Per la storia della critica dantesca [Francesco Mazzoni]

Table of contents

Dati bibliografici

Autore: Francesco Mazzoni

Tratto da: Studi Danteschi

Numero: XXX

Anno: 1951

Pagine: 157-202

1. Jacopo Alighieri e Grazio Bambaglioli (1322-1324)

Diciamo subito, in armonia con un principio di realismo critico che mira a definire i commenti quali furono, non come avrebbero dovuto essere per soddisfare le nostre esigenze di metodo e di gusto, che la prima difficoltà per lo studioso è stabilire, fra tanto farraginoso materiale, le linee fondamentali da ricercare e sondare. Il Medioevo poneva il maggior impegno nel concepire la critica letteraria, il commento, come la dichiarazione del contenuto d'un'opera indagato mediante una operazione meramente logica, fondata su riferimenti dottrinali, nel complesso prospetticamente limitata, puntuale e non penetrante.
Il commento rimase cioè su posizioni eminentemente espositive: dichiarative (cioè didascaliche) della cultura oggettivamente racchiusa in un testo; difficilmente si fece interpretativo, sintetico e aderente alla stessa fervida vitalità del pensiero e dell'arte.
Così per i primi commenti alla Divina Commedia: tentativi di cogliere l'universale della poesia, ben di rado evitarono il pericolo maggiore, quello di astrarre per universalizzare, e di affrontare empiricamente, secondo schemi di astratta didascalica, gli episodi più significativi, i motivi caratteristici del testo. Non dovremo attardarci, per ordinare storicamente il complesso movimento attorno alla Commedia, su gli esempi di questa analiticità puntualmente astratta, che spezza l'unità dell'opera indugiando su brani isolati, ridotti a una esegesi dottrinale o moraleggiante, senza collocarli nel circolo vitale dell'interiore dinamismo della poesia dantesca. Nello stesso tempo, di fronte al materiale edificarsi di tutta una tradizione, non ci si dovrà neppure attenere al criterio proposto dal Croce, di seguire «il crescente arricchimento nei concetti metodici e nel senso dell'obbiettività storica» : formula enunciata secondo un palese buon senso, ma certo nata dal non aver compreso nei suoi veri termini il problema. Non si tratta infatti di sorvegliare un ipotetico autonomo organizzarsi e svolgersi del commento come un genere critico che, dai primi esperimenti più vicini a Dante, sino all'affinata penetrazione alla poesia del gusto moderno, venga acquistando una capacità d'indagine e una sicurezza di metodo prima non posseduta: ne verrebbe una storia concepita in senso assoluto, delineata su una aprioristica traccia di meccanico progresso, il che porterebbe a un giudizio complessivamente negativo, che però si tempera e si converte man mano che l'orizzonte si approssima ai nostri sguardi, la produzione si fa più consona ai nostri interessi.
I singoli commenti vanno invece studiati come il prodotto d'una precisa operazione culturale e spirituale, in rapporto alla secolare interpretazione della Commedia. Verranno allora in luce i diversi orizzonti che dettero colore e tono ai vari momenti della ricerca: balzerà fuori dal commento il colore del tempo, il carattere della tradizione culturale che lo condiziona, còlta nei motivi vitali che scaturiscono dagli interessi del momento, che s'incorporano e convergono nella interpretazione del Divino Poema.
Ma se noi miriamo a stabilire il peso dei commenti in relazione all'interpretazione della Commedia, resta evidente che non ci potremo rifare ad una interpretazione in astratto del Poema; dovremo invece stringerci ad una linea ben determinata, che serva da sicura pietra di paragone, da bilancia, per discriminare, al di là di più vaste e generali ripartizioni (commenti interpretativi, commenti espositivi), i risultati delle varie opere in ordine alla comprensione della Commedia.
E appare allora manifesto che l'unica e ragionevole pietra di paragone sarà il pensiero stesso del Poeta, quale noi l'abbiamo in un progressivo e concentrato elaborarsi e determinarsi, espresso in forma logica nell'esperimento del Convivio, nella trattazione della Monarchia, e, in forma poetica, nella sua opera maggiore. Accanto a queste precise linee del pensiero dantesco terremo presente, per inquadrare la secolare interpretazione, anche l'Epistola a Cangrande della Scala. Sia essa o non sia di Dante, resta il fatto che è il primo commento della Commedia; resta. il fatto che l'ignoto commentatore ha saputo più d'ogni altro sinteticamente impostare, in tutta la sua problematica, una lettura essenziale, imperniata su evidenti e manifeste concordanze col pensiero dantesco. L'Epistola a Cangrande diventa quindi, nella sua concettosa essenzialità, un prezioso ausilio per chi voglia classificare gli esperimenti esegetici che si susseguirono dopo la morte di Dante. Classificazione che non si baserà tanto su imprestiti materiali (quanto più saremo lontani dal pensiero dantesco, tanto più si assumerà l'Epistola in una opaca materialità di trascrizione), quanto sulla comprensione o meno dei suoi motivi fondamentali. La Commedia, e quindi l'Epistola, viene compresa solo da chi sa ancora rivivere l'esperienza di vita e di pensiero che fu di Dante: col volgere degli anni, col mutare di tutta una civiltà, nel declino di quello che possiamo definire l'Umanesimo Cristiano del XIII secolo, la distanza fra il lettore e il suo testo si accentua in un progressivo abbandono della vitale partecipazione ai motivi generatori dell'opera; nel trapasso ad un'altra concezione de l'arte, ad una nuova sensibilità per la poesia, ci si avvia da allora a considerare la Commedia come opera squisitamente letteraria.
Ma il motivo generatore da cui s'era insistentemente disnodata l'attività di pensiero dell'Alighieri era qualcosa di ben diverso e lontano da quella che potremmo modernamente definire una istanza letteraria.
Sondata e ricercata con indagine lineare e obbiettiva nelle opere minori, raggiunta - voce essenziale di un'arte ormai somma - nel divino poema, la meta cui mirava Dante era la conoscenza dell'uomo come universale concreto, in rapporto alla sua sostanza specifica di natura creata: ordinata cioè contemporaneamente a due fini: uno naturale, la vita della ragione e della virtù, che conduce alla felicità temporale; l'altro soprannaturale, vita di un'anima ch'è fatta per l'eternità, e la cui beatitudine consiste nella visione fruiti va di Dio: fine soprannaturale che non si può raggiungere altro che al lume della Rivelazione, secundum viriutes theologicas operando .
Dietro il continuo impulso d'un pensiero che nel suo dilatarsi e conglobarsi da meditazione del vero si fa vita d'un’anima assetata di raggiungere al di là del tempo il Sommo Bene, Dante riprende nella Commedia le fila di tutto il suo pensiero; ma lo rivive poeticamente: lo coglie cioè in visione, e l'obbiettiva in imagini, che incorporano lo spirituale nel sensibile, in una conoscenza che ora si fa sperimentale, aderente alle segrete pieghe del mistero universale dell'essere in se stesso, e come tale ha valore di azione vissuta.
Azione concreta e vitale che coglie l'uomo in quanto esiste, e lo definisce in rapporto alla radice metafisica della sua personalità, in relazione cioè al fine inscritto nella sostanza specifica della sua natura. Giudicare immanente, che determina e dispiega Dante alla perfezione, nella linea stessa della sua naturale ordinazione, mentre docilmente segue la propria ragione naturale: voce della coscienza che parla nel segreto d'ogni uomo, e che inesorabilmente lo spinge ad amare il Bene e ad odiare il male. Virgilio, questa viva voce obbiettivata m un simbolo concreto, si fa allora Guida sino al Paradiso terrestre: Beatrice, apra di Fede, condurrà poi Dante, fatto ormai una persona, un per se subsistens, signore di se stesso, a santificarsi nella Grazia e nella contemplazione soprannaturale.
Ora, se dopo aver rapidamente saggiato, nei suoi motivi più vitali, l'operosità dantesca , noi sostiamo sulle pagine dell'Epistola a Cangrande, dobbiamo ammettere che quel primo commentatore della Commedia sapeva molte cose, dipoi, nello svolgersi della tradizione esegetica, fraintese e arbitrariamente colorite; sapeva cioè, attraverso la sua pur rigida formulazione scolastica, esprimere la più compiuta sintesi che il Trecento abbia dato del Poema.
Subiectum letterale dell'opera, considerato nella sua materialità, è lo stato delle anime dopo la morte. Ma al di là della semplice raffigurazione fantastica - un mezzo, non il fine, - al centro medesimo dell'ispirazione poetica, la sentenza, il subiectum allegorico è l'uomo, considerato in relazione diretta alla Divina Giustizia del suo Creatore, a seconda che, meritando o demeritando nel libero esercizio della volontà, è sottoposto alla Giustizia che premia o che punisce . È dunque l'essere, visto nella sua concreta condizione d'esistenza; còlto nella ragione profonda che lo ispira nelle sue azioni, come attività che imprime forma a tutta una vita, nel tempo e nell'eterno. Nell' Inferno e nel Purgatorio la conoscenza sperimentale di Dante dell'essere in se stesso abbraccerà così la natura specifica dell'uomo in quanto passivamente ordinato ai suoi fini temporali ; nel Paradiso invece, la materia abbraccia l'uomo «come anima naturalmente ordinata al suo fine ultimo soprannaturale» . Dante si fa così il portatore di una immagine universale dell'esistente: è l'agens, cioè il soggetto d'azione della propria opera; il genere di filosofia del poema è dunque, dice lo scrittore dell'Epistola, il morale negotium sive ethica: perché la Commedia non può avere altro valore che di azione vissuta, frutto dell'esperienza del soggetto che conosce ed opera .

Caratteristica fondamentale dell'Epistola è dunque il suo fornire, in pochi tratti, i concetti necessarii ad una interpretazione globale di tutta la Commedia .
E questa ricerca di sintesi è anche alla base degli interessi degli altri due primi commentatori, che esaminarono soltanto i passi a loro giudizio più importanti, le immagini più significative, senza condurre una esposizione puntuale del testo, verso per verso. Commentarono, dice Jacopo Alighieri, dichiarando dove bisogna: quella parte del libro prendendo per titolo, che a ciò si conviene . Ma se gli intenti che li spingevano al commento erano essenzialmente interpretativi, il figliolo di Dante e il cancelliere bolognese si diversificarono nettamente nel loro lavoro.
Interpretare, conquistare attraverso il diretto colloquio col testo la dimensione spirituale che valga a introdurre nelle ragioni della Commedia, più che una questione di gusto concreto è anche e soprattutto un problema di cultura.
Sul terreno sostanzialmente comune della Scolastica, quale era divulgata in quei primi decenni del Trecento; di fronte a un'opera che di quel pensiero e di quella cultura fu la più alta sintesi, Jacopo e Graziolo si differenziano a seconda del loro stesso graduarsi, in relazione diretta a quanto conoscono e rivivono, nel tentativo di penetrare la grandiosa concezione dantesca. Jacopo, culturalmente meno preparato, è una natura empirica, portata alla fantasiosa e ostinata allegorizzazione astratta d'ogni tema, per ricavarne una considerazione didascalica; Graziolo, invece, senza affastellamenti dottrinali, senza inutili allegorismi, sa aderire in modo vitale all'ideale prospettiva della Commedia; e dobbiamo dolerci che, come il suo predecessore, egli abbia limitato il suo commento al solo Inferno.

Jacopo era arrivato alle Chiose dopo l'esperimento del capitolo in rima e del sonetto A ciò che le bellezze, signor mio, che accompagnarono l'esemplare del Poema offerto a Guido da Polenta . La Divisione e il sonetto sono anzi l'antefatto più sicuro del commento, sia per evidenti riprese di modi verbali, sia per la sostanziale identità d'atteggiamento nei confronti del Poema. L'interesse dominante il capitolo, l'esposizione oggettiva del contenuto in relazione alla struttura topografica dei tre regni, è anche il filo conduttore delle chiose. E rimane il deciso scompenso tra il giudizio espresso, quanto mai elogiativo, e la capacità pratica di approfondire la ricerca dietro l'ampio respiro del pensiero e de l'arte di Dante. E nelle Chiose, badiamo, Jacopo non mirava certo al superficiale volgarizzamento del contenuto: vi contrasta tutto il discorso, sostanzialmente elevato nel tono e nei temi, sin dalle prime battute del proemio:

Acciò che del frutto universalmente dato al mondo per lo illustre filosofo e poeta Dante Alighieri fiorentino con più agevolezza si possa gustare per coloro in cui il lume naturale alquanto risplende senza scientifica apprensione, io Jacopo suo figliolo per maternale prosa dimostrare intendo parte del suo profondo e autentico intendimento...

Il proposito è chiaramente interpretativo: giungere al centro del Poema, esporne la ricchezza, il profondo e autentico intendimento. Inquadrate rapidamente e schematicamente le linee strutturali dell'opera , il commentatore la definisce così nei suoi motivi sostanziali:

El principio delle intenzioni del presente autore è di dimostrare di sotto allegorico colore, le tre qualitadi dell'umana generazione. Delle quali la prima considera de' viziosi mortali, chiamandola Inferno, a dimostrare che il mortale vizio apposito alla altezza delle virtù, siccome sito contrario, sia. Onde chiaramente si intende che il luogo determinato dei rei è detto Inferno, per lo più basso luogo e remoto dal cielo. La seconda considera di quegli che si partono dai vizi per procedere ne le virtudi, chiamandola Purgatorio, a mostrare la passione dell'animo che si purga nel tempo eh' è mezzo dall'uno operare all'altro.... La terza e l'ultima considera degli uomini perfetti,' chiamandola Paradiso, a dimostrare la beatitudine loro, e l'altezza dell'animo congiunto con la felicità, sanza la quale non si discerne il Sommo Bene .

