non sunt ad aliud ordinatae nisi ad signifìcandum; unde talis signifìcatio non supergreditur modum litteralis sensus,

(senso letterale da intendersi ormai sdoppiato - sistema bifario - in letterale e parabolico o metaforico e quindi allegorico - metafora = allegoria -) e contro la lunga tradizione dell'allegorica interpretatio concretatasi nella teoria della moralizzazione e quindi nel sistema trifario arnolfiano («Historia-Moralitas-Allegoria») o di Ugo da San Vittore («Historia-Allegoria-Tropologia»), ben diversi dal sistema quadrifario che risale, invece, a Beda il Venerabile. Su queste distinzioni capitali nel problema epistemologico, teologico e poetico dantesco e medievale in genere, lasceremo che ce ne chiarisca la portata teologica Alessandro di Hales. «Hugo» - scrive, nella già citata Summa, il Doctor irrefragabilis - «posuit tantum tres intellectus divinarum scripturarum. Beda vero, qui intellexit materiam divinarum scripturarum non solum opus reparationis immo etiam causam, addit anagogicum, qui quidem intellectus respicit causam» (I, q.i., a. 5).
Dal non aver appercepita questa fondamentale e sottile differenza, che insieme con la intentio auctoris deve essere alla base di ogni discussione sul problema dell'allegoria medievale e dantesca, son nati gli errori di molti dantisti, per non tacere dei medievalisti che s'ostinano a mescidare i sistemi. Dall'averla ben conosciuta e dall'aver tentato di superarla, con ogni mezzo, è scaturita la folgorante ispirazione, nel Poeta, e la necessità per consequens di scrivere in prima persona e di imporsi come «the most outstanding example of the poetic (and empirical or pragmatical)’ I' in medieval literature» , creando una dimensione nuova che troverà solo nella Commedia l'inimitata ed inimitabile perfezione, la simbiosi 'nunc e sub specie aeternitatis' dell'Autore-dramatis persona, complicata ulteriormente dalla «doppia natura del protagonista» .
È certe in questo e solo in questo «travaglio esplorativo e furore dell'esercizio» (Contini) che nel Convivio la distinzione delle due allegorie appare, e il senso allegorico dei teologi vien citato ma non offerto perché per analogia tipologica l'equazione Orfeo-Dante diventerebbe Orfeo-Dante-Cristo, di qui la ragione del seguire nel Convivio «il modo dei poeti» e la loro allegoria. Tale equazione analogico-tipologica Orfeo-Dante-Cristo non apparirà nella Commedia, dove invece come più avanti si vedrà emergeranno le nuove figurae del Profeta-scriba da un lato e dell'Imperatore-typus Christi dall'altro.
Con questo in mente, e tornando al problema dei sensi e alla loro definizione e distribuzione nel testo del Poeta, ferma restando la necessità di definire il senso letterale con una lezione ambivalente e cioè valida per le due allegorie, ci pare che il testo di PN 1, in cui compare quella che noi crediamo la lectio difficilior «propria», spartiacque diremmo della intentio auctoris, sia il solo da riproporre con il Moore come il più vicino all'intenzione del Poeta, e quindi disporre gli altri sensi seguiti dal rispettivo exemplum in un grafico cosi disegnato:

[…]

Come si può facilmente vedere solo con questa lezione il senso letterale può essere concepito ambivalente - ed anche il Poeta sottilmente ed ambiguamente aveva parlato di «scrittura» - e diventare vertiente tra le due allegorie, e cioè tra le due scritture, quella umana e quella divina, quando s'aggiunga come già s'è visto il reagente della Fede. E a ciò aggiungasi che anche in questo Dante ha presente la lezione di San Tommaso, che aveva negato ai poeti e alla poesia umana la possibilità di chiamare in causa quei quattro sensi che sono solo precipui della poesia divina, e alla questione «Utrum in aliis scripturis praedicti sensus [quatuor] distingui debeant», così aveva risposto:

Spiritualis sensus sacrae Scripturae acdpitur ex hoc quod res cursum suum peragentes signifìcant aliquid aliud, quod per spiritualem sensum accipitur. Sic autem ordinantur res in cursu suo, ut ex eis talis sensus possit accipi, quod ejus solius est qui sua providentia res gubernat, qui solus Deus est. Sicut enim homo potest adhibere ad aliquid significandum aliquas voces vel aliquas similitudines fictas, ita Deus adhibet ad significationem aliquarum ipsum cursum rerum suae providentiae subjectarum. Significare autem aliquid per verba vel per similitudines fictas ad significandum tantum ordinatas, non facit nisi sensum litteralem, ut ex dictis patet. Unde in nulla scientia, humana industria inventa, proprie loquendo, potest inveniri nisi litteralis sensus; sed solum in ista Scriptura, cujus Spiritus sanctus est auctor, homo vero instrumentum, secundum illud Psalm. 44.2: Lingua mea calamus scribae velociter scribentis (nostri i corsivi),

separando con taglio ben netto le Scritture, e accreditando i quattro sensi alla sola Scrittura Sacra della quale Autore è lo Spirito Santo e l'uomo lo scriba, allegando quale exemplum il secondo versetto del Salmo LIV: «Eructavit cor meum verbum bonum», salmo di lode a Cristo per eccellenza, «Psalmus... in quo cantantur laudes Christo, a quo est omnis victoria» .
Il conflitto tra le due Scritture, e la ragione dello iato evidente tra i primi tre Trattati del Convivio e il IV, prima, e l'abbandono del Convivio stesso poi, sarà da constatare e da ritrovare nella Commedia, e precisamente nel canto II di Purgatorio dove dicotomicamente divisi e direi contrapposti appariranno proprio da un lato la Canzone II di Convivio, «Amor che ne la mente mi ragiona» e il Salmo CXIII, «In exitu Israel de Aegypto», dall'altro.
Si veda a fronte, del resto:

Da poppa stava il celestial nocchiero,
tal che parea beato per iscripto;
e più di cento spirti entro sediero.

'In exitu Israel de Egypto'
cantavan tutti insieme ad una voce
con quanto di quel salmo è poscia scripto.

Poi fece il segno lor di santa croce;
ond'ei si gittar tutti in su la piaggia:
ed el sen gì, come venne, veloce.
(Purg. II, vv. 43-51)

E io: «Se nuova legge non ti toglie
memoria o uso a l'amoroso canto,
che mi solea quetar tutte mie voglie,

di ciò ti piaccia consolare alquanto
l'anima mia, che, con la mia persona
venendo qui, è affannata tanto!»

Amor che ne la mente mi ragiona
cominciò elli allor sì dolcemente,
che la dolcezza ancor dentro mi suona.

Lo mio maestro e io e quella genete
ch'eran con lui parevan sì contenti,
come a nessun toccasse altro la mente.

Noi eravam tutti fissi e attenti
a le sue note; ed ecco il veglio onesto
gridando: «Che è ciò, spiriti lenti?

qual negligenza, quale stare è questo?
correte al monte a spogliarvi Io scoglio
ch'esser non lascia a voi Dio manifesto».
(Purg. II, vv. 106-123).

E dove perfino, insieme all'antitesi già fatta rilevare, apparirà anche il verso ben allusivo e tecnico - «correte al monte a spogliarvi lo scoglio» - che interpretato soltanto in senso restrittivo dai commentatori, nel senso cioè di «scoria dei peccati» (Scartazzini), in senso più lato significherà spogliarsi dello «amor temporalium», correndo al monte della Scrittura, la sola che possa rendere Dio manifesto per mezzo dello «amor caelestium». Ed a riprova, allargando i riferimenti alla tradizione esegetica, valgano questi due esempi. Un primo specifico per il termine tecnico «spogliare» e «scoglio», che vale qui «cortex», al manuale teologico-lessicografico più volte citato di Alano da Lilla :

Cortex... Dicitur litteralis sensus, unde in Job: Qui manducabant herbas et arborum cortices: cortices arborum comedunt, qui in sacris voluminibus solam litterae superficiem venerantur, nec quidquid de spirituali intellectu custodiunt, cum nihil in verbis Dei amplius, uhi hoc quod est exterius audierunt, esse suspicantur...
Spoliare proprie. Liberare, unde in Canticis: Spoliauerunt me tunica mea. Tunica dicuntur temporalia, seu amor temporalium a quo sanctis praedisateres liberant fidelem populum...;

un secondo più generico, al commento ai Salmi di Riccardo da San Vittore ove però, insieme con i termini tecnici già sottolineati, compare anche la nozione interdipendente della contemplazione come stato proprio dei Beati:

Contemplativi... veritatem sine involucro vident in sua simplicitate, sine speculo et absque aenigmate... In montium morem, allegoriarum et aenigmatum nubilosa alta intelligentia transcendendo tranquillum illud supremae regionis serenum montis vertice tangunt.

I problemi relativi, dunque, al conflitto e addirittura all'antitesi tra il Convivio e la Divina Commedia denunciati nell'episodio citato in maniera così clamorosa, diventano molteplici. Essi non coinvolgono soltanto difficoltà d'ordine teologico, esegetico e poetico, quali si possono desumere dall'opposizione dei sistemi triforio e quadrifario (quest'ultimo, poi, complicato dalla stessa differenza interna già illustrata), ma anche, nel conflitto poetico e teleologico tra la personificazione della Filosofia consolatrice (e sia paradigmatico il riferimento dantesco nello stesso Convivio proprio al De Consolatione boeziano) e la storicità di Beatrice, typus o figura per analogia, come si vedrà dettagliatamente nel cap. VI, non Christi ma Trinitatis e precisamente dello Spirito Santo, cioè del Paracleto, unico vero Consolatore del Cristiano.

Date: 2021-12-25