Realismo e allegorismo [Daniele Mattalia]

Dati bibliografici

Autore: Daniele Mattalia

Tratto da: La critica dantesca

Editore: La Nuova Italia, Firenze

Anno: 1950

Pagine: 57-93

Nella storia degli studi danteschi la questione esegetica della Vita Nuova e, in parte, delle Rime è tradizionalmente configurata nella forma del seguente dilemma: interpretazione realistica o interpretazione allegorica? Il termine allegorico, per ragioni di comodo, non è qui usato secondo la rigorosa accezione fissata da Dante nel noto passo del Convivio (II, 1) sui quattro sensi delle scritture, ma in un significato più generico, a indicare la tendenza a innestare un sovrasenso, di qualunque genere esso sia, sulla «litterale sentenzia».
Realismo e allegorismo, per certi aspetti così nettamente differenziati ed opposti, concordano in un punto essenziale: ambedue si rifiutano di consistere unicamente sulla «lettera» ritenendo necessario, per una sua esatta e compiuta illustrazione, trasferirsi al di qua o al di là di essa.
Scopo del realismo è di tracciare un nesso tra mondo storico e mondo poetico, ricercando in fatti e passioni e vicende della vita di Dante la causa prima della formazione dei miti della sua poesia, restituendo per così dire le ombre ai loro corpi, il sovramondo della poesia al mondo della storia. Per l'interprete realista la parola poetica sarà compiutamente chiara quando ne sia individuato lo stimolo pratico o psicologico, e questo collocato nel tempo e nello spazio e, se possibile, ancorato a un fatto 0 a una persona; per l’allegorista invece il segno poetico si completa e chiarisce solo nel suo prolungamento allusivo. L'esigenza storicistica e psicologica differenzia nettamente il realismo degli interpreti moderni da quello degli antichi e ne fa un riconoscibile figlio del Romanticismo e dell’erudizione storica notoriamente insofferente, quest’ultima, delle ombre cui essa non possa ridonare consistenza di corpi; ma gusto e colorito romantici di carattere particolare si possono rilevare anche nell’allegorismo più moderno (ad es. il gusto del «mistero» criptografico e concettuale) che i suoi maggiori assertori ha trovato nell’Ottocento romantico, e anche, nel Novecento (Rossetti, Aroux, Perez, Pascoli, Valli).
Pur implicando determinati princìpi e subendo più o meno direttamente l’influsso dell’orientamento generale del gusto e delle dottrine estetiche (si comprende agevolmente. ad es. perché l’esoterismo medievalizzante e le fascinazioni arcane dell’allegorismo piacessero a certo gusto romantico), di fatto né il realismo né l’allegorismo si possono considerare come due vere e proprie scuole critiche teoreticamente fondate su una propria e rigorosa dottrina dell’arte. Se di scuole si vuol parlare, si precisi trattarsi di due scuole a finalità esegetica, rivolte cioè alla esatta determinazione e illustrazione del carattere e del procedimento di un’opera dantesca, quale può essere la Vita Nuova, o di un episodio, quale quello della «donna gentile» nel sopradetto libello; o di una lirica o di un gruppo di liriche, quali le liriche per la «Pargoletta» o per la «Donna-Pietra».
E perciò è inutile discorrere in astratto della maggiore o minore validità e modernità di una tendenza nei confronti dell’altra, poiché la ragionata propensione per l’interpretazione allegorica non significa di per sé una ricaduta nel concettualismo dell’Estetica medievale; e d’altra. parte l’opposizione tra le due scuole non è più assoluta e totale, e non concerne comunque la totalità della lirica dantesca, la cui interpretazione allegorica comporterebbe uno sforzo non meno acrobaticamente macchinoso che suspiciosamente arbitrario.
Spiegare, chiarire, illustrare: questo lo scopo, perseguito per vie diverse, dalle due scuole esegetiche, ognuna delle quali, con maggiore o minore elasticità e rigidezza, tende all’imposizione del proprio canone. Ma dove e come fermare le ragioni della maggiore validità di un canone nei confronti dell’altro? Poiché l’applicazione di un canone presuppone il possesso di una certezza che in molti, se non si vuol dire nella maggior parte dei casi, si è ben lontani dal possedere. Come infatti applicare il canone d’interpretazione realistica senza possedere l’assoluta certezza che ogni sovrastruttura allegorica è esclusa? Il chiarimento esegetico è sì un antefatto, una preparazione del giudizio critico, come l’atto del capire prepara e condiziona quello del giudicare; nella pratica tuttavia i vari momenti dell’indagine critica non sono sempre così nettamente differenziati sì che il critico, eccettuati i casi positivamente documentabili, non può limitarsi ad accettare il chiarimento esegetico come un puro e semplice e materiale antefatto, l’applicazione di un canone piuttosto che dell’altro comportando in certi casi conseguenze e inducendo a conclusioni davanti alle quali il critico non può rimanere indifferente. Chiariremo con un esempio.
Il famoso gruppo di liriche correntemente chiamate «pietrose» può essere interpretato realisticamente, e cioè inteso per quello che esso letteralmente appare: come manifestazione, in violenza di passione e di tecnica artistiche, di una tempestosa passione amorosa o, secondo altri, furiosamente sensuale; oppure, applicando il canone allegorico, inserito simbolicamente come momento di una vicenda di passione intellettuale o, secondo qualche interprete, politica.
Mancando la possibilità di documentare positivamente l’una e l’altra tesi, il critico può, come del resto è costretto a fare, lasciare sub iudice la questione esegetica così impostata, e attenersi al quia delle «pietrose» stesse: ch'è un trionfale e orgoglioso spiegamento di mezzi artistici dettato da una passione sulla quale non è possibile equivocare: la passione dell’arte; ma il processo genetico delle « pietrose » nell’interpretazione realistica si configura in termini opposti rispetto all’interpretazione allegorica. Nel primo caso la bruta torbida e tumultuante materiazione passionale investirebbe direttamente e governerebbe il tono e la forma delle « pietrose» che verrebbero a rappresentare il momento più esasperatamente romantico nella storia della lirica dantesca; nel secondo, la passione intellettuale sarebbe invece trascritta «sotto figura» in calcolata e dominata violenza di modi e di toni tecnici e psicologici, e la passionalità, nel senso romantico del termine, creativamente suggerita dal tono e dalla forma. Il critico, abbiam detto, può attenersi al quia, all’autosufficienza estetica della «lettera» delle «pietrose», astenendosi per il resto da affermazioni troppo dogmatiche, ma è chiaro che qui sono in gioco princìpi e conclusioni sui quali egli è impegnato a pronunziarsi.
L’esasperante impossibilità, ben nota agli studiosi, di una soluzione positiva di innumerevoli problemi esegetici concernenti la Vita Nuova e le Rime di Dante rende viziosa la situazione ed estremamente delicati i rapporti tra esegesi propriamente detta e giudizio critico, tanto che assai spesso non il canone prepara il giudizio, ma l’applicazione di un canone a preferenza dell’altro si risolve, in ultima analisi, in una questione di discrezione critica.
Non esiste infatti una misura obbiettiva con cui valutare vantaggi e svantaggi e la legittimità corrispettiva del realismo e dell’allegorismo, e ogni tentativo di fissare una dottrina generale delle due tendenze sarebbe arbitrario e infecondo. Gioverà invece prendere atto, in sede storica e critica, delle diverse esigenze espresse dalle due scuole che nella storia degli studi danteschi si sono variamente alternate ed urtate e poi avvicinate agendo utilmente da reciproco correttivo. Richiamandosi a certi caratteri generali dello spirito medievale e a quelli di una parte dell’opera dantesca, l’allegorismo risolve la poesia in una complicata fenomenologia mistica o teologica o genericamente intellettuale; il realismo, interprete di una esigenza largamente storicistica, reagisce a quella che può parere ed essere l’astrattezza critica dell’allegorismo, e ama immettere e far sentire nella poesia la vivacità degli stimoli e dei contenuti della vita storica e psicologica.
E su questo tutti sono genericamente d’accordo, senonché le questioni si fanno litigiose quando si tratti di formulare di volta in volta le ragioni della preminenza di un canone sull’altro.
Di volta in volta, s'è detto, poiché l’opposizione assoluta e generale tra le due scuole si è attenuata e, riconosciuta l’estrema difficoltà di un’interpretazione allegorica di tutta la lirica dantesca, la linea convenzionalmente divisoria tra i due campi è divenuta piuttosto sottile e di andamento irregolare, e ne son nati singolari mescolamenti d’acque e di tesi e di criteri, e contemperamenti e compromessi , sì che le divergenze non vertono in genere sulla questione generale ma su punti e argomenti particolari, arrivandosi a concludere che ad es. per la Vita Nuova, l’interpretazione realistica non escluda più perentoriamente e quasi aprioristicamente la possibilità di un’interpretazione allegorica totale o parziale o, per dirla in altri termini, che il fondamento realistico, largo o ristretto, della Vita Nuova, non escluda la possibilità o la probabilità di una sua assunzione simbolica .

Ma qual è la carta di legittimità critica, quali i vantaggi, quali gli svantaggi del realismo? Figlio riconoscibile del Romanticismo e dell’erudizione storica, esso ha portato nella critica dantesca un’esigenza di positività storico-biografica e di concretezza psicologica, ed efficacemente contribuito a scalzare o a limitare gli arbitri e le astrattezze dell’allegorismo. Storicizzando la poesia o tentando di farlo, mirò a ricongiungere l’uomo al poeta, le vicende e i miti lirici agli accadimenti della vita, creando un’«aura» storica attorno alla chiusa sfera della lirica; e immettendo, fin dove possibile, la poesia nella vita e il poeta nel suo tempo, con più libera e franca modernità di movenze fece giustizia di certi irritati pudori e di ombrosi scrupoli moralistici e reverenziali di cui erano affetti molti critici, onde discorrere di Dante non era lecito se non nello stile e nel tono di una celebrazione agiografica . Dai nobili e fecondi fervori del rinnovato culto di Dante era nato un mito-Dante, dal quale era rigorosamente espunto tutto quanto apparisse troppo umano e terrestre: l'umanità di Dante era tutta annullata, e un po’ svuotata, nella sua trascendenza morale o poetica o teologica. A un'elevata e religiosa ammirazione della personalità di Dante s’accompagnavano esagerazioni e semplicismi e una notevole carenza di senso storico e d’intuito psicologico, e perciò la reazione, pur con qualche intemperanza polemica, e il correttivo realistici intervennero inutilmente a ristabilire, ci si conceda ancor l’uso di questa formula, il concetto della necessaria immanenza dell’umano nel divino, del reale nell’ideale, dell’uomo-Dante nel Dante-poeta e teologo. Ne uscì (o ne rimase comunque l’esigenza) un Dante psicologicamente e storicamente più vario, più ricco, più diseguale, persino con qualche hiatus, ma tanto più umanamente vivo e spirante nella temperie della sua vita e nella prospettiva del suo tempo.
Questi in succinto i meriti e la carta di legittimità critica del realismo nella storia degli studi danteschi: all’atto pratico, esso va incontro ad inconvenienti che viceversa costituiscono altrettanti vantaggi dell’allegorismo. Teoricamente parlando, l’applicazione del canone allegorico non ha limiti o, per meglio precisare, ha il suo limite solo nella presenza di un documento o di una esplicita dichiarazione del poeta i quali escludano o addirittura vietino l’interpretazione allegorica: ora è noto che dichiarazioni del genere mancano assolutamente nelle opere di Dante. E perciò l’allegorista ha buon gioco quand’egli inviti, alquanto imprudentemente invero, l’avversario a produrre la prova dell’erroneità della propria interpretazione; al che potrebbe seguire una controrichiesta dell’avversario di produrre appunto la prova provata dell’esattezza e della legittimità dell’interpretazione allegorica. Poiché se operazione facile e sottilmente dilettevole è allegorizzare, estremamente difficile è dare consistenza dimostrativa a quanto si è allegorizzato.
Per questa carenza di positività, ch'è grave e immedicabile deficienza dell’allegorismo, è facile smarrire il senso del limite e, trascinati dalla foga o dalla logica del sistema, spiegare le vele per il vasto mare dell’arbitrario e dell’opinabile: e di questi esempi, per dirla col Machiavelli, ne sono piene le istorie; vogliam dire le pagine della critica dantesca antica e moderna.
Il realismo deve superare il pericoloso scoglio della propria documentazione. Orbene, è anche troppo nota la esasperante impossibilità di una documentazione positiva sulla maggior parte dei numerosi problemi esegetici offerti dalle Rime e dalla Vita Nuova.
Quali le conseguenze? Che il realismo è costretto a surrogare la positività del documento con una documentazione indiretta la quale non è sempre d’ordine positivo né incontrovertibile; che il limite e la misura obbiettivi della validità della tesi realistica si fanno fluttuanti ed aleatori; cosicché, in ultima analisi, lo abbiam già rilevato, l’applicazione del canone realistico o allegorico si riduce a una questione di discrezione critica. Così, arrivati ad un certo limite, il concetto stesso di canone esegetico capace di offrire luce e certezza e fondamento al giudizio critico vien meno, e le posizioni appaiono invertite: non più il canone condizionando il giudizio critico ma da questo attingendo la sua propria giustificazione, Il caso delle «pietrose» può essere ancora una volta citato non inutilmente a titolo di esempio.
La tendenza corrente è per l’interpretazione realistica; ma, non essendo essa documentabile, la validità del canone realistico è necessariamente dedotta, oltre che da qualche argomento indiretto nella fattispecie di valore assai dubbio perché troppo generico (ad es. la requisitoria di Beatrice contro il traviamento di Dante nel canto XXXI del Purgatorio), dall'esame dei caratteri cosiddetti interni delle «pietrose», inferendosi che la violenza tonale e tecnica deriva senza mezzo dalla violenza del tumulto psicologico-passionale e che questo, in quanto tale, non può riferirsi che a donna reale.
L’argomento è indubbiamente di natura critica, ma di natura non meno critica è l’argomento che gli si può fare avverso a sostegno dell’interpretazione allegorica o a semplice esclusione della realistica: come mai, psicologicamente parlando, quel cieco e furibondo tumulto passionale origini e coincida col più orgoglioso sfoggio di virtuosismo tecnico che sia dato riscontrare nello svolgimento della poesia dantesca. È chiaro che la tesi realistica, fondata su una frettolosa illazione psicologica, è alquanto vacillante.
E si noti che il caso delle «pietrose» è tra i molti quello apparentemente meno questionabile, mentre quasi tutti gli altri (tipico quello delle tre liriche in onore di una «pargoletta»), sono di soluzione assai più dubitosa e controversa. È cosa assai rara che l’analisi dei caratteri interni delle liriche costituisca argomento risolutivo in favore dell’una o dell’altra tesi; è assai più frequente il caso che le conclusioni trattene siano tra loro diametralmente opposte.
E poiché siamo in discorso, e sempre in tema di analisi dei caratteri cosiddetti «interni», e delle conclusioni che se ne vogliono poter trarre a sostegno dell’una o dell’altra tesi, diremo dell’equivoco o dell’errore in cui è facile incorrere quando ci si affidi troppo facilmente ai caratteri e alla suggestione della tecnica figurativa. Un esempio caratteristico a questo proposito l’offre il Carducci nel suo saggio, ancor oggi notevole e autorevole Delle Rime di Dante, là dove toccando dell’episodio della «donna gentile» nella Vita Nuova (del quale si sostiene il carattere realistico), la qual donna gentile Dante, come è noto, scorse intenta a guardarlo da una finestra, rivolgendosi ai sostenitori dell’interpretazione allegorica, con rilevata e ironica lepidezza chiede quando mai e come la Filosofia possa guardare gli uomini da una finestra... Ora, ammesso il fondamento realistico dell’episodio, si può anche concedere che Dante abbia realmente veduta quella che nell’episodio è la «donna gentile» affacciata ad una finestra; e ciò nonostante l’obbiezione del Carducci non ha un grande valore critico, poiché qui si fa confusione ira reale (cosa o fatto storicamente e materialmente reale) e realismo figurativo, il quale, in quanto atto estetico, è di natura creativa e comunque non direttamente né necessariamente condizionato da un determinato fatto o cosa reale, nel senso che esso ne sia la riproduzione immediata, materialmente e fotograficamente esatta.
A noi pare, per molteplici ragioni, opportuno accogliere solo col beneficio dell’inventario l’appariscente realismo di altri episodi della Vita Nuova, o meglio di accoglierlo solo dopo di averne diligentemente espunto ogni elemento letterario. Ecco qui una scena notissima, di realistica apparenza nella sua ambientazione medievale: una funzione sacra in onore della Vergine in una chiesa di Firenze, Dante assorto nella estatica contemplazione della «gentilissima»; una donna, posta tra Dante e Beatrice, ritenendo di essere lei la mirata, si volge ripetutamente a guardare l’indiscreto; i curiosi, sempre inclini alla maldicenza, ritengono di aver finalmente individuato l’oggetto della passione che aveva reso sì «macro» il poeta; Dante, rassicurato che per quel giorno il segreto era rimasto inviolato, sceglie quella gentildonna come schermo del vero amore e la corteggia in rima.
Dalla suggestione realistica della descrizione, possiamo davvero ritenerci autorizzati a dedurne l’esistenza del fatto? È dubbio, specialmente se si osservino gli elementi letterari, e propriamente trobadorici, immessi nello spunto realistico: la preoccupazione del segreto, regola fondamentale del galateo trobadorico; l’accorgimento machiavellico dello schermo; la presenza e la preoccupazione, in Dante, dei curiosi e dei maldicenti, Che cosa, in sostanza, vieta di supporre che l’episodio sia una trascrizione realistoc-inventiva di quegli elementi letterari?
L'episodio del «gabbo», narrato nel capitolo XIV della Vita Nuova, riesce ancor più calzante poiché, ancor più che nel precedente, è visibile nel narratore la preoccupazione di una minuta e perfetta inquadratura realistica, con esplicito riferimento al costume fiorentino. Dante è condotto da un amico in casa di un «novello sposo» dove, «secondo l’usanza de la sopradetta cittade», molte gentili donne erano convenute a leggiadra compagnia della sposa in occasione del suo primo sedere a la mensa «ne la magione del novello sposo», e per compiacere all’amico decide di «stare al servigio de le donne». Quand’ecco un «mirabile tremore», iniziatosi dalla parte del cuore, gli si estende a tutto il corpo, tanto che, imbarazzato e vacillante, Dante finge di appoggiarsi a un affresco che correva tutt’intorno alle pareti della sala: levati gli occhi, scorge la gentilissima Beatrice. Tutti gli «spiriti» del poeta rimasero sopraffatti e distrutti eccettuati gli spiriti visivi, cacciati però dal loro organo nel quale s’era insediato Amore per contemplare più a suo agio la «mirabile donna»; e degli spiriti visivi si duole Dante, dolendosi essi a lor volta che Amore li «infolgorasse» fuori del loro luogo. Intanto alcune delle gentili donne, accortesi del «trasfigurare» di Dante, con leggiadra arguzia se ne «gabbavano» con la «gentilissima» così bene, con tanta opportunità e appropriatezza letteraria da sembrar consapevoli che senza il gabbo qualcosa, mente parlando, mancasse alla scena, il motivo del gabbo era d’uso corrente nella lirica provenzale. Queste donne mi han tutta l’aria di recitare una parte preventivamente loro assegnata, una parte, appunto, letteraria.
E si noti che il gabbo delle gentili donne è provocato dal tramortimento del poeta, ch'è uno spunto vistosamente cavalcantiano, sul quale s’innesta a sua volta la stilnovistica materialità del parlare di Dante agli spiriti del viso, e del lamento di questi ultimi riportato sotto forma di discorso diretto. Che pensare dello spunto realistico iniziale? Ammesso, e non concesso, che il fatto del trovarsi Dante in quella determinata casa per quella determinata circostanza sia storicamente vero (non certo, si vorrà ammettere, il tramortimento del poeta e il suo discorso agli «spiriti») è chiaro che lo spunto realistico è stato svolto in una direzione puramente letteraria, e cioè inventivamente, non solo, ma disposto in modo da servirgli di giustificazione e di supporto. E poiché la prosa del capitolo è posteriore al sonetto del gabbo («Con l’altre donne mia vita gabbate») nel quale all’usitato motivo trobadorico è disposata una scura e paurosa motivazione cavalcantiana, tutta la parte prosastica potrebbe essere benissimo il realistico romanzamento di un motivo letterario.
Tali gli equivoci nei quali può incorrere l’interprete realista costretto, in mancanza del documento, a cercare nel mondo dell’arte argomenti o prove, se di prove è lecito parlare, a sostegno del proprio canone esegetico. Operazione estremamente delicata è quella di accingersi a cercare, nella forma poetica di Dante, dei segni o caratteri sicuri, incontestabili, sul fondamento dei quali distinguere se e quando essa forma sia per così dire ancorata a cosa o fatto reale o a un elemento astratto: realismo e astrattezza figurativi sono segni troppo malcerti, poiché l’uno e l’altro sono attinenti esclusivamente alla estrinsecazione tecnica della fantasia nella cui sostanza omogenea e indivisibile, realtà e astrazione sono indicati, e cioè resi poeticamente reali, da uno stesso segno: l’astrazione prende corpo, mentre il reale si libera della grave salma della propria materialità.
Di un icastico nitore è la figurazione del sogno nel primo sonetto della Vita Nuova e nella prosa che l’accompagna; nitida e quasi realistica la descrizione dell'Amore pellegrino che Dante dice di avere incontrato durante un suo viaggio (son. «Cavalcando l’altr’ier per un cammino», V. N., IX); sfuggente all’inverso, e impregnata di non so quale astrattezza, nella Vita Nuova e in molte rime, la figurazione di cose e persone, e valga per tutte la descrizione della donna fatta dall’esterno o, vogliam precisare, con l’occhio rivolto all’esterno, e con propositi di ritrattista. Che dire invece della nitidezza del segno fantastico e del realismo figurativo applicati e sfoggiati nella descrizione di fantasmi e processi psicologici?
«E pensando di lei (così inizia la descrizione prosastica del sogno nel capitolo terzo della Vita Nuova), mi sopraggiunse uno soave sonno ne lo quale m’apparve una meravigliosa visione: che me parea vedere ne la mia camera una nebula colore di fuoco dentro a la quale io discernea una figura d’uno segnore di pauroso aspetto a chi la guardasse...
È «Ne le sue braccia mi parea vedere una persona dormire nuda, salvo che involta mi parea in uno drappo sanguigno leggeramente... E ne l’una de le sue mani mi parea che questi tenesse una cosa la quale ardesse tutta e pareami che mi dicesse queste parole: vide cor tuum. E quando egli era stato alquanto pareami che disvegliasse questa che dormia, e tanto si sforzava per suo ingegno che le facea mangiare questa cosa che in mano li ardea, la quale ella mangiava dubitosamente». Nel sonetto corrispondente la figurazione è più rapida e densa:

Allegro mi sembrava Amor tenendo
meo core in mano, e ne le braccia avea
Madonna involta in un drappo dormendo.
Poi la svegliava e d’esto core ardendo
lei paventosa umilmente pascea:
appresso gir ne lo vedea piangendo.

Questo è un sogno; nel capitolo nono, nella scena dell’incontro con l'Amore pellegrino, abbiamo un’astrazione retorica fatta persona, rotto l'equivoco diaframma che divide la realtà esterna dall’interno giuoco imaginativo. «Lo dolcissimo signore, è detto, lo quale mi segnoreggiava per la viriù de la gentilissima donna, ne la mia immaginazione apparve come peregrino leggeramente vestito e di vili drappi. Elli mi parea disbigottito e guardava la terra, salvo che talora li suoi occhi mi parea che si volgessero ad uno fiume bello e corrente, e chiarissimo, lo quale sen gìa lungo questo cammino là dov’io era...» L'Amore poi si rivolge a Dante che ne trascrive direttamente le parole. Non meno nitido, e ricco di suggestione realistica, è il sonetto che pur nei due versi finali scopre questo sottile ed equivoco immaginare e la sua inconsistenza realistica:

Cavalcando l’altr’ier per un cammino
pensoso de l’andar che mi sgradia,
trovai Amore in mezzo de la via
in abito leggier di peregrino.
Ne la sembianza mi parea meschino
come avesse perduto signoria,
e sospirando pensoso venia,
per non veder la gente, a capo chino.

Quest’astrazione rettorica è figurata camminante e in funzione di battistrada a due bellezze muliebri nel capitolo XXIV, dove si dichiara trattarsi di una «immaginazione d'Amore», mentre nel sonetto la sottigliezza del giuoco rettorico-immaginativo è velata:

Io mi senti’ svegliar dentro a lo core
uno spirito amoroso che dorma;
e poi vidi venir da lungi Amore
allegro sì che appena il conoscia,
dicendo «or pensa pur di farmi onere»
e in ciascun parola sua ridia.
E poco stando meco il mio signore
guardando in quella parie onde venia
io vidi monna Vanna e monna Bice...

Qui la finzione rettorica è trasferita all'esterno è rivestita di sembianze realistiche.
Nel sonetto del cruccioso assalto di Malinconia («Un dì si venne a me Malinconia») l'amore è portavoce di dolorosi presentimenti di morte:

guardai e vidi Amore che venia
vestito di novo d’un drappo nero
e nel suo capo portava un cappello,
e certo lacrimava pur di vero.

E potremmo ancora citare il realismo figurativo della cupa visione della canzone «Donna pietosa di novella etade», nel capitolo ventitreesimo.
Finora siamo rimasti nel regno del sogno è delle convenzioni letterarie, trascritte in figurazioni di una determinatezza suggestiva di sensazioni realistiche: e ci dovremmo logicamente aspettare che tale suggestione si faccia proporzionalmente tanto più intensa quanto più il poeta descriva, o finga di descrivere, quasi ritrattisticamente, dal reale e dall’esterno. Ma è pressoché costantemente vero il contrario, come se lo spiritualismo medioevale, mentre acuiva da un lato la facoltà della visione e della rappresentazione introspettiva, corrodesse dall’altro a tal punto il reale da renderlo inafferrabile o difficilmente afferrabile all'occhio e alla tecnica.
Beatrice nella Vita Nuova è supposta posare i piedi per terra, sia pure con spiritualissima e tangenziale levità; e vive e parla e si muove e si atteggia; ma chi riesce ad afferrarla e «fissarla» con l’occhio, a reintegrarne le sembianze, sì da ricavarne un volto; un volto, intendiamo, unico, distinto, determinato sui tantum similem? Questa donna non è persona individua ma un mito ontologico; aereo accordo di note spirituali in cui si trasfigura. anche il gesto materiale del saluto: luce raggiante, forza operatrice di mistici e misteriosi influssi purificatori.
Ecco la descrizione della gentilissima nella canzone «Donne ch’avete intelletto d'amore»:

Color di perla ha quasi, in forma quale
convene a donna aver, non for misura:
ella è quanto de ben po’ far natura;
per essemplo di lei bieltà si prova.
De li occhi suoi, come ch’ella li mova
escono spirti d’amore infiammati,
che feron li occhi a qual che allor la guati,
e passan sì che ‘l cor ciascun retrova:
voi le vedete Amor pinto nel viso,
là ‘ve non pote alcun mirarla fiso.
(V. N., XIX).

È una donna? No, un mito, una sopraffazione luminosa e inebriante dell'anima e degli occhi. Lo stesso è nel sonetto «Ne li occhi porta la mia donna Amore» (XXI) dove peraltro lo scolasticismo psicologico è più morbido e spiritualmente sfumato: non la donna vediamo, ma i miracolosi effetti della sua presenza e del suo influsso: la nobilitazione spirituale di tutto quanto ella mira; il tremito del cuore dell’uomo cui ella rivolga il suo saluto (l’unico gesto materiale di Beatrice), la fuga innanzi a lei della superbia e dell’ira, motivazione riassunta e conchiusa nel tema dell’ineffabilità:

quel ch’ella par quando un poco sorride,
non si pò dicer né tener a mente,
si è novo miracolo e gentile.

Nella suprema levità e nella delicata ebbrezza lirica del sonetto «Tanto gentile e tanto onesta pare» solo l’anima, e non l’occhio, può percepire l’aereo ritmo spirituale di questa figura di donna:

Tanto gentile e tanto onesta pare
la donna mia quand’ella altrui saluta,
ch’ogne lingua deven tremando muta,
e li occhi no l’ardiscon di guardare.
Ella si va, sentendosi laudare,
benignamente d’umiltà vestuta;
e par che sia una cosa venuta
da cielo in terra a miracol mostrare;

e il tratto più materiale è quello che propriamente dovrebbe esserlo meno: il muoversi dello spirito pien d’amore dal volto di Beatrice:

e par che da le sue labbia si mova
uno spirto soave pien d’amore,
che va dicendo all’anima: «sospira»;

qui poeticamente riscattato in una sospirosa delicatissima nota.
Ma, come nel far parlare gli «spiriti» nella redazione prosastica della Vita Nuova Dante si spinge, intenzionalmente, fino alla più realistica materialità, e altrove parla di raggi che «piovon paura» (son. «De gli occhi de la mia donna si move»), o materializza figurativamente l’influsso della donna in un gettito di luce:

de gli occhi suoi gittava una lumera
la qual parea uno spirito infiammato.
(Son. «Di donne io vidi»)

così è proprio nella figurazione di quelli che vorremmo definire interni psicologici che il segno figurativo attinge una nettezza e un rilievo che ci saremmo ragionevolmente aspettati di trovare nella descrizione di figure ritratte dall’esterno. Ecco l’impossessamento violento e micidiale dell'anima da parte di un fantasma di donna, nella canzone «E m’ineresce di me sì duramente»:

L’imagine di questa donna siede
su ne la mente ancora,
la ’ve la pose quei che fu sua guida;
e non le pesa del mal ch’ella vede,
anzi vie più bella ora
che mai e vie più lieta par che rida;
e alza li occhi micidiali, e grida
sopra colei che piange il suo patire:
«Vanne, misera, fuor, vattene omai!»,

E come non ricordar le «Tre donne» nella canzone «Tre donne intorno al cor mi son venute»? Sono, com’è noto, tre simboli; eppure nelle rime dantesche, non ricordiamo figura di donna così plasticamente atteggiata come la prima delle tre donne:

Dolesi l’una con parole molto,
e ‘n su la man si posa
come succisa rosa:
il nudo braccio, di dolor colonna
sente l’oraggio che cade dal volto;
l’altra man tiene ascosa
la faccia lagrimosa:
discinta e scalza, e sol di sé par donna.

Questa rapida documentazione ha forse finito col divenire una digressione, ma ci è sembrato non inutile chiarire su quale e quanto malfido terreno si muova l'interprete di Dante costretto a ricavare i suoi argomenti a sostegno della tesi realistica o allegorica dall'esame della tecnica figurativa e dei cosidetti caratteri interni della poesia dantesca. E cogliamo l’occasione per ribadire un principio generale che non va mai perduto di vista: che i termini concretezza e astrattezza, supposti corrispondere rispettivamente alla genesi realistica o all’allegoricità intenzionale delle singole liriche, sono da usare con molta cautela se non si vuole incorrere in grossi equivoci e confusioni; che il reale non è necessariamente ritratto con tecnica ricca di effetti realistici né l’astrazione con tecnica astratta, i due processi essendo più di una volta invertiti, sì che il reale è riprodotto per linee astratte od equivocamente sostanziato di astrazione, e all’astrazione d’altro canto è dato corpo e per così dire peso e forma di materia, e questo non solo per atto di estetica e consapevole volizione, ma per congeniale incontro e collaborazione delle facoltà fantastiche e dell’abito intellettivo. E torniamo al nostro discorso.
Svantaggi e limiti del realismo si risolvono, a prima vista, in altrettanti vantaggi e libertà dell’allegorismo. Non c’è infatti immagine o tema poetico che non sia allegorizzabile, e l’arbitrio la sottigliezza e la genialità ermeneutici hanno davanti a sé un campo apparentemente illimitato. Una dimostrazione teorica dell’erroneità di una sovracostruzione esegetico-allegorica è impossibile; una dimostrazione positiva abbisogna di un documento; e l’allegorista potrebbe tranquillamente, tutto intento ai suoi trascendentali ricami. continuare a volver sua ruota e beato godersi del proprio lavoro, sordo ai richiami, alle obbiezioni, ai dinieghi, ai dubbi degli avversari. Ma è appena necessario avvertire che un allegorismo così pervicacemente integrale e totalitario è un’eccezione oggi assai rara nella critica dantesca, e che esso, divenuto insuscettibile di misura critica, finisce con l’annullarsi in forza del suo stesso eccesso.
Difatti, dove a controbattere gli arbitrî dell’allegorismo faccia difetto il documento, intervengono il dubbio, l’induzione, il buon senso, e quel complesso di fattori che si potrebbero riassumere in una sola formula: il lume discretivo della critica. Unità di misura non esattamente definibile ma reale e concreta, e comunque l’unica che il critico abbia a disposizione per valutare le sovrastrutture esegetiche dell’allegorismo, per accoglierle o respingerle a seconda del grado di arbitrio ch'egli senta in esse, della loro utilità, della loro plausibilità, della loro verosimiglianza e, ciò ch'è più raro, della loro necessità. Necessaria in alcuni casi, quando per esempio il sovrasenso sia palesemente suggerito dal contesto o da una non dubitabile dichiarazione dell’autore stesso (e dubitate, com’è noto, sono le dichiarazioni di Dante nel secondo trattato del Convivio concernenti l’episodio finale della Vita Nuova), l’interpretazione allegorica è plausibile o utile in altri, quando la sua applicazione si presti a storicizzare e unificare i contenuti di una o più serie liriche (ad es. le rime per una « pargoletta » e per la Donna-Pietra); in altri ancora, ad es. l’episodio finale della Vita Nuova, sono escogitazioni sovrapposte a gravare senza sostanziale vantaggio un apparato letterale già chiaro e autosufficiente; in altri casi infine, quando tutta la produzione lirica di Dante o liriche di epoche diverse si vogliano unificare sotto il segno dell’allegorismo, si risolve in una distorsione o violentazione della lettera alla quale il senso critico e il buon senso decisamente si rifiutano.
Non esistono regole generali: ogni critico ha le sue ipotesi, i suoi dubbi, le sue riserve, le sue preferenze e, accanto a tutto questo, non va dimenticata la comunis opinio, cioè l’autorità che nasce dalla concordanza di opinioni su determinate questioni. Una comunis opinio ad esempio è oggi questa: che per l’intendimenio della Vita Nuova non sia affatto necessario ricorrere all’interpretazione allegorica.
Del resto anche l’allegorismo, malgrado la sua apparente libertà, ha le sue pene e il suo purgatorio: esso è incapace di generare da sé una certezza positiva. Per quanto ragionate e plausibili siano le sue interpretazioni, nessuna di esse equivale a una certezza: la lettera, orientata verso il mondo dei sovrasensi, oscillerà malfida in direzioni diverse. La Pargoletta autovagheggiantesi in trascendentale egotismo nella ballata «I’ mi son pargoletta bella e nova» può essere la Filosofia, ma nulla vieta di scorgere in essa, come vuole il Federzoni, la personificazione della Rettorica.
Il virtuosismo ermeneutico può lasciare ammirati, ma non sempre persuade. Nessuna meraviglia pertanto che nella recente critica dantesca la tendenza generale sia a «non insistere» eccessivamente in fatto di interpretazioni allegoriche, ad ammetterne l’utilità o la possibilità, ma senza esaurire il compito della critica nella soluzione d’indecifrabili o mal decifrabili indovinelli.

Qual è oggi la posizione reciproca delle due tendenze? Esse, come abbiam detto, si sono avvicinate, e per così dire dialettizzate, sì che l’opposizione tradizionale verte meno sulla questione generale, quanto su questioni e punti particolari. Sulle due questioni capitali: se tutte le rime e la Vita Nuova siano da interpretare allegoricamente o realisticamente, e se le donne cantate da Dante siano donne reali o allegoriche, opposizione non c’è più, nel senso che si è definitivamente riconosciuto che nessuna delle due questioni è suscettibile di una risposta così assoluta e dilemmatica. Rari ormai gli estremisti delle due tendenze; abbondano invece i «moderati», dei quali, in qualche caso, è persino difficile dire a quale delle due tendenze appartengano. E si è anche affermato o legittimamente sospettato, che in più di un caso, a proposito di forse più di una lirica amorosa e di un mito muliebre, possa non esser questione né di donna reale né di donna allegorica, ma semplicemente di esercitazione letteraria .
Ed anche in questo senso, come si vede, il dilemma tradizionale si è attenuato. Concluderne per una dissoluzione delle due scuole o tendenze sarebbe, tuttavia, eccessivo: multa renascentur. Ma nessuna delle due scuole è oggi raffigurabile come un oste schierata in campo, nella compatta totalità dei suoi combattenti: si combatte, direi, tra individui e piccoli gruppi, e per il possesso di piccoli caposaldi, non più per la conquista di tutto il territorio nemico. Assertori indomiti dell’allegorismo integrale come il Valli o il Madonnet sono eccezioni: capi di scarso seguito o, se si vuole, pugnaci retroguardie di un esercito ridotto ma che stenta a smobilitare .
L’oggetto stesso e la ragione di una lotta generale tra le due scuole schierate in campo sono sfumati quando il buon senso, il ragionato senso critico, gli scarsi risultati positivi dell’accanito lavorìo filologico e la disorientante varietà delle sovracostruzioni allegoriche hanno chiaramente fatto avvertire che nessuna delle due parti poteva appellarsi a un qualunque Giove perché facesse traboccare dalla sua il piatto della bilancia: che fuori di metafora, e sulla questione generale e per la maggior parte delle questioni particolari, mancano documenti per stabilire positivamente chi abbia torto o ragione. Le tesi, per quanto ragionate, le congetture, per quanto argomentate, non sono certezze né documenti.
Queste le cause principali del fatto che l’opposizione totalitaria, al modo tradizionale, tra le due scuole o è attenuata o si è ridotta in genere analitica ed episodica.
Rimane tuttavia delle due scuole l’opposizione che vorrei dire «tendenziale» nel senso che le esigenze da esse espresse o rappresentate si ritrovano come momenti e quasi accenti diversi delle singole indagini critiche sulla poesia dantesca.
Il realismo è storicistico e psicologico, concreto e corpulento, aperto al sentimento dell’avventura e dell’occasionalità lirica, alieno da rigidezze sistematiche, puntuale e talvolta episodico, incline a sentire il divenire della poesia nel libero e vario e sinuoso dispiegarsi dei suoi elementi.
L’allegorismo è, se così è lecito esprimersi, metastorico e metapsicologico: svincolando la poesia dalla storia e dalla vita, esso la ricostituisce nella complessità articolare dei sovrasensi.
Meno aperto al senso della storicità della poesia, esso tende a irrigidire la varietà dello svolgimento nelle linee di un sistema, e perciò comporta un pericolo di astrattezza in cui può andar perduto il senso vivo e puntuale dei singoli momenti lirici e spirituali.
L’applicazione dell'uno e dell’altro comporta dei pericoli; e d’altra parte non si possono dettare delle norme generali e impegnative: al critico di vigilare a che il realismo non cada nella Fisica, e l’allegorismo non svapori nella Metafisica.

La grande battaglia contro l’allegorismo fu data nella seconda metà dell’Ottocento dalla Scuola storica la quale, come abbiamo avuto occasione di accennare nel primo capitolo di questo libro, in forza della sua mentalità e metodologia e della conseguente positiva angolazione ch’essa diede ai problemi critici nel campo dell’esegesi dantesca, e in specie delle Rime di Dante e della Vita Nuova, era nel suo complesso di tendenze schiettamente e spiccatamente realistiche. L’attività della scuola storica erose più o meno il campo della corrente allegorica e comunque segnò una notevole battuta d’arresto, ma una sconfitta definitiva dell’allegorismo non poteva uscire da quella battaglia per la doppia ragione che la scuola storica non aveva potuto produrre documenti sufficienti a tale risultato, e che, in ultima istanza, l’allegorismo trova ragioni per non arrendersi nemmeno a un documento.
Lo si vide in modo tipico nella questione di Beatrice, e della Vita Nuova; non eran passati dieci anni dalla pubblicazione del volume famoso di Isidoro del Lungo Beatrice nella vita e nella poesia del sec. XIII (1891) che pareva dover segnare un punto definitivo di arrivo e di partenza, che le interpretazioni allegoriche, più o meno rigide ed estese, riaffiorarono polemicamente (Scarano, Gargano-Cosenza, Zappia ) rifacendosi alla tradizione rinvigorita dalla Beatrice svelata del Perez, affiancandosi a quella del Pascoli, il cui influsso si ritrova con vari temperamenti e oscillazioni nel Pietrobono, e in forma più rigida e sistematica, nel Valli, senza dire di altri e minori ma tenaci sostenitori della tesi allegorica . Ma giova aggiungere che in genere queste tesi hanno avuto assai scarso seguito e parvero quasi fuori clima; che l’eco suscitata dal Valli era dovuta in non piccola parte all’eccezionalità stessa della tesi peraltro, bisogna riconoscerlo, accanitamente sostenuta; e che, infine, nell’allegorismo riparò molta critica di tendenza criptico-fantastica di specie romantica, o mossa da un gusto astrattamente dialettico della costruzione critico-intellettuale, o comunque renitente tanto alla disciplina teoretica dell’idealismo come alla disciplina positiva del metodo storico.
Ma accanto alle due scuole, l’allegorica e la realistica, si fece avanti nella seconda metà dell’Ottocento una, che non dirò scuola ma tesi, la quale con un termine non privo di equivoco fu chiamata «idealistica» più in dipendenza della sua propria formulazione che non di un preciso e rigoroso principio teoretico. Idealisti in tal senso furono il Bartoli e il Renier che sostennero la «idealità» di Beatrice in quanto pura figurazione estetica dell’ideale muliebre; tesi che oggi potrebbe sembrare tutt’altro che peregrina ma che traeva, quando fu formulata, un suo particolarissimo e rivoluzionario significato dal fatto ch’essa si opponeva tanto alla tesi allegorica quanto a quella realistica ponendosi come superamento dell’una e dell’altra.
Questa tesi si ritrova variamente atteggiata in alcuni interpreti della prima metà dell’Ottocento, ma in embrione la si potrebbe scoprire già nella quattrocentesca Vita Dantis di Gian Maria Filelfo, là dove si accenna all’abitudine dei poeti di «fingere», coll’aggiunta tuttavia di altre osservazioni che possono far pensare all’affermazione della tesi allegorica. E infatti, tra i due termini del dilemma tradizionale. ove non muti decisamente l’angolo critico e teoretico della questione, la tesi «idealistica» si offre dal più al meno come un piano inclinato verso l’allegorismo.
È chiaro tuttavia che a un definitivo annullamento del vecchio dilemma: interpretazione realistica o allegorica?, si poteva arrivare solo attraverso una dottrina critica in cui l’esegesi allegorica o realistica apparissero come due momenti subordinati e comunque non essenziali né determinanti dell'indagine critica, in quanto vertenti su elementi accidentali, non immanenti al processo proprio dell’Arte.
E della più vigile e avvertita critica contemporanea è tipico infatti il possibilismo esegetico, o vuoi il ritegno critico a pronunziarsi esplicitamente là dove manchino gli elementi della necessaria certezza.
La chiarificazione avvenne in sede teoretica, come la sola capace di convalidare una metodologia critica in cui le vecchie questioni fossero obliterate o poste sotto nuovi angoli visuali; e prevalentemente teoretica fu la polemica condotta dal Croce contro l’allegorismo come contro una concezione «allotria» dell’arte; e critica in un secondo tempo, nel saggio sulla poesia di Dante (1921) dove il minuto e grosso e rissato questionario dell’esegesi realistica o allegorica è risospinto nell’ultimo piano dell’indagine critica, per non dire quasi obliterato.
E in linea col Croce e, per anticipazione, con la recente critica dantesca erano già nel 1906 il Cesareo il quale, ponendosi la questione critica della Vita Nuova, sosteneva l’inutilità di andare alla ricerca di dati storico-realistici o allegorici in quanto gli uni e gli altri erano al di fuori dell'intimo processo lirico-creativo dond’era nato il «libello», e nel 1908 il Momigliano, nella sua penetrante analisi estetica della prima canzone pietrosa .
L’interpretazione «estetica» (usiamo questa qualifica per evitare ambiguità con la tesi del Bartoli e del Renier) alla quale del resto molti critici sono arrivati non solo o esclusivamente per via di chiarimento teoretico ma anche per moderno e scaltrito affinamento del loro senso dell’arte, ha sconfitto l’allegorismo?
Indubbiamente, la polemica crociana contro l’allegorismo ha segnato un’energica chiarificazione aggiungendosi alla spinta della mentalità e dell’opera della scuola storica, la quale tuttavia respinge l’allegoria in quanto non sia documentabile e traducibile in un dato di certezza positiva, mentre il Croce la respinge come una dimensione accidentale, o estranea all’arte. E non meno indubbiamente il Croce nel suo saggio sulla poesia di Dante, dal quale proviene tutta una particolare tradizione critica, ha dato giustificazione teoretica alla sazietà ingenerata dai dispersivi e discordanti prodotti della scuola allegorica.
La chiarificazione o, se si vuole, la vittoria «teoretica» del Croce si rivelò così importante perché segnava l’avvio di una metodologia critica ed anche perché, pur sul piano teoretico, era in linea con le tendenze del gusto letterario; e tuttavia non si può non osservare che quella vittoria portava in sé il pericolo della propria assolutezza teoretica, ossia, a lungo andare, dopo aver svolta e attenuata la propria efficacia nella sua assidua applicazione, il pericolo di rivelarsi astratta o incapace di sottrarsi all’erosione della critica in atto o di conciliarsi alle esigenze di un nuovo gusto letterario , o suscettibile dell’accusa di costituire una pregiudiziale aprioristica e una illegittima anticipazione delle risultanze dell’indagine critica e di gusto .
Molte obbiezioni sono state rivolte e si possono rivolgere alla tesi del Croce, in cui si riflettono e giuocano variamente i diversi modi di intendere i rapporti tra Gusto, Critica ed Estetica ma che forse si potrebbero riassumere nell’obbiezione fondamentale: se sia lecito dedurre immediate la negazione critica o vuoi artistica dalla negazione teoretica dell’allegoria, o se, in altri termini, quella negazione teoretica introdotta senza mediazione nel vivo processo dell’arte dantesca non rappresenti un’intrusione astorica impedendo alla critica di adeguare attualmente e comprensivamente il proprio processo al processo della poesia dantesca ricostituita nella completezza di tutte le proprie dimensioni e dei propri elementi.
Non possiamo indugiare in una discussione particolareggiata della questione perché esulerebbe dall’economia del presente lavoro; diremo solo che, se dalla Commedia, per la quale questioni del genere hanno un solido corpo, ci si sposti verso la Vita Nuova e le Rime, quel corpo si volatilizza possibilisticamente non essendosi affatto raggiunta la positiva certezza di quali liriche o parti della Vita Nuova si possano legittimamente interpretare col canone dell’esegesi allegorica. Non la questione manca, ma l’oggetto stesso solido, sicuro, ben definito, della questione.
Poiché, dopo fatte ai sostenitori dell’allegorismo tutte le concessioni possibili, ammessa cioè l’allegoria come un elemento interno, non accessorio, dell’arte dantesca (ci riferiamo sempre alle Rime e alla Vita Nuova), ammessa l’intima simbiosi di dato poetico e dato allegorico, di poesia e simbolo; poiché il segno poetico nasce e vive di sé e per sé e insieme di quella funzione indicativa del dato simbolico e perciò n'è condizionato, resterà sempre da domandarsi: come determinare in sede critica ed estetica la misura di quella simbiosi e di quella modificazione o particolar vita del dato poetico senza prima aver sicuramente, positivamente determinato il simbolo stesso?
E che dire del fatto, significativo e imbarazzante, che dall'analisi dei caratteri cosiddetti interni della forma poetica di Dante non si è potuto ricavare nessuna indicazione precisa e valida a decidere se una certa lirica sia o non sia allegorica, e che anzi le conclusioni che se ne traggono siano più di una volta tra loro diametralmente opposte?
Il realismo si accaniva nella ricerca dei corpi; l'allegorismo si perde nelle sabbie mobili dell'opinabile, nella ricerca di un presumibile contenuto intenzionale del segno poetico, oscillando acrobaticamente sulla corda che lega quest'ultimo al simbolo. E assai spesso si trova appunto nella viziosa situazione di un acrobata che voglia, restando sulla corda, riunirne nelle proprie mani i due punti terminali.

Date: 2021-12-25