Il fatto più interessante, per noi, è notare come l'autore, nel determinare il soggetto allegorico dell'opera, concorda con quanto è fissato nell'Epistola a Cangrande. Allegoricamente parlando, egli si riferisce non alla rappresentazione fantastica dello stato dell'anime dopo la morte, ma alle tre qualitadi dell'umana generazione, cioè alla natura dell'uomo, osservata, come già dicemmo, nel suo specifico determinarsi nell'azione, meritando così premio o pena dalla Divina Giustizia.
In tal modo l'allegoria fondamentale della Commedia non è altro, per il commentatore, che una esemplare raffigurazione dell'esistente: l'uomo è seguìto nelle sue relazioni con il Trascendente: se vive in peccato mortale, la sua stessa vita è paragonata all'Inferno, a dimostrare che il mortale vizio apposito alla altezza delle virtù siccome sito contrario sia. Nel trapasso da uno stato di peccato al vivere virtuoso, vivrà in Purgatorio, a mostrare la passione dell'animo che si purga nel tempo eh' è mezzo da l'imo operare all'altro; la terza qualità infine sarà degli uomini perfetti, chiamandola Paradiso a dimostrare la beatitudine loro... .
Ma nonostante il promettente inquadramento, nonostante questo mirare all'azione concreta dell'uomo, al suo operare, Jacopo, nel passare dalle linee generali all'esame particolare, si distacca sostanzialmente dal pensiero dantesco. Man mano che lo si segue nel suo lavoro, appare anzi una netta separazione, una frattura, tra la Commedia e la capacità d'intenderla del suo secondo commentatore. Jacopo sente, s'è veduto, d'aver dinanzi un'opera in cui si pone, in termini elevati, il problema fondamentale del vivere umano, il problema morale. Sin dal Compendio, del resto, egli aveva affermato che il Poema racchiudeva l'esser dell'universo, e dimostra va il simile e il diverso Dell'onesto piacere; il nostro oprare, E la cagion che 'l fa bianco o perso. Ma nonostante egli collochi la Commedia nella concreta prospettiva della filosofia morale, l'empirismo ch'è alla base della cultura di Jacopo si rivela nell'incapacità ad approfondire le linee dell'opus practicum, per rimanere in un moralismo astrattamente generico e poco caratterizzante che non arriva mai, nell'analisi, a porre l'accento sulle ragioni prime del pensiero e dell'arte paterne.
Per renderci conto dell'effettiva misura di questa distanza, basta osservare come il commento reagisce nei confronti dei personaggi del poema. Anziché coglierli nella sostanza profonda del loro agire, nella loro attività d'organismo spirituale che si rivela e si mette in luce nell'azione, ecco che il _nostro si disinteressa assolutamente del personaggio, per risolverlo in una astratta allegorizzazione dei dati fantastici. Non vi sarà perciò nessuna differenza tra la chiosa al lungo elenco di Inf. IV, 121-143, e, magari il commento a Inf. V, 82-142, ove si accenna appena a

...una donna nominata monna Francesca, figliola di messer Guido da Polenta .... e l'altro, Pagalo de' Malatesti da Rimino; la quale essendo del fratello del detto Pagalo moglie, il quale ebbe nome Gianni sciancato, carnalmente colei usando, cioè col detto sita cognato, ima volta essendo insieme dal marito furono morti.

Questa totale incapacità a comprendere il valore di certi episodi in rapporto alla stessa personalità di Dante, si rivela costantemente. Si distrugge, in sostanza, nell'impersonalità di un contenuto rievocato astrattamente, la partecipazione stessa del Poeta, la sua storia in atto , in una insensibilità quasi completa per la poesia. Vedi, ad esempio, il commento all'episodio di Ciacco:

Per dare notizia d'alcuno della presente qualità, qui d' alcuno fiorentino nominato Ciacco si fa menzione, il quale nel presente vizio fue molto corrotto, e perché della memoria in nuove fantasie fue sottile predicendo le cose future, però qui per lui significando, di Firenze così si predice… .

È sempre un motivo di pura esemplificazione, quello che viene ricercato nei personaggi: rievocati come astratti simboli d'una qualità di cui col loro nome, ma non col loro volto, confermano l'esistenza. Nonostante il termine qualità sia evidentemente un imprestito dallo scolastico qualitas (determinazione cioè d'una sostanza, in questo caso del peccatore), la qualità per Jacopo è semplicemente categoria esterna, impassibile, diremmo struttura pura: non si riferisce mai al personaggio nel suo interiore dinamismo, nella sua vitalità poetica, e rimane una inerte classificazione, che serve solo a catalogare i vari vizi puniti nell'Inferno. Manca insomma il desiderio e la capacità d'analizzare le varie figure, per approfondire la ricerca della poesia: non vi è poi nessun collegamento, ma solo una serie di esempi, esposti senza nessun interesse pel dato fantastico. Appoggiandosi genericamente al motivo dell'universalità dell'esempio, Jacopo non riesce che ad abbassare e tradurre in schematica logicità quelli che per noi sono i segni in cui s'incarna la poesia dell'azione dantesca. L'individualità caratterizzante delle figure svanisce così nell'indistinto; e solo la precisa rubricazione, all'inizio d'ogni canto, del peccato e della pena che vi son raffigurati, permette al lettore di seguire da vicino il processo d'interno sviluppo dell'opera .
Il commento, dunque, rimane nei termini d'un giudizio teorico: bada soltanto a discriminare e distribuire le categorie dei peccatori, e riduce il poema a un freddo trattato sui vizi e sulle virtù. A meglio definire l'atteggiamento del commentatore, quasi a precisarne la sua prima ragione, varrà la chiosa a Inf. XXII, 48, dove chiaramente traspare questo risolversi dell'interpretazione m un moralismo enciclopedico:

Qui per l'autore, favoleggiando, d'alcun di Navarra nella presente colpa si conta, a dimostrare che bello e ittite sia in ciascuna condizione, quando bisognasse, di sapere, ragionando, così compilare.

Questo moralismo enciclopedico, attuato sulla linea di una didascalica astratta, che non ripensa mai il testo nella sua totalità, ma lo colorisce frammentariamente e arbitrariamente attraverso la allegorizzazione, appare ancor più chiaro se, dopo l'esame dei personaggi, si passa ad osservare le altre parti del lavoro. Fuori dal senso profondo dell'opera, senza una linea precisa di pensiero che lo guidi a una uniformità d'analisi, e lo sorregga in una continuità di riferimenti, Jacopo dilaga sempre più nell'impreciso, nell'astrazione dell'empirico. Nonostante il palese sforzo di adeguare l'esposizione ai concetti espressi nelle pagine iniziali, quella che manca è proprio la capacità di rivivere dall'interno la Commedia, in un giusto equilibrio fra la necessaria concettualizzazione delle immagini poetiche (logica esigenza d'ogni commento), e il rispetto per la linea spirituale da cui, prepotente vena, quelle immagini sono sgorgate.
Così il commento si disperde in una ostinata allegorizzazione delle pene, appoggiata talora al contrappasso, e che raggiunge spesso il vero e proprio grottesco. Se per esempio, a proposito della fortuna di vento del canto V, l'analisi conserva un tono medio, e la caratterizzazione, sia pur fantasiosa, rimane in qualche modo aderente all'imagine , a proposito della pena dei golosi nel canto seguente si dirà invece:

per la qual piova figuratamente si considerano gli infermi accidenti di superflui umori che nelle carni de' detti golosi continuo piovono, si come malattie di fianchi e di gotte e di podagre e di simiglianti effetti…

Le fiamme degli eresiarchi rappresentano poi l'ardente fermezza dell'animo nella detta credenza; la pioggia di fuoco sui peccatori del settimo cerchio, l'asciutta caldezza dell'animo e di loro impressione, e le infiammate loro voglie. Altrove l'esagerata e sottile attenzione per ogni elemento della pena, conduce a una interpretazione aberrante: i simoniaci, ad esempio, sarebbero puniti col calore celestiale della carità di sopra alle lor piante, come di sotto da loro è tenuto… .
Qualche volta però lo scrittore si avvicina al segno, e vede con sufficiente chiarezza. Così pel simbolo della selva. Jacopo rimane sempre nell'astratto, per universalizzarne il significato: ma la chiosa è la rara spia di un approfondimento, anche se dobbiamo tener conto della estrema genericità dei concetti ivi espressi. Per la selva, dunque:

Figuratamente si considera la molta gente che nell'oscurità nell'ignoranza permane, chiamandola selva a dimostrare che differenza non sia da loro sensibile e razionai suggietto, al vegetabile solo. Onde propriamente di cotal selva d'uomini si può dire, come selva di vegetabili piante.

Si mira cioè a definire l'uomo nella costituzione specifica della sua natura: dotato d'intelletto e volontà, egli, a differenza delle altre creature, sente la propria legge naturale come legge morale, e la deve attuare, sotto la pena di rendersi simile agli esseri privati di ragione, o, ancora peggio, di degradarsi sino al gradino più basso della natura creata, di vivere una vita puramente vegetativa. Il tema è ripreso nel canto XIII, a proposito della pena dei suicidi:

La cui allegoria, propriamente, con tale modo procede, che siccome naturalmente si vede, l'umana generazione tre animati possiede, cioè vegetabile, razionale e sensitiva: delle quali la vegetabile, cioè quella che in vita crescendo permane, alla sita fine giammai non consente. Ma perché nel corpo umano la rationabile e sensitiva a sita morte talora consente, però in piante silvestre cotal qutalità di giente figurativamente si forma, siccome creature in solo vegetabile rimase, essendosi dell' altre dite se stesse private .

Ma quest'interesse fondamentalmente didascalico, che oggi allontana decisamente il lettore dal commento, non portò a imbrigliare in concetti, mediante l'allegorismo, solo le pene infernali: è un tono di lettura astratta che investe e si trasporta anche sulla cornice, sui motivi geografi.ci dell'itinerario, i personaggi mitologici e le favole classiche; tutti elementi che vengono travestiti e moralizzati.
Così l'Acheronte viene interpretato, allegoricamente,

…il cominciamento e il passo delle viziose operazioni.... e simigliantemente il vecchio che sopra le passa, nominato Caronte, all'effetto che nella presente amara dolcezza gli induce si figura,... a dimostrare negli uomini il pronto e acceso desio di pervenire a la sopradetta amara dolcezza dei vizii.

Appoggiarsi a motivi puramente logici, esteriori, che pervade di freddo raziocinio anche episodi che hanno ben altro valore.
Il messo dal cielo di Inf. IX, 79 sg. testimone della continua presenza della Grazia divina a sorreggere Dante nel suo viaggio, viene in tal modo inteso, per astrazione concettuale, la sperienza della mente... la quale propriamente messo di Dio si considera, per la correzione che di lei procede...
E come non si coglieva il valore dei personaggi (che tutto illuminano e avvalorano nel mutevole tono della loro essenza graduata), così anche le figurazioni mitologiche vengon ridotte a semplici concetti, secondo un canone di conciliazione dei motivi pagani che era, come sappiamo, prettamente tradizionale.
Sul profilo piatto, orizzontale, dell'interpretazione - quasi a scandirne il materiale progredire, - si levano allora le personificazioni: fredde, immobili statue senz'anima, sono il simbolo della sorte della poesia, del modo d'intenderne, cioè, lo spirito vitale.
Vediamo Minosse: ... la cui figurata allegoria in cotal modo permane che siccome in ciascun uomo naturalmente delle sue male operazioni è coscienza contraddiciente, giudicando se stesso propriamente più o meno lontano dal Sommo Bene cioè da Dio secondo la colpa commessa, così qui il detto Minos giudicatore delle colpe in lei si figura, giudicando e approvando con certa sua coda a dimostrare che solamente con la fine di ciascuno sia più proprio il giudicio, siccome, negli animali, ella è generalmente il fine...

Così, per astrazione, la coda di Minosse viene a simboleggiare il termine della vita.
E ancora, l'allegoria di Cerbero:

Per lo detto demonio l'appetito della gola si considera che in ciò gli induce, il quale con tre gole figurativamente è formato, siccome per tre modi cotale appetito per lor si possiede. De' quali l'uno è di quantità, l'altro è di qualità, e il terzo di quanto continuo. Il quale di quantità comunalmente d'ogni cibo assai si desidera gustare. Il quale di qualità, Particolarmente di cose elette, non curandosi di quantità. E il terzo, cioè il quanto continuo, in dite modi diviso si contiene, cioè il quanto continuo e il quanto discreto. Il quanto continuo è continuo esser goloso, il quanto discreto è alquanto esser goloso e alquanto non essere.

Jacopo questa volta, nel suo concettualizzare, non ha neppure tenuto conto della figurazione dantesca. Contro le tre teste di Cerbero, nel commento i modi dell'appetito della gola sono quattro: qualità, quantità, quanto continuo e quanto discreto.
Di questa incongruenza discussero i critici (anche perché la chiosa passò nel commento di Graziolo e di qui in quello di Guido da Pisa), ma non seppero spiegarne le ragioni .
La confusione è tutta di Jacopo: nel suo legare le immagini dantesche a concetti astratti, stabilito che le tre teste significavano gli appetiti dei golosi, fu per lui facile vedere nelle prime due gli appetiti di qualità e di quantità. Occorreva un terzo termine, e fu aggiunto l'appetito di quanto continuo, poi contrapposto al qitanto discreto. Jacopo aveva nell'orecchio, in questo caso, la definizione di quantità data da Marziano Capella : Quantitas bipertita est, quod alia discreta est, alia continua... e si lasciò portare ad accogliere, erroneamente, anche il termine quanto discreto, pur senza averne alcun bisogno .
Vediamo ora brevemente, a conclusione dell'indagine, le reazioni del commentatore di fronte agli accenni danteschi a favole classiche.
Generalmente egli non si preoccupa di stabilire il valore che hanno nel contesto, in rapporto a quanto ne coglie il poeta, sia per trarne succosi paragoni, o per creare una leggendaria apertura di fantasia. Sembra invece che le favole siano introdotte da Dante unicamente perché il lettore ne scorga il riposto precetto, la banale ammonizione. Ogni accenno si carica in tal modo d'un assurdo pretesto moralistico: il tema mitologico, che raffiorava in Dante per un compenetrarsi del Poeta nell'immagine, indipendentemente da ogni sovrasenso, viene invece sempre considerato allusivo dal nostro, che si pone quindi a interpretare il mito, e ad esporne l'allegoria.
Bastino, per tutti, alcuni esempi.
Ognuno intende il valore dell'accenno dantesco a Fetonte e a Icaro (Inf. XVIII, 107 sgg.) nel rappresentare il volo di Gerione.
Ecco invece Jacopo:

Fetonte: la cui allegoria in cotal modo permane che male al padre e al figliolo avegnia, quando ogni voglia del figliolo si consenta e così la temenza del presente testo figurando si conta.
Icaro: la citi allegoria brevemente così si contiene, che finalmente ciascuno figliolo fuor dell'ammaestramento del padre operando, in suo danno procede .

In sostanza, anche qui v'è una grave incapacità a rispettare il testo: riflessa prismaticamente su tutto il commento, lo rende, man mano che s'avanza nella lettura, sempre più disperso e lontano.
Le immagini si dissolvono, il tono della poesia viene trasnaturato e infranto. Così, di fronte allo specchio di Narcisso (Inf. XXX, 128), quello che interessa Jacopo, anche qui, non è il valore fantastico dell'immagine, il geniale concentrato balenare della memoria attorno un tema che, nella sua profonda, poetica risonanza, risolve la sua carica in un ironico contrasto:

La cui allegoria brevemente si considera, dice la chiosa, che rimirando e attendendo troppo alla vaghezza corporale, a morte intellettuale ciascun si produce…

Abbiamo ormai illustrato l'atmosfera spirituale in cui s'è svolta l'opera di Jacopo Alighieri. L'abbiamo seguito nel suo progressivo allontanarsi dalla vitalità profonda della Commedia, man mano che, di fronte all'allargarsi delle prospettive e all'incorporarsi della vita stessa di Dante nelle immagini, egli rimaneva fermo e chiuso nel limitato e immutabile quadro del suo orizzonte culturale: incapace di donarsi coll'intelletto e col cuore alla suggestione della poesia, per restare un debole e freddo compilatore di motivi etico-precettistici.
Sfuggiva così, nella ricerca d'un equivoco allegorismo, faticosa costruzione ottenuta imprigionando il volo della poesia, il tono sostanziale dell'arte dantesca: concentrato tutto sulla personalità morale di Dante, che si illumina in un continuo superamento, e che si dona liberamente come attività d'un'anima che si perfeziona.
Nonostante il proposito chiaramente interpretativo espresso nel proemio, Jacopo fallisce dunque nel suo intento; e alla base di questo continuo far violenza alla poesia, noi scorgiamo, oltre che ragioni di gusto e di sensibilità, anche dei moti vi d'ordine culturale. Malgrado la bontà delle sue idee generali sulla Commedia (forse remota eco della voce paterna?) il nostro commentatore fu insomma incapace di conquistarsi la concreta dimensione dell'opera, di riviverne dall'interno il motivo animatore, la ragione poetica. Fuori dalle vitali esperienze di pensiero di cui s'era nutrita la Scolastica del XIII secolo, Jacopo non possedeva il senso di cosa volesse concretamente significare l' opus practicum, il morale negotium sive ethica: non una collezione di giudizi e di consigli, tenuti insieme per virtù intellettuale da una trama di concetti astratti, appoggiati alla verosimiglianza d'una favola; ma opera d'arte dove, attraverso le immagini concrete della creazione poetica, traspare e si conosce quella verità profonda e universale che le ha ispirate; opera d'arte che, nel suo progressivo svolgimento, è l'espressione della conoscenza sperimentale ed immanente dell'artista che opera creando, e che in questo operare, rispecchiato e obbiettivato nel mondo immaginoso della fantasia creatrice, si perfeziona in relazione diretta al fine cui mira.
E si comprende allora come il commento sia rimasto interrotto dopo l'Inferno: per correr migliori acque si richiedeva invero più sicura nave, più congeniale nocchiero.

Di contro all'opaca sordità del suo predecessore, sta invece l'attenta e acuta interpretazione del Bambaglioli .
Egli mira davvero a interpretare: a cogliere e definire la personalità di Dante, visto nel duplice aspetto di autore e di principale personaggio della Commedia.
A lumeggiare entusiasticamente l'altissima qualità dell'opera dantesca, Graziolo dedica il proemio del commento. Nella solennità del dettato cancellieresco, è la viva eco d'un amore assiduo per gli studi, sostanziato da una ben più profonda esperienza di cultura.
Nella complessa altisonanza del periodare, questo proemio è insomma il primo chiaro saggio delle reazioni suscitate dalla Commedia in una mente ricca di cultura viva, che si compiace di esporre ornatamente la propria ammirazione, in pagine ricche di prosa quasi ridondante :

Etsi celesti et increati principis investigabilis providentia mortales quam plurimos prudentia et virtute beaverit, profunde tamen et inclite sapientie virum, philosophye verum alumpnum et poetam excelsum, Dantem Alagherii fiorentinum civem et huius mirandi singularis et sapientissimi operis auctorem, interiorum et exteriorum bonoruni ac scientiaritm... tam idili quam probabili ratio ne prefecit ut... per eum, tamquam per sublimis sapientie testem, humanis desideriis mostraretur.

Eccelso poeta e verace alunno di Filosofia, Dante rende nella sua opera testimonianza alla stessa Divina Sapienza:

Sic iste venerabilis auctor accessit ad Libanum, hoc est ad divine intelligentie moniem, et ad omnium scienciarum fontem et intellectus sui profunditate pervenit; et non siricte, non breviter, sed per magnalium auctoritaium et eloquiorum suorum misteria non aliqua scienciarum accepit principia, non particitlas, sed universalis sapientie et virtutis veram intelligentiam et subiectum.

Si mira, nella lode, a sottolineare il carattere d'universalità racchiuso nella Commedia, sentita come raggiunta espressione di un altissimo grado di perfezione spirituale. Perfezione di scienza e di sapienza: saggezza da cui, come da viva pianta, germogliarono, ad utilità dei viventi, i fiori e i frutti:

Et huiusmodi sapientie tante medulla et profunditate sublimi, huius mirande inventionis fiores et fructus elegit, quos ad declarationem et doctrina viventium de prudentissimis et occuliis materiis scienciarum translatos in publicum voluit demonstrare... Ex quibus, lucido documento mostratur auctorem prefatum non una dumtaxat scientia vel virtute, sed sacre theologie, astrologie, moralis et naturalis philosophye, rectorice ac poetice cognitionis fuisse peritum.

Questo sentire profondamente la grandiosità della vita intellettuale e morale di Dante, intesa come un complesso vitale di molteplici acquisizioni, è il motivo animatore del commento, che si svolge in una atmosfera di completa adesione al pensiero dantesco. Adesione oltre modo interessante, visto che il Bambaglioli, cancelliere del Comune di Bologna, era politicamente del partito avverso a Dante ; e che scriveva proprio negli anni iniziali della polemica che doveva sboccare nel bruciamento della Monarchia per ordine di Giovanni XXII.
Graziolo, al di là da ogni astratta interpretazione del contenuto, seguendo docilmente nel loro svolgersi le immagini poetiche, arriva al centro stesso dell'esperienza dantesca: ne coglie la ragione poetica, il valore concretamente morale. È chiaro, allora, come egli possa aver superato ogni pregiudizio a sfondo politico, per divenire, addirittura, uno strenuo difensore dell'opera e della persona di Dante.

Dopo l'altisonante proemio, il lavoro s'apre con- una nota introduttiva a tutta la Commedia. In essa Graziolo divide la materia dell'opera in due parti, e fissa sommariamente ma acutamente le linee dell'interpretazione:

Et quoniam ad perfectiorem cognitionem totius per divisionem partium facilius pervenitur, et opportune presentis libri materia in duas partes dividitur. Nam in prima parte demonstrat auctor qualiter ex gravium viciorum pondere prepeditus in hac vita et valle miserie a via lucis et veritate declinaverat et a virtute. In parte secunda describit et trattat quod ex rationis succedente remedio et ex virtutis vere presidio, ipse auctor errores et ignorantiam huius vite et vitia eundem impedientia prefugavit.

Seguìto nel suo interno svolgimento, quello che balza fuori sin dall'inizio è dunque il viaggio del poeta, che Graziolo sente come il più valido collegamento tra i diversi episodi, o, per dirla con le sue stesse parole, il tramite ad videndum penas et miserias dampnatorum.
Motivo fondamentale per chiarire dall'interno i tempi del Poema, è il continuo e progressivo movimento della ragione del Poeta che conosce e giudica. Posto sinteticamente l'accento sul significato globale del Poema, il commento insiste ancora, nelle pagine che seguono, sul valore, rispetto a tutta la vicenda, di questo interiore processo di conoscenza. Ne viene così approfondita l'analisi: ne sono còlti i vari tempi, inquadrandoli nell'economia dell'opera. La seconda parte della Commedia viene in tal modo divisa in altri due momenti, che esprimono due diversi atteggiamenti spirituali di Dante. E se nel primo di essi vien mostrato come ipse virgilius, tanquam ipsa rationis cognitio, eidem auctori occurrit ut eum de viciorum carcere traheret ad virtutes... nel secondo è raffigurato:

qualiter idem virgilius auctorem prefatum deduxit ad inferos ad videndum penas et miserias dampnatorum; hoc est dicere quod ipse Dantes, ex rationis virtute ipsum athraentis, prius est motus ad cognitionem purgationem et penitentiam viciorum, et ad ipsorum viciorum fines et matherias cognoscendum, ut post modum purgatus ex viciis purus tenderet ad virtutes.

Senza astrazioni, la allegoria di tutto il poema è còlta in questo continuo rettificarsi, attraverso la conoscenza sperimentale dell'essere in se stesso, della ragione di Dante: in armonia con la natura specifica dell'uomo, ordinata, alla virtù.
Formulazione recisa, che salda tenacemente, sin dalle prime pagine del commento, i legami tra la figurazione poetica e il fervore di vita morale in essa oggettivato.
Graziolo afferra dunque l'importanza dei canti introduttivi della Commedia, e di essi si serve per inquadrare tutta l'interpretazione. Si viene allora a delineare, spontaneamente, il momento iniziale della conoscenza sperimentale del poeta:

ibi in principio tertii cantus, per me si va nella città dolente, et in tot partes dividitur quot sunt penarum et cruciatum genera que per huius libri capitula sive cantus propter diversas causas delictorum dampnatis et miseris spiritibus inferuntur .

In un continuo sforzo interpretativo, che mira ad approfondire, stringendoli da presso, i termini dell'oggettivazione fantastica per cogliervi le essenziali ragioni che spinsero il poeta a determinarsi nell'opera prodotta, dopo il proemio e l'introduzione al primo canto, il commento, per quanto non prolisso, si fa analitico; l'indagine calzante e precisa.
Dante viene presentato, in stretta adesione alle trasparenti imagini del testo, nel pieno dissidio interiore della sua anima, calato nella selva dei vizi e dell'ignoranza:

Vult dicere ipse auctor quod eo tempore quo hunc tractatum incepit erat peccator et viciosus et quasi in quadam silva viciorum et ignorantie, ita quod a via veritatis et virtutis erraverat.

Ignoranza: non l'opaca limitazione del sapere in ordinem ad scientiam, ma un vuoto ben più profondo e sostanziale: nelle spire vorticose d'una attività che l'ha assorbito, Dante ha smarrito, nel peccato, il senso della retta ordinazione dell'uomo: tanquam per viam obliviscendi et relinquendi virtutem et veritatem, scilicet ipsum Deum: quo siquidem peccato ipse Dantes erat maculatus et plenus, ante quam sumeret hunc tractatum.
Chiuso nella propria appassionata individualità, Dante era lontano da Dio: non udiva più la voce del Dio vivente in noi, che presto si tace quando l'uomo si fa servo di se stesso, e sacrifica la propria personalità alla cieca istanza dell'individuo. Ma per grazia divina - gratia data celitus - il poeta guarda fuor di se stesso: giunge in vista del monte, hoc est ad veram cognitionem et intellectum. Col luminoso irraggiare del sole, dice Graziolo, si fa così strada, nell'intimità profonda dell'anima dantesca, la luce; si attenua e si risolve il contrasto, la battaglia delle passioni: in vera cognitione ipsius iam splendebat et superveniebat ipsa virtus, per quam, tamquam per verurn medium, omnes homines perfecte gradiuntitr et vivunt.
E in questo naturale amore per il bene, inscritto come legge nell'intimità profonda d'ogni essere (basterebbe che gli uomini ne ascoltassero la viva voce, per ritrovare la via in cui ognuno si perfeziona nella linea stessa della propria natura), Dante si riconosce e si ritrova. Si acqueta allora la paura: tunc ipsa tribulatio cure et varie passiones cessaverunt et sedate fuerunt, quas sustinuerat tempere noctis, hoc est tempore tenebrose vite...
Il poeta si dispone a salire il colle. Immagine di movimento (ripresi via per la piaggia deserta) che Graziolo afferra, sviluppandola, al solito, come una determinazione dell'essere: attorno alla Commedia si viene così, senza un'astrazione, a disegnare la dimensione di opus practicum.
Nella vita dello spirito, ove ognuno si diversifica per la propria capacità di realizzare se stesso, ogni conoscenza degli atti umani rimane lettera morta, se non viene inverata e attuata nell'operare, se non viene, cioè posta a fondamento del dirigere.
Incorporato ed espresso nell'immagine, Graziolo scorge questo interno dinamismo del soggetto, cioè il concreto passaggio di Dante all'attività pratica: dove ogni creatura si mette in luce essenzialmente per il fine a cui mira.
Ecco allora che il poeta, dopo aver posato il corpo lasso

in illa vera cognitione et affectione virtutis, illam affectionem et cognitionem deduxit in actum: quoniam ipse auctor incepit ascensum suum per viam montuosam et altam, hoc est per viam virtutum ad quas diffcillime pervenitur.

Ma le tre fiere (per Graziolo lussuria, superbia e avarizia, i tre vizi che più facilmente risospingono l'uomo nel peccato), interrompono questa interiore ascesa. Si giunge così all'incontro con Virgilio.
Nel particolarissimo quadro del commento di Jacopo Alighieri, il valore di tutto l'episodio era, vedemmo, assorbito nella trama dell'allegorismo che affollava l'esposizione. Si dava la semplice esplicazione del simbolo, senza trarne le conseguenze.
Graziolo coglie invece come il passaggio all'azione pratica, in una progressiva conquista della libertà morale in armonia col Bene universale, è appunto il frutto di quella ragione che opera nel più segreto di noi stessi, per sorreggerci nella determinazione al fine della nostra vita: conquistare, analogandoci al Sommo Bene, la pienezza della nostra persona morale.

Notes huiusmodi verbis, lector, quod tam ipse Virgilius, hoc est ipsa contemplatio rationis, operabatur medium eundem auctorem, et animam intellectualem ipsius, solutam ex viciorum errore, ad occupanda celestia disponebat: nam, sicut scribit Aristotiles in libro de pomo, dileciationes anime sunt intelligere Creatorem suum; et ve anime peccatrici que non habeat potentiam redeundi in locum suum, et ascendi in patriam suam.

Il colloquio dei due poeti viene m tal modo facilmente interpretato come un colloquio di Dante con se stesso: al di là dell'immagine vien còlto il trasparente valore del simbolo concreto. Ex verbis istis adhuc plenis notari potest qualiter inveniebat ipse auctor in se ipso viam vere cognitionis et spiritus.
E Dante invoca il suo Virgilio, che lo sorregga e lo guidi nella conoscenza sperimentale della virtù: ad perfectionem cognitionis virtutum effectualiter cognoscendam: quoniam hec est illa vera cognitio per quam, tamquam per viam magistram, anima intellectualis crescit gratia et virtute.
Perfezione della vita virtuosa conosciuta effectitaliter: attuata col sussidio di ragione, còlta nei suoi stessi effetti, come atto vitale d'un essere che si mette in luce operando: ch'è poi la perfezione stessa a cui l'uomo, nella sua vita terrena, è stato ordinato, su un piano di proporzione analogica con la stessa perfezione del suo Creatore. Solo il peccato, dice Graziolo, spezza questo interno fruttificare dell'albero della vita spirituale: et sic hominem ad imaginem divinam formatum, non sinit ad grados virtuosos ascendere ad quos principaliter est creatus.
Il valore dell'esperienza di Dante è dunque già racchiuso in questi canti iniziali. E l'importanza del commento riposa nell'acutezza con cui è compreso il simbolo di Virgilio, e nell'imperniare l'interpretazione sulla filosofia morale.
Afferrati i termini scolastici d'un sapere speculativamente pratico, fondato su una attività speculativa in quanto ricerca della verità, ma operativa in quanto ha per fine l'azione, per Graziolo, al termine del secondo canto, siamo anche al termine della prima parte della Commedia. D'ora in poi Dante ci mostra qualiter viam actuaiiter agreditur ; e l'esame si svolge su tutt'altro tono, col semplice intento di lumeggiare concretamente il contenuto, adeguandosi alla esposizione dei fatti. Esposizione concisa e puntuale che, dopo aver esposto, separandola appositamente dal resto dell'opera, l'allegoria fondamentale, procederà quasi sempre spedita, con scioltezza, man mano che il commento procede. Sceverata nei suoi sostanziali motivi la trama spirituale di tutta la vicenda, il chiosatore vuole abbandonarsi - poste ormai le basi per l'interpretazione - alla semplice esposizione della lettera. In questo senso Graziolo afferma:

Ad perfectionem prosecutionem eorum que auctori predicto per libri presentis capitula per Virgilium demonstrantur, ad literam de ipso Virgilio exponuntur... ad revelationem eorum que sibi in itinere acciderunt.

Non è dunque, come poté sembrare ad altri che meno attentamente valutò il commento, l'evidenza della lettera che s'impone, e che obbliga Graziolo a desistere da una ricerca allegorica astratta : dopo l'interpretazione dei canti proemiali, inscritta saldamente nella prospettiva del morale negotium; non è più necessaria una interpretazione allegorica, che si sovrapponga al testo in una arbitraria costruzione di elementi moralistici. Quello che conta è soltanto esporre gli avvenimenti, le azioni di Dante, che nell'ordine pratico, attraverso le varie esperienze oggettivate in immagini, si determina al fine. Linea di svolgimento della personalità del poeta, che Graziolo segue entro la lettera, senza forzarne mai con espedienti intellettuali il significato. Solo quando il testo si riferisca esplicitamente a Virgilio, il Bambaglioli ribadisce ancora i già esposti concetti fondamentali, quasi a ritessere l'interpretazione dei primi canti, e a confermare in chi legge il valore basilare della Guida: conoscenza immanente che mira a perfezionare il soggetto, e che si comunica come atto vitale nell'armonia delle concrete immagini dell'opera d'arte .

Col terzo canto, s'è detto, l'interesse del commentatore si trasporta sulla lettera del testo. Non si attarda cioè ad allegorizzare le pene, ad analizzare fantasiosamente o grottescamente i peccati.
Raffrontato con Jacopo Alighieri, Graziolo mostra inoltre di sentire maggiormente, nel suo fedele riecheggiare il testo, i personaggi, le varie figure a volte tratteggiate con una spigliatezza da cui traspare un moto di partecipazione.
La chiosa si colora d'una amorosa attenzione per la personalità di Dante, e il commentatore aderisce più strettamente anche alla rappresentazione fantastica: la fedeltà al testo si traduce in un interesse per i casi personali, per la storia in vita del personaggio, analizzato in relazione al giudicare del Poeta.
Vediamo, ad esempio, Pier della Vigna:

Iste siquidem fuit magister Petrus de vinei, ex cuius virtute et probitate multiplici, et maxime sue formose inventionis et rectorici stili ornata dulcedine, fuit in tantum excellens et prepotens consiliarius penes Imperatorem Federigum, quod ex ordinatione et consultatione solummodo queque agenda Imperii gerebantur.

Graziolo sente il tono eloquente con cui il personaggio s'esprime. La parafrasi stessa cerca di adeguarsi al ritmo interno dell'eloquio, passando dal tono storico dell'inizio al modo drammatico del discorso diretto:

Dicit ipse Petrus quod cum semper ex dignitatibus et honoribus et bono alterius oriatur invidia, id circo reliqui curiales imperialis curie, excelse condictioni mee invidentes et emuli, me iniuriose accusaverunt quod quaedam secreta debueram propallasse; ex quo de mandato imperatoris cecatus et sic turbatus et dedignatus ex iussu indigne pene, nolens sub ceca et vituperosa vita manere, ego ipse qui eram iustus et fidelis et purus, in me ipso feci et disposui me iniustum contra me ipsum, mihi propriam vitam adimendo. Sed nichilominus, dicit ipse Petrus, numquain fui proditor nec infidus in agendis vel secretis aliquibus domino meo imperatori, ex quo aperte probatur et mostratur quod, prout dicit testus, ista invidia est illa meretrix magna que semper sequitur ospitium, curias et regna regum, prelatorum, et principum.

Altro esempio di questa interna consonanza al tono del testo è la chiosa a Inf. XIX, 52. Jacopo Alighieri, a proposito dell'apostrofe e dell'invettiva di Niccolò III, se l'era cavata con un succinto: di molte cose di suoi sucessori si ragiona . Invece il Guelfo militante, Graziolo, non attenua punto il giudizio dantesco, anzi lo sottolinea con una serrata esposizione, quasi a metterne meglio in evidenza il pensiero . Anche questa volta, dunque, il nostro sente in pieno il valore morale dello sdegno di Dante, e lo fa suo chiosando, subito dopo, i vv. 106-114 dello stesso episodio. Dietro l'accenno dantesco, riprende infatti il testo della Apocalisse , e se ne serve per colorire l'invettiva, e per sottolinearne il carattere profetico:

Ad habendam veram notitiam huius testus oportet necessarie adduci et ad ecclesiam verbum illud beati Iohannis evangeliste apocalipsi XVII: Veni et ostendam tibi dampnationem meretricis magne que sedet super aquas mulias cum qua fornicati sunt reges terre et inebriati sunt qui abitant terram de vino prostitucionis ejus...

Il commento prosegue poi sferzando re e principi della terra, et alii spirituales et temporales prelati, salva. semper reverentia et honore bonorum, i quali, corrupti, ab ipso summa Bono et a prima veritate declinant. Non dunque, quella di Dante, sterile o animosa polemica: ma giusto giudizio che non tocca in nulla i buoni, solo colpisce chi si allontana dal suo primo principio. Il consenso del commentatore riposa, è chiaro, su una stretta esigenza di giustizia: aspirazione eh' egli vede espressa nel Poema, e che viene fatta propria senza esitare.
In sostanza, a ben guardare questa esegesi letterale, così come si snoda nel precisare gli avvenimenti, gli incontri della Commedia, alla base di questa maggiore sensibilità per il puro contenuto noi vediamo una fondamentale adesione agli ideali che Dante ha inverato nel Poema.
L'ammirazione per il nostro poeta si dichiara così in tutta una gamma di atteggiamenti, che mostrano sempre come il Bambaglioli partecipi, con tutta la sua personalità, alla rappresentazione dantesca.
Sostanzialmente letterale, il commento si ravviva in tal modo d'un interesse per la favola, la bella veste; appare qualche rara e breve osservazione di tono letterario, che però ha solo valore di curioso presentimento .
Ma questa partecipazione si trasforma e si estende m una vera e propria ricerca particolare, a integrazione del testo, quando un punto oscuro ponga dei dubbi sull'interpretazione. Nascono allora delle digressioni dottrinali, non arbitrarie amplificazioni, ma illuminazioni concrete del pensiero, perché il lettore non lo colorisca o lo fraintenda. Il primo di questi liberi contributi a la comprensione del testo, intessuti e sorretti da appropriati riferimenti culturali, riguarda il Veltro. Nonostante la sua estensione ragguardevole, è un variato sviluppo del motivo iniziale, nel riconoscere nel Veltro un simbolo che può essere ricercato tanto in terra come in cielo:

Expositio leporari potest dari aliter duorum modorum, et probabili ratione loquendo, uno scilicet modo divinitus et de divina loquendo et intelligendo potentia, alio modo humanitus, et de humana mostrando et predestinando prudentia...

Avremo da una parte lo stesso Cristo, Agnus Dei qui tollit peccata mundi, identificato attraverso lunghi riscontri con la Scrittura; dall'altra sarà un Pontefice universale, o un Imperatore, uomo eccelso per prudenza e per virtù, che reggerà la terra con giustizia: sub cuius sapientia et habena iustitie genits humanum per vias virtutum et semitas veritatis incedet, et facinorum malitiosa perversio confundetur.
Sarà quello, dice Graziolo, di cui parla lo stesso autore in una sua invenzione volgare, Tre donne intorno al cuor mi son venute, in quei versi dove aperte demonstrat cum dolet et conqueritur ibi in persona iustitie et aliarum: virtutum de contentu et oblivione ipsarum, cum dicit: Larghezza temperanza e l'oltre nate Del nostro sangue mendicando vanno. Però se questo è danno, Piangano gli occhi et dogliasi la bocca De li uomini a citi tocca... Che se nui semo or punti El pur verrà o pur tornerà gente Ke questo farà star lucente
Attenzione dunque non per una moralità astratta, ma interesse vivo e penetrante per il mondo spirituale di Dante, per quell'amore del Bene morale che già contenuto tutto nella grande canzone dell'esilio, si era effuso nella M anarchia e nelle Epistole per la calata d'Arrigo.
Un altro punto attira poi l'attenzione del Bambaglioli. Questa volta, s'egli si impegna a fondo in un excursus, è per difendere la grandezza di Dante, ribadendo nello stesso tempo le linee dell'interpretazione del Poema, in relazione ai dibattiti sull'ortodossia di certi passi della Commedia, caratteristici della prima età della fortuna dantesca.
La digressione riguarda il problema connesso all' episodio della Fortuna (Inf. VII, 67 sgg.): l'entusiastica adesione di Graziolo agli ideali inverati nella Commedia, la sua costante attenzione per il retto determinarsi della volontà del Poeta, come poteva mai consentire a chi voleva scorgere in quel passo una precisa negazione del libero arbitrio nell'uomo?
E l'argomento era scottante, perché inquadrato da tempo in una formulazione teologico-dottrinale, sicché l'accusa veniva esplicitamente posta come un'accusa d'eresia.
Graziolo prende posizione: ma la sua linea mira più a contrapporre che a polemizzare. Risposta concreta e motivata nei suoi argomenti di dottrina, questa difesa ribadisce l'acutezza con cui il Bambaglioli ha afferrato le prospetti ve di pensiero del poema:

Quamvis verba ista sonent quod Fortuna sic ducat in istis temporalibus, et quod humana prudentia et adversus permutationes et actus huius fortune providere nec operari non possit, nichilominus pro defensione et conseruatione honoris et nominis huius venerabilis auctoris, ne obliquentium vel detrahentium infamia aliquorum notam ejus vere scientie et virtuti derogare contingat... aliqua super ista materia declarabo .

Accennato all'inizio il motivo polemico, la chiosa prosegue su un piano speculativo, con l'intento di dimostrare, attraverso appropriati rimandi al pensiero scolastico, l'assurdità di travisare il testo dantesco.
Graziolo osserva che il Creatore ha posto l'uomo sulla terra in una concreta condizione d'esercizio, dotandolo di ragione, appetito e libero arbitrio, affinché, con la libera elezione della volontà, operasse il bene col sussidio di ragione, o perseguisse il male, lasciandosi trasportare dall'impulso dell'appetito:

Onnipotentis creatoris nostri inaccessibilis sapientia bonorum omnium est summa perfectio: et in creaturis et operationibus suis perfectissime operatur; et cum perfecte creaverit hominem, tria dedit et inspiravit in eo, rationem videlicet, appetitum, et arbitrium liberum; ut ex arbitri libertate et ad dilectionem et operationem boni per rationem, et ad dilectionem et operationem mali per appetitum, possit sua electione moveri...

Su questi presupposti, che - senza polemizzare - inquadrano il problema in armonia con le prospettive stesse dell'opera, Graziolo svolge in trattazione scientifica il suo argomento. Seguirlo punto per punto appesantirebbe soverchiamente il nostro esame .
Basterà quindi richiamare i problemi che sorgono, le soluzioni prospettate. Porre una limitazione al libero arbitrio dell'uomo, dice il nostro, equivarrebbe a rendere privo di senso ogni naturale anelito alla perfezione; con il deprecatissimo risultato, sottolinea il commentatore,

quod homines frustatorie contemplarent et specularent de bonitate et sapientia Dei, frustra illum ex caritate diligerent. Sub perditione preces effuderentur in eo, ac mandata legis divine sub quadam essent perdictione descripta, et quod Caritas, Fides, Spes, Iustitia, Fortitudo, cetereque virtutes, servarentur et diligerentur ad finem perditionis... