Poetica e poesia di Dante [Cecil Grayson]

Dati bibliografici

Autore: Cecil Grayson

Tratto da: Cinque saggi su Dante

Editore: Pàtron, Bologna

Anno: 1972

Pagine: 61-87

Durante la ricorrenza del settimo centenario della nascita, Dante è stato celebrato (e si celebra tuttora) come il sommo poeta d'Italia e come uno dei più grandi scrittori di tutti i tempi. In quest'anno possiamo dire dell'autore della Commedia, come Dante disse di Virgilio, che la sua fama «ancora nel mondo dura, e durerà quanto il mondo lontano». Per noi questa riputazione dantesca è cosa pacifica. Ma non fu sempre così. Già fino dai tempi di Dante l'ammirazione per il divino poema andò commista con riserve e controversie riguardanti la sua forma e il suo contenuto. Durante il Rinascimento e giù fino alla fine del '700 il gusto letterario fu sempre più contrario a quanto parve il barbarismo _ gotico della narrativa, della lingua e dello stile della Commedia. Tanto che si potrebbe dire, semplificando di molto le cose, che solo dall'età romantica in poi Dante è stato riconosciuto come il poeta universale a cui oggi rendiamo omaggio. Da quella stessa età romantica cominciò anche la tradizione moderna negli studi danteschi che hanno consolidato la sua fama e chiarito e illustrato, con ricerche storiche e critiche sempre più abbondanti, la vita e gli scritti del poeta. Forti di più ampie conoscenze, liberi ormai dai pregiudizi di carattere storico, politico o religioso che oscuravano la fortuna di Dante fino alla fine del '700, e scevri pure di certi concetti romantici intorno all'arte e all'interpretazione del medio evo, noi abbiamo maggiore possibilità di vedere le cose con distacco e di capire meglio il poeta e la sua poesia entro i termini che sono loro propri. In questo mio discorso vorrei tentare di dare uno sguardo generale allo sviluppo della poetica e della poesia di Dante con lo scopo di illustrare i rapporti tra il suo capolavoro e le sue esperienze poetiche antecedenti; perché questo studio potrebbe aiutarci a capire anche certi aspetti della fama e della fortuna critica del poeta.
Quando, all'età di 40 anni, Dante compose la sua opera maggiore sull'arte poetica, era in esilio fuori di Firenze, dove si era già fatta una considerevole riputazione come poeta lirico. In gioventù aveva cominciato a comporre collo stile di Guittone d'Arezzo; ma si era presto staccato, insieme con altri coetanei fiorentini, e sotto l'influsso del bolognese Guinizelli, dal manierismo retorico e dalle contorsioni dialettiche dell'aretino provenzaleggiante, per concentrarsi invece esclusivamente sul tema dell'amore. Dante creò allora quello che egli chiama il «dolce stil novo», di cui dà una definizione assai discussa in una conversazione col rimatore lucchese Buonagiunta nel Purg. XXIV, 49-62:

«Ma dì s'i' veggio qui colui che fore
trasse le nove rime, cominciando
Donne ch'avete intelletto d'amore».

E io a lui: «I' mi son un, che quando
Amor mi spira, noto, e a quel modo
ch'e' ditta dentro, vo significando».

«O frate, issa vegg'io», diss'elli, «il nodo
che 'l Notaro e Guittone e e me ritenne
di qua del dolce stil novo ch'i' odo.

Io veggio ben come le vostre penne
di retro al dittator sen vanno strette,
che de le nostre certo non avvenne;

e qual più a riguardare oltre si mette,
non vede più da l'uno a l'altro stile».
E, quasi contentato, si tacette.

Non entro qui a discutere questo passo. Mi limito a sottolineare alcuni punti: primo, Dante qui si distingue, non già da poeti contemporanei ma da una generazione più vecchia, di Siciliani e Guittoniani: secondo, questa distinzione consiste nella stretta aderenza ai dettami dell'amore; terzo, il novo stile comincia con una particolare canzone dantesca, che figura nella Vita Nuova. Bisogna risalire a quest'opera giovanile per intendere l'importanza che Dante attribuisce a quella canzone, e per leggere la prima formulazione di una poetica dantesca. La Vita Nuova è opera autobiografica in due sensi, amoroso e poetico, strettamente legati insieme: narra pari passo lo svolgimento del suo amore per Beatrice e l'evoluzione della sua poesia, dal sonetto che gli portò l'amicizia del Cavalcanti, attraverso le rime di stile guittoniano, provenzaleggianti, caratterizzate da una concezione tragica dell'amore e preoccupate delle peripezie amorose, fino alla più semplice e serena celebrazione dell'amore come forza che nobilita l'uomo e trascende perfino la morte. In questa doppia storia la svolta decisiva nell'amore e nella poesia è spiegata nel cap. 18 che prelude alla canzone Donne ch'avete. Improvvisamente, sembra, l'amore cessò di esistere fuori del poeta in manifestazioni esterne come il. saluto che gli era stato negato da Beatrice, e diventò invece parte di lui, non più incerto del suo oggetto, oramai identificato con la nuova poesia della lode. Sono questa sicurezza e questa identità a determinare il dolce stil novo: e Dante ne descrive la nascita nelle parole seguenti:

Avvenne poi che passando per uno cammino lungo lo quale se già uno rivo chiaro molto, a me giunse tanta volontade di dire, che io cominciai a pensare lo modo eh 'io tenesse; e pensai che parlare di lei non si convenia che io facesse, se io non parlasse a donna in seconda persona, e non ad ogni donna, ma solamente a coloro che sono gentili e che non sono pure femmine. Allora dico che la mia lingua parlò quasi come per se stessa mossa, e disse: Donne ch'avete intelletto d'amore. Queste parole io ripuosi ne la mente con grande letizia, pensando di prenderle per mio cominciamento; onde poi, ritornato a la sopradetta cittade, pensando alquanti die cominciai una canzone con questo cominciamento...

La canzone dantesca celebra Beatrice come creatura di origine divina, la cui missione in terra è quella di nobilitare attraverso l'amore quelli che la vedono, e il cui ritorno è desiderato in cielo. Ciò che nella canzone guinizelliana Al cor gentil ripara sempre amore era stato una semplice apologia, qui diventa sostanza essenziale di una nuova poesia d'amore. Il modo, però, in cui Dante giunse a formularla, non è tale da convalidare l'interpretazione romantica dell'ispirazione a cui egli accenna nella conversazione con Buonagiunta. I dettami d'amore di cui parla sono sentimentali, ma sono anche, e soprattutto, intellettuali; e, come Dante allora vide, sono gli unici dettami legittimi per la poesia volgare. Il cap. 25 della Vita Nuova espone chiaramente il principio al quale Buonagiunta si riferisce, cioè che storicamente non è lecito scrivere poesie volgare se non d'amore. Nel sonetto precedente, nel cap. 24, Dante aveva rappresentato l'Amore come persona che rideva e parlava. Nel cap. 25 crede necessario spiegare questa personificazione e così formula la sua prima dichiarazione di teoria poetica:

A cotale cosa dichiarare, secondo che è buono a presente, prima è da intendere che anticamente non erano dicitori d'amore in lingua volgare, anzi erano dicitori d'amore certi poete in lingua latina; tra noi dico, avvegna forse che tra altra gente addivenisse, e addivegna ancora, si come in Grecia, non volgari ma litterati poete queste cose trattavano. E non è molto numero d'anni passati, che apparire prima questi poete volgari; ché dire per rima in volgare tanto è quanto dire per versi in latino, secondo alcuna proporzione. E segno che sia picciolo tempo è, che se volerne cercare in lingua d'oca e in quella di sì, non troviamo cose dette anzi lo presente tempo per cento e cinquanta anni. E la cagione per che alquanti grossi ebbero fama di sapere dire, è che quasi fuoro li primi che dissero in lingua di sì. E lo primo che cominciò a dire sì come poeta volgare, si mosse però che volle fare intendere le sue parole a donna, a la quale era malagevole d'intendere li versi latini. E questo è contra coloro che rimano sopra altra matera che amorosa, con ciò sia cosa che cotale modo di parlare fosse dal principio trovato per dire d'amore.

Dante passa poi ad esemplificare l'uso della prosopopeia fatto da Virgilio, Lucano, Orazio e Ovidio, opponendolo a quello abusivo di alcuni poeti moderni. Ma a parte questa polemica contro certi innominati, che non sarebbe per altro difficile identificare, è notevole in questo passo il fatto che Dante, guardando indietro alla tradizione poetica romanza, la vede come continuazione, sebbene in un campo ristretto, della poesia latina. Anzi, proclama l'identità dell'attività poetica in latino e in volgare: la poesia volgare d'amore ebbe origini pratiche e storiche, ma la sua funzione e i suoi mezzi di espressione non sono diversi dal fatino: essa pertanto sta alla pari con la poesia latina e può e deve misurarsi con essa. Ecco i primi elementi di una poetica di imitazione della poesia latina, che Dante doveva elaborare più tardi nel De Vulgari Eloquentia. Eppure le tracce di questa imitazione non sono evidenti nelle poesie della Vita Nuova all'infuori del riscontro già acoenato della prosopopeia. E si potrebbe obiettare che il cap. 25 esprime una poetica volgare molto limitata e limitante, con la discussione superficiale di uno solo e per giunta piuttosto semplice mezzo retorico. Ma io credo che in questa digressione Dante si limitò deliberatamente; dietro la sua critica dell'abuso dei mezzi retorici da parte di poeti precedenti, sta la propria confidenza nel giusto uso della retorica, non come aggiunta e come ornamento, bensì come mezzo essenziale per esprimere una nuova, più raffinata e aristocratica poesia d'amore.
Ma la composizione della Vita Nuova segna il culmine, non l'inizio di questo genere di poesia. Poco dopo averla composta, egli abbandonò i confini ristretti di quella poetica volgare, - parecchi anni prima di quella immaginaria conversazione con Buonagiunta del 1300 nella Commedia, che si riferisce ad un particolare momento della sua carriera poetica oramai passato. A quello stesso momento ci riporta I'incontro di Purg. XXVI con Guido Guinizelli che Dante riverisce chiamandolo

padre
mio e de li altri miei miglior che mai
rime d'amor usar dolci e leggiadre.

- lo stesso Guinizelli da cui prese e sviluppò il concetto dell'amore che fa tutt'uno col gentile core e quello della natura angelica della donna. Ma Guido Guinizelli modestamente indirizza la lode di Dante verso un'altra figura della stessa cornice, quella di Arnaldo Daniel, che rappresenta un'altra fase ancora, posteriore, dello sviluppo poetico di Dante, molto diversa dalle rime scritte per Beatrice. L'ultimo capitolo della Vita Nuova, il quale alcuni critici hanno cercato, secondo me invano, di spiegare come un'aggiunta molto tarda, contiene la meditata promessa di scrivere un'altra opera in lode di Beatrice, dicendo di lei cosa mai detta prima di nessuna donna, e Dante in quel punto dichiara che sta studiando a questo fine con tutte le sue forze. Ma la promessa, se pronunciata allora sinceramente, non fu mantenuta che almeno quindici anni dopo, e in una forma molto diversa da quella che poteva lasciare suppone la Vita Nuova. Mi pare, insomma, impossibile che al momento di stendere quel capitolo Dante potesse aver in mente un'opera che rassomigliasse alla Commedia, la quale è inconcepibile senza l'allargamento della sua poetica e della sua esperienza poetica durante l'intervallo dall'una all'altra opera.
Quale che sia stata nel 1292 la sua vera intenzione, e ne fosse o no questo il motivo, Dante si dedicò per alcuni anni agli studi filosofici, e scrisse allora certe nuove poesie d'amore che interpretò poi allegoricamente nel Convivio. Queste però, pure essendo sempre poesie d'amore, e di stile non molto diverso da quello delle canzoni della Vita Nuova, non furono scritte per Beatrice; così come non furono scritte per lei le così dette rime petrose del 1296, le quali, con il loro stile aspro e la tecnica difficile imitata da Arnaldo Daniel e con le loro proteste roventi di amore non corrisposto, sono assolutamente il rovescio delle rime dolci e leggiadre. I limiti della sua esperienza poetica si allargano ancora con lo scambio, in quello stesso giro di anni, di sonetti realistici con suo parente Forese Donati: è un periodo pieno non solo di diversi sperimenti poetici ma anche di forti emozioni e di nuove esperienze personali che distolgono il poeta dai suoi studi filosofici e lo conducono nell'arena politica. In questo periodo, dal 1292 al 1298 all'incirca, Beatrice è eclissata nelle poesie di Dante: nuovi problemi, filosofici, morali e personali, vengono da lui espressi in versi che soltanto in parte, ·e anche in quella parte nelle sole apparenze, sono fondati sulla poetica formulata nella Vita Nuova. Di queste rime, e delle canzoni del primo esilio, non posso occuparmi qui particolarmente; ma, secondo me, le due canzoni dottrinali Le dolci rime e Poscia eh' amor starebbero meglio, cronologicamente, collocate nei primi anni dell'esilio dantesco anziché allineate con le canzoni allegoriche della seconda metà dell'ultimo decennio del '200; ma di queste diremo più avanti.
Tra il 1298 e il 1302 Dante scrisse poco o nulla; né il suo silenzio ci sorprende, date le condizioni della sua vita, né ci sorprende il modo di romperlo con la grande canzone Tre donne, in cui egli lamenta il decadimento della giustizia. Ma appena gli fu consentito dallo sconvolgimento della sua vita, egli si mise a riparare ai danni causati da queste esperienze, e riprese in una nuova formulazione i fili dispersi del suo passato, volendo riassumere e anche spiegare a se stesso e ad altri ciò che si era sforzato di fare e dove stava poeticamente. Quasi ad un punto cominciò e poi lasciò incompiute due opere importanti, Convivio e De Vulgari Eloquentia, composte tra il 1304 e il 1307. Il Convivio è esplicitamente un'opera di auto-giustificazione, di riabilitazione presso Firenze e presso i critici e gli interpreti della sua poesia. Con un commento in prosa volgare su 14 canzoni, egli intende aprirne il vero significato e così bandire un convito di sapienza per un vasto cerchio di lettori; perché sebbene queste canzoni, letteralmente intese, paiano poesie d'amore, esprimono invece l'amore della filosofia, alla quale corrisponderebbe, secondo Dante, l'amore di quella gentile donna che l'aveva confortato dopo la morte di Beatrice nella Vita Nuova. Non entro qui a discutere la credibilità di questa identificazione e i relativi problemi. Una cosa almeno è chiarissima: cioè che il Convivio vuol essere la giustificazione dell'amore per la filosofia in oblio di Beatrice, e la difesa di un concetto della poesia molto diverso da quello posto in essere e in un certo senso fatto oggetto di spiegazione nel libro di Beatrice, la Vita Nuova. Nell'opera giovanile l'autore aveva discusso della prosopopeia, e genericamente di altre figure e colori retorici, senza però mai parlare di allegoria né accennare ad eventuali significati nascosti delle poesie di quel libro. Oltre al racconto biografico, Dante aveva dato nelle prose qualche spiegazione formale delle rime, ma in modo fin troppo semplice e che non ha niente che vedere con l'allegoria. Tutto ciò mi sembra stare manifestamente contro la-tesi della concezione originariamente allegorica della donna gentile come figura della filosofia, malgrado quello che in proposito l'autore cerca di persuaderci nel Convivio.
La poetica che sta dietro alle nuove canzoni, è invece quella di una poesia che sussiste e poggia su almeno due piani: il letterale, per cui paiono in superficie come poesie d'amore (di passione, dice Dante), e l'allegorico, per cui possono rivelarsi come poesie filosofiche (di vertù), che richiedono, e dànno la possibilità di dimostrare, larghe conoscenze scientifiche. La poesia, dice Dante, è una «bella menzogna» che nasconde una «veritade ascosa». Avrebbe potuto cavare questa formula da Orazio, ma l'avrebbe trovata ugualmente nelle secolari discussioni da Agostino a Tommaso intorno alla verità o alla falsità della poesia. Ma non c'è nel Convivio nessun accenno esplicito a queste antiche controversie, che dovevano di lì a poco riaccendersi e provocare le note difese della poesia del Trecento, dal Mussato al Boccaccio. Le poesie d'amore in volgare incluse nella Vita Nuova non richiedevano altra difesa se non quella della tradizione storica abbozzata nel cap. 25. A queste nuove poesie del Convivio basta ora la difesa consistente nel fatto che, come la poesia antica, la loro bellezza esterna è una finzione attraente capace di rivelare agli intenditori una verità o sentenza interna. Una cosa è la bellezza, un'altra, diversa, la bontà di queste poesie. Un'eco, però, delle antiche controversie si potrebbe ravvisare nell'accenno, che Dante poi non sviluppa, alla differenza tra l'allegoria dei poeti e quella dei teologi; cioè che, mentre i poeti partono da una verità letterale inventata, ossia immaginata (ed era proprio questo il punto avversato dai nemici della poesia, che condannavano le favole pericolose dei poeti, soprattutto dei poeti pagani), i teologi invece partono dal testo della scrittura che non è favola ma verità storica. E benché Dante nel Convivio sembri volerci far credere, con la sua esposizione dei quattro sensi delle scritture, che il terzo ed il quarto, cioè il morale e l'anagogico, siano applicabili anche alle sue poesie, egli non ci torna poi sopra nel resto del commento; soltanto i primi due, il letterale e l'allegorico, vengono da lui spiegati, mentre gli altri sono lasciati indietro non si sa bene se come residui inutili di un sistema esegetico tradizionale o come ardui sensi da lasciare a più difficile ricerca.
Occorre, però, a questo punto, chiarire alquanto il concetto allegorico della poesia enunciato nel Convivio. Prima di tutto, non sappiamo con certezza che Dante, quando compose le canzoni ivi cementate, le avesse concepite come rime a doppio senso. Esse vengono generalmente assegnate ai primi anni dell'ultimo decennio del sec. XIII, dieci anni almeno, cioè, prima della stesura del commento del Convivio. Ma qual che sia stata l'intenzione originaria di Dante, il fatto rimane che in quest'opera le canzoni diventano tante occasioni per profonderne istruzione morale e filosofica in prosa volgare; ed è chiaro che questo commento gli importa molto più che le poesie. Nel Lib. IV, la canzone Le dolci rime d'amor ch'io solia non ha niente di allegorico; è un breve trattato sulla nobiltà scritto in versi, ma viene amplificato distesamente nel più lungo libro di quest'opera incompiuta. L'abbia l'autore composta quando si voglia - e ho già proposto la possibilità che ciò sia stato nei primi anni dell'esilio, - essa non si accorda in nessun modo con lo schema iniziale del Convivio, che prometteva di aprire il vero significato di certe poesie d'amore per dimostrar che trattano, invece, di filosofia . Questo fatto sembra indicare chiaramente che è il contenuto morale, scientifico e politico, che spinge Dante a scrivere, insieme con la esplicita convinzione che questa sua prosa italiana gli permetterà di far vedere, assai meglio che la poesia, la bellezza e le capacità del volgare. In questo contesto le considerazioni poetiche, e con esse le virtù allegoriche della poesia, perdono importanza; e nasce il sospetto che queste non fossero che una comoda scusa, o almeno un semplice punto di partenza per mète tutt'altro che poetiche. La Vita Nuova fu composta al culmine di certe esperienze poetiche, che Dante ivi riassunse prima di passare quasi subito ad altre molto diverse o assolutamente contrarie; eppure nella Vita Nuova rime e prosa sono intimamente legate in una unità di stile e contenuto. In confronto, il Convivio pare, ed è effettivamente la voluta sovrapposizione ad una esperienza poetica di gran lunga passata, di certe urgenti preoccupazioni, che egli non aveva ancora tentato, oppure non aveva trovato modo di esprimere attraverso la poesia. Secondo me, c'è qualcosa d'artificiale e forzato in questo connubio tra poesia e prosa, e lo stesso vale per tutto il concetto della poesia come allegoria che Dante ha posto come fondamento di quest'opera.
In secondo luogo, conviene precisare un poco la natura dell'allegoria che Dante qui presenta e spiega. La forma e il contenuto di queste canzoni sono simili a quelli delle canzoni e dei sonetti d'amore, in quanto la bellezza della donna, gli occhi, i suoi effetti, la sua resistenza, ecc. sono rappresentate nelle canzoni, e poi r interpretate nei termini delle virtù della filosofia, e dell'esperienza e della difficoltà provate da Dante nella coltivazione di questo nuovo amore. Ma è una interpretazione piena di digressioni, la maggior parte dell'opera essendo dedicata, non alla spiegazione dell'allegoria, bensì ad un commento erudito sopra certi elementi dottrinari che ne nascono in margine; come, per esempio, la lunga spiegazione della struttura dei cieli e il paragone con le varie scienze, che muovono dall'accenno al terzo cielo nel primo verso della prima canzone. Tutto ciò contribuisce a rafforzare l'impressione che siamo in presenza di una sovrastruttura eretta su fondamenta ristrette, le quali non furono poste originariamente per portarla.
Queste mie osservazioni mirano a chiarire la natura e la portata del concetto allegorico dantesco della poesia, e a proporre che nel Convivio esso non era molto sviluppato, ed aveva importanza limitata, essendo più che altro puro e semplice espediente di divulgazione scientifica. Non sappiamo perché Dante abbandonasse il Convivio, lasciandolo incompiuto (recentemente il Nardi ha sostenuto che venne interrotto dalla composizione del De Monarchia) , ma l'opera a me sembra contenere i semi della propria disintegrazione, evidenti soprattutto nel Lib. IV. Lasciare le dolci rime, magari allegoriche, per un discorso letterale in versi, voleva dire riconoscere che i confini della poesia amorosa, per quanto interpretata allegoricamente, erano troppo ristretti, e anzi insufficienti per scopi diversi da quelli per cui l'aveva adoperata ai tempi del dolce stile. Se voleva dire altre cose in poesia invece che in prosa, doveva cercare un'altra forma più capace, e non necessariamente allegorica.
È lecito supporre che Dante abbia cominciato il De Vulgari Eloquentia dopo il Convivio; e forse l'abbandonò in tronco poco dopo aver lasciato anche questo incompiuto. Il De Vulgari Eloquentia riflette la fiducia di Dante nella propria riputazione di poeta e nella sua capacità di insegnare ad altri come scegliere e adoperare il volgare illustre d'Italia. A questo sommo strumento convengono soltanto il sommo stile e la più alta forma, cioè quella della canzone; e in questo campo Dante cita se stesso come poeta della «vertù», cioè delle canzoni del Convivio, e Cino da Pistoia come poeta dell'amore, Ciò non esclude la citazione anche di poesie d'amore di Dante stesso, né implica la superiorità o la necessità dell'allegoria, che non è menzionata né discussa. La definizione dantesca della poesia come «fictio rhetorica musicaque poita», potrebbe sì far pensare che egli stia riformulando il concetto della poesia come una bella menzogna; ma secondo una recente indagine del Paparelli intorno alla storia della parola «fictio», questo termine non voleva dire inevitabilmente per Dante e per i suoi contemporanei una finzione destinata a nascondere un'altra verità. Poteva essere adoperato da lui per significare semplicemente, nel modo più generale, la sostanza immaginativa della creazione a cui il poeta dà forma ed espressione per mezzo della retorica e della musica, cioè attraverso la elaborazione artistica del linguaggio e la disposizione ritmica in versi. Così «fictio» sarebbe quello che il poeta crea o inventa, in contrasto con quello già creato ed esistente fuori di lui. Dante ne dice molto poco; ma è chiaro che aveva un altissimo concetto della attività poetica, almeno al livello di ciò che chiama il «tragico stile», e che metteva sullo stesso piano, come aveva fatto nella Vita Nuova, poeti latini e rimatori volgari. La definizione della poesia già citata è applicabile agli uni e agli altri. La differenza se mai consiste nel fatto che i «magni poeti» composero i loro versi in un linguaggio e con un'arte regolari, mentre i moderni hanno scritto e scrivono «casu magis quam arte». Lo scopo principale del De Vulgari Eloquentia è di rimediare a questa situazione; e la fondamentale originalità di Dante sta nel riconoscere la possibilità di creare una lingua ·e un'arte regolare valida per il volgare. Risulta perciò, per Dante, che più si imiteranno i poeti regolari, cioè latini, e meglio si comporranno versi volgari; e. non solo con lo studio delle loro opere teoriche, come l'Ars poetica oraziana, citata da lui diverse volte, ma anche imparando dalle loro poesie le più nobili costruzioni ed espressioni. Dante tuttavia non intendeva con ciò formulare un principio d'imitazione uguale a quello inteso e seguito più tardi dagli umanisti. Quando all'inizio dell'Inferno incontra Virgilio, Dante l'accoglie con queste parole:

Tu se' lo mio maestro e 'l mio autore;
tu se' solo colui da cui io tolsi
lo bello stilo che m'ha fatto onore.

Ora questo «bello stile» non può essere altro che quello delle canzoni di «vertù» del Convivio; e se ne ha la più chiara conferma nel De Vulgari Eloquentia, dove Dante classifica la tragedia come lo stile più alto, la commedia come uno stile inferiore, e l'elegia come lo stile più umile. Si sa che questi non erano per Dante generi letterari, e tanto meno forme drammatiche; erano solo diverse e distinte qualità di soggetto e di espressione ad esso convenevole. Così egli scrive:

Si tragice canenda videntur, tunc assumendum est vulgare illustre, et per consequens cantionem oportet ligare. Si vero cornice, tunc quandoque mediocre, quandoque humile vulgate sumatur...,

e promette di trattare dello stile comico nel lib. IV, che egli non giunse mai a stendere. Se poi ricordiamo che Dante lascia designare l'Eneide da Virgilio come «l'alta sua tragedìa», (Inf. XX, 113), cominciamo a intendere più chiaramente come Dante abbia potuto asserire che aveva imitato lo stile di Virgilio nelle sue canzoni, e a capire anche perché egli abbia parlato del suo poema come di una comedìa. La distinzione dei tre stili, alto, mezzano e umile, gli veniva dalla tradizione retorica medievale; ma l'identificazione di essi con la tragedia, la commedia e l'elegia, sembra non avere precedenti . Essa è, comunque, assai importante per intendere l'atteggiamento dantesco verso la poesia antica e il concetto che ne aveva come modello per la poesia volgare moderna. Nel De Vulgari Eloquentia ci insegna questo soltanto con riguardo allo stile tragico:

Stilo equidem tragico tunc uti videmur, quando cum gravitate sententie tam superbia carminum quam constructionis elatio et excellentia vocabulorum concordat.

E il resto dell'incompiuto lib. II tratta particolarmente di questi attributi della poesia volgare. Dante parla poco dell'ispirazione; molto invece del bisogno di metterci lavoro assiduo, salda dottrina, e 'discretio', cioè buon gusto e discernimento. Non c'è posto nemmeno qui per la spontaneità romantica. Il poeta si abbevera all'Elicona: ed è la sola allusione all'ispirazione; d'or innanzi, «hoc opus et labor est»; e occorre inteIIigenza e lungo tirocinio nell'arte e nella scienza.
Ma i poeti che possiedono queste qualità, scrive Dante, «hii sunt quos poeta Eneidorum sexto dei dilectos et ardente virtute sublimatos ad ethera deorumque filios vocat, quanquam figurate loquatur». Citando Virgilio Dante è consapevole di essere uno di questi pochi eletti, di rassomigliare ai poeti antichi, non perché esistano strette affinità di materia tra le sue canzoni e le loro epopee, bensì per la comune ricerca di un altissimo ideale di espressione poetica, di un perfetto simbiosi della gravità del contenuto nella nobiltà della forma, come appunto si vede in quello «bello stilo» che gli aveva fatto onore.
Precisamente come la Vita Nuova e il Convivio, il De Vulgari Eloquentia guarda indietro ad esperienze poetiche già passate, e le riassume, estraendone però questa volta, non già una lezione della sua vita sentimentale o della sua missione di dotto, ma un ideale aristocratico di lingua e di poesia, il quale delimita la scelta delle parole, la costruzione dei versi, ecc., che si convengono ai tre più nobili temi: Salus, Venus, Virtus. Ma, sebbene nei suoi principi linguistici e stilistici quest'opera possa dirsi profetica, per Dante non segna il suo avvenire. È come se con il De Vulgari Eloquentia egli avesse raggiunto la cima di una montagna da cui predicare agli altri, senza più giovare a sé; perché scrivere con altro stile non poteva significare ·che scendere di lassù, e fare opera, secondo la classificazione del De Vulgari Eloquentia, inferiore, e non italiana, ma comunale. Come nel caso della Vita Nuova e del Convivio, la riflessione e la teoria poetica fanno seguito alla relativa esperienza; non la dettano. E col De Vulgari Eloquentia ci troviamo alla fine di una lunga tradizione convenzionale di poesia amorosa, dai Provenzali fino a Dante, della quale quasi tutte le possibilità erano state esaurite. Per colmare il processo manca soltanto la voce intensamente personale del Petrarca, che pare il vero erede della aristocrazia linguistica ed artistica del De Vulgari Eloquentia.
E come dopo la Vita Nuova e dopo Convivio, così dopo De Vulgari Eloquentia, nuove esperienze sopravvengono per assorbire, trascendere e anche contradire alla poetica ivi formulata, o meglio in via di formulazione. Non sappiamo precisamente quando Dante mettesse mano al poema che egli chiama la sua «comedìa» in contrasto con la «tragedia» di Virgilio. Fu però certo posteriormente al De Vulgari Eloquentia, e ne segnò forse la interruzione; sicuramente fu prima del 1313. Ma qual che sia stata tra il 1307 e il 1313 la data dell'inizio della Commedia, questo vasto poema narrativo va molto oltre i confini della poesia e della poetica di Dante, che. abbiamo fin qui tracciati. Certo, Dante non arrivò mai a stendere quella parte del De Vulgari Eloquentia in cui avrebbe trattato dello stile comico, ma pare difficile immaginare che all'atto della concezione egli avesse in mente una così vasta mescolanza di Linguaggi e di stili sì diversi quali vediamo nel capolavoro. Basti ricordare il passo già citato, secondo cui il comico stile altro non sarebbe che una mescolanza del volgare mezzano con l'umile, laddove nel grande poema balza agli occhi e all'animo di ogni lettore anche il volgare sublime, illustre, come in tutti quei passi che possiamo dire, usando la terminologia dantesca, tragici. La Commedia taglia verticalmente attraverso la stratificazione essenzialmente orizzontale di lingua e stile stabilita nel De Vulgari Eloquentia, e contravviene, mescolando elementi nobili, grotteschi e sordidi, ai principi classici del decoro. È vero che qua e là nel passato di Dante si possono ritrovare i semi del realismo e della forza, dell'asprezza e della sublimità che passano poi nel suo poema: le esperienze dell'ultimo decennio del '200, la tenzone con Forese, le rime petrose, le canzoni allegoriche e dottrinali . Ma questi sono momenti brevi, isolati, stilisticamente coerenti e compatti in se stessi. Non adombrano né l'estensione né l'amalgama della Commedia. Laddove prima aveva tentato, in momenti diversi, i vari stili, con preferenza per il bello stilo, nella Commedia invece li prova tutti insieme, accomodando perennemente la varietà dello stile alla gran varietà della materia, esplorando ed estendendo le capacità di quel volgare che poco prima aveva cercato di restringere e raffinare come sommo strumento della poesia italiana. È chiaro che gli ideali classici del De Vulgari Eloquentia sono stati abbandonati, e al loro posto s'impone un nuovo concetto e un nuovo uso dei poeti antichi. Nelle canzoni tragiche Dante aveva imitato Virgilio nel modo che abbiamo visto, imparando da lui una lezione generale di perfetto equilibrio tra contenuto grave e stile nobile. Quando Dante entra nell'Inferno, questo bello stilo gli è già alle spalle; e davanti gli sta un viaggio simile a quello di Enea, attraverso un mondo noto a Virgilio, pieno di ricordi virgiliani e appena meno ricco di echi ovidiani. Questo genere di classicismo, cioè di imitazione degli antichi, da cui il poeta prende liberamente materiale, mitologia, invocazioni, similitudini e metafore e così via, tutto ciò è interamente diverso da quell'idea di imitazione che Dante aveva in mente ai tempi del De Vulgari Eloquentia o che egli avesse mai praticata nelle sue poesie.
Ma, se il poema così creato prova a noi la capacità del genio dantesco di comporre in una vasta sintesi poetica il mondo pagano e il mondo cristiano, assimilando arte e scienza antiche e filosofia e teologia medievali, e espandendo infinitamente le possibilità di un mezzo espressivo che prima l'autore aveva considerato inferiore al latino e adatto alla sola poesia d'amore, esso suscitò per la posterità gravi problemi di valutazione estetica, che stanno alla base di una lunga tradizione di frantumazione della poesia della Commedia dal '400 fino al Croce. La grande varietà di contenuto e di stile del poema, che costituisce per noi la sua forza, costituì per secoli un ostacolo alla sua piena ricognizione, essendo l'antitesi di tutto ciò che prima Dante aveva tentato di fare, e il contrario delle tendenze classiche che dominarono la letteratura europea fino al secolo decimottavo. Non sappiamo, e forse non sapremo mai, quale fosse precisamente la profonda esperienza che spinse Dante a scrivere la Commedia, e determinò questo fondamentale cambiamento di direzione nella sua poesia e nella sua poetica, per cui passò da un ideale aristocratico ad un bisogno democratico di comunicare a tutti gli uomini una sua visione personale di significato universale. Prima era stato il poeta d'amore, esoterico, allegorico, quasi impersonale; ora diventa il poeta-vate, intensamente personale, onnisciente, imperioso, pieno di fiducia nel poema a cui han posto mano e cielo e terra. Ha l'entusiasmo e la vitalità spirituale dei profeti biblici, e ne ritrae il linguaggio enigmatico e figurativo, nonché il loro zelo riformatore. La narrazione del suo viaggio non ha che scialbi precedenti nella letteratura visionaria del medio evo. La sua non è una visione come quelle dei tanti viaggiatori sonnambuli. Non è una finzione inventata per significare qualcosa d'altro, non è una bella menzogna che copre una veritade ascosa; non è, come le canzoni allegoriche, una invenzione espressa in certi termini, che poi riveli significati diversi. In un certo senso, si potrebbe dire, paradossalmente, una vera finzione, un resoconto di un'esperienza che Dante ci vuole far credere effettivamente avvenuta nella realtà. La sua narrazione ha tutti gli accessori della realtà: Inferno, Purgatorio e Paradiso ne fanno parte, non come dementi fittizi, ma come regioni aventi vera consistenza topografica. Dante ci poteva benissimo andare perché esistono fisicamente come parti dell'universo. Enea ci andò, e San Paolo, sensibilmente; ora anche Dante.
Quasi non occorre dire che ci troviamo qui davanti ad un concetto della poesia del tutto diverso da quello del Convivio. Spiegando allora i quattro sensi, Dante aveva menzionato la distinzione tra l'allegoria dei poeti e quella dei teologi; e fece bene a non cercare di applicarli tutti alle sue canzoni, perché convengono propriamente soltanto ai testi sacri di cui il senso letterale, essendo la parola di Dio, è vero e non inventato come quello dei poeti. Quei testi possono avere vari sensi, perché Dio solo ha il potere di conferire significato eterno alle -cose e alle parole di questo mondo. Perciò, come ha detto bene il Mazzeo, Dante sembra correre il rischio nel Convivio di confondere un metodo di esegesi biblica con un metodo di composizione poetica, dal momento che nessun poeta può creare un'opera che si conformi a quel metodo che è prerogativa divina . Nel Convivio, però, Dante non presumeva tanto; la sua poetica seguiva un’idea tradizionale dell’invenzione sostenuta e giustificata dalla verità nascosta, ed entro questa tradizione egli voleva dimostrare i diritti delle sue canzoni amorose alla stima dei dotti in base al loro contenuto etico e scientifico. Nella Commedia invece il bisogno di tale giustificazione scompare perché la poesia come favola, come menzogna, ha dato luogo alla poesia come verità.
Come interpretare allora la famosa lettera a Can Grande della Scala, accettata dalla maggioranza dei critici come scritto autentico di Dante? Ivi è detto che il poema ha diversi sensi, e precisamente gli stessi quattro che abbiamo già incontrati. Il solo esempio citato per illustrarli è quello del biblico «Israel ex Aegypto», e non vi si fa nessuna riserva intorno all'allegoria dei poeti come nel Convivio. Eppure l'epistola si limita a chiarire soltanto il senso letterale e quello allegorico della Commedia, che sarebbero rispettivamente: «status animarum post mortem non contractus sed simpliciter acceptus»; e «homo prout merenda et dernerendo per arbitrii libertatem est iustitie premiandi et puniendi obnoxius». Le difficoltà implicite nell'accettare I'epistola come opera di Dante e nell'applicarne l'interpretazione alla Commedia sono numerose e complesse. La definizione del soggetto del poema appare fin troppo semplice; il senso allegorico si distingue appena da quello letterale; e una difficoltà fondamentale si presenta quando si cerca di paragonare il poema e l'esempio biblico citato: è difficile cioè paragonare un avvenimento storico di questo mondo che prefigura l'altro con la descrizione di un viaggio nell'altro mondo. La Commedia raffigura già l'altro mondo, e perciò pare abbracciare tutto col senso letterale. Nel poema non vediamo le cose di questo mondo che simbolizzino la vita futura, ma la vita futura stessa. Non è facile, insomma, cercare un'altra interpretazione di qualcosa che ipsa natura dovrebbe già contenere la verità intera. Per queste ragioni, che che ne abbiano detto in passato e dicano tuttora commentatori e interpreti, è impresa disperata tentare di distinguere attraverso il poema diversi livelli netti e precisi di significati letterali, allegorici, morali ed anagogici. Non voglio dire con ciò che non ci sia allegoria nella Commedia; ma è sporadica anziché fondamentale. Qualche volta Dante attira l'attenzione del lettore sulla dottrina che s'asconde sotto il velame dei versi strani (lnf., IX; 62-3), e ci sono cerci episodi e certe descrizioni che hanno evidentemente significato nascosto. Ma il senso e la forza del poema stanno nel carattere diretto e aperto della vasta e complessa narrazione, nella vivacità della rappresentazione di uomini e di cose .
Se l'epistola a Can Grande ci lascia insoddisfatti, dobbiamo concludere che non sia di Dante? Non credo. Anzi, la storia della sua carriera poetica, quale l'abbiamo tracciata, induce a pensare che al momento della creazione poetica dovette per forza succedere quello della riflessione critica. Come abbiamo visto parlando della Vita Nuova, del Convivio e del De Vulgari Eloquentia, Dante si forma a diversi momenti per guardarsi indietro e formulare la sua poetica sull'esperienza poetica passata; prima si fa poesia, poi ci si pensa sopra, ma non sempre con risultati compiuti o soddisfacenti. Nulla di più naturale, perciò in questa serie, di un qualche tentativo di autocommento anche per la Commedia. Né dovrebbe sorprenderci l'inadeguatezza di questo tentativo, se è rappresentato dall'epistola a Can Grande; ché Dante si è servito del solo strumento critico-esegetico a sua disposizione, del tradizionale accessus e dello schema dei quattro sensi. Se tale strumento riesce inadatto a spiegare il poema, tanto peggio per quel tipo tradizionale di critica. E guai a noi, se cadiamo nella trappola di supporre che Dante abbia composto il poema partendo dalla poetica incorporata nell'epistola. Un tale modo di procedere sarebbe contrario a tutta la esperienza di Dante, in cui il momento critico viene sempre dopo e non detta mai la poesia da fare. Vista in questa luce, l'epistola acquista il valore relativo che le spetta e cessa di essere quella camicia di forza che alcuni vorrebbero.
A chi legge la Commedia è impossibile non tener conto della convinzione di Dante, spesso ripetuta, di adempiere una missione divina, di essere stato scelto, dopo Enea e S. Paolo, a rivelare agli uomini una speciale visione della giustizia di Dio. Ora, nell'epistola a Can Grande, l'espressione dell'ineffabile nel Paradiso viene paragonata col linguaggio di Ezechiele e di Daniele, e con quello dei mistici Riccardo di S. Vittore e Bernardo, e Platone è citato per illustrare l'uso del linguaggio metaforico nell'esprimere le cose percepite dall'intelletto che la lingua normale non può formulare. Insomma, chi scrive sembra voler arrogare alla poesia, - come effettivamente Dante stesso nel suo poema -, la possibilità, al pari della filosofia e della teologia, di esprimere le verità eterne per mezzo dell'intelletto . Tale concetto delle funzioni della poesia è molto diverso da quello che informa il Convivio; e attuato nella Commedia, dà luogo a una poesia assai più varia di quella limitata delle canzoni allegoriche. Già nel Convivio Dante intravvedeva la possibilità che la poesia raggiungesse, sebbene indirettamente, l'espressione della verità filosofica. Nella Commedia invece egli affronta direttamente, senza veli e con piena fiducia l'espressione poetica delle più profonde esperienze intellettuali e spirituali. Qui, - e dicano gli interpreti, Dante incluso, quello che vogliono, - bellezza e bontà splendono nella poesia del senso letterale.
Sotto questo senso letterale, i lettori continueranno a trovare altri significati più vari e profondi, perché il poema dantesco possiede insieme con poche altre opere d'arte, il carattere di fonte inesauribile di sapienza e di ispirazione. Non è stata mia intenzione di sottovalutare questo aspetto del poema. Ho voluto invece richiamare l'attenzione sull'originalità poetica della Commedia in rapporto con la poesia e la poetica dantesca delle opere anteriori; e a questa devo ora tornare per concludere. È stato detto molto spesso che la Commedia riassume tutta la scienza e l'esperienza di Dante in un discorso poetico autobiografico e allo stesso tempo universalmente valido, al quale servono come proemio e preparazione la Vita Nuova e il Convivio; e in senso più largo, che il poema è una specie di summa, l'ultima grande enciclopedia del medio evo. Ma bisogna aggiungere che sul piano della evoluzione poetica di Dante questo punto d'arrivo non sembra né logico né prevedibile, anche se, mentre formulava nel De Vulgari Eloquentia l'ideale di una poesia aristocratica e raffinata chiusa tra limiti assai ristretti, egli si sforzava allo stesso tempo di allargare con la prosa del Convivio gli stessi confini di quella poetica e di raggiungere così una più ampia cerchia di lettori. La soluzione eclettica dello stile della Commedia assorbe in sé e anche contraddice quella poetica, e vi aggiunge una nuova dimensione nella forma della terza rima. Allora la poesia d'amore allegorica e le canzoni dottrinali vengono abbandonate a favore di un più largo concetto della poesia, capace di esprimere direttamente, nell’ambito dello stesso poema, filosofia e teologia, scienza, invettive, profezie, esperienze sentimentali e spirituali, dalle cose più basse alla visione di Dio. Per i critici del Rinascimento Dante così non solo peccò contro il decoro linguistico e stilistico, ma si sforzò incorrettamente e ingiustificabilmente di essere più che poeta. E sebbene i pregiudizi formali siano ormai quasi del tutto scomparsi e la critica moderna abbia accettato e apprezzato la multiformità linguistica e stilistica come veste essenziale della Commedia, l'estensione della poesia alle sfere del pensiero e della scienza, l'espressione attraverso la poesia di soggetti per così dire non-lirici, hanno costituito per molti un problema che oscura ai loro occhi la fondamentale unità poetica della Commedia. Non è giusto però aspettarsi che Dante dimostri di conoscer-e l'estetica moderna, né che il suo poema si conformi con idee poetiche fuori della sua età. Nondimeno, come ho cercato di dimostrare, anche in rapporto alla sua età e alla esperienza antecedente di Dante, la Commedia è una straordinaria novità. In rapporto a tutti i tempi sembra un vero miracolo. Dante la chiamò la sua «comedìa», ma non avrebbe, credo, protestato contro l'aggiunta cinquecentesca dell'epiteto «divina». Al momento di condurla a termine, la chiamò anche il suo «poema sacro», - non soltanto perché trattava di cose divine, ma perché egli vi si era sentito dotato d'ispirazione divina. Questa sua convinzione, fondata su una visione che abbracciava la terra e il cielo, il mondo umano e l'eternità, disciolse tutte le sue teorie poetiche anteriori, e gli dettò in pratica una libertà artistica tale che le regole di allora non potevano contenere, né le poetiche di poi riuscirono ma, a classificare.

Date: 2021-12-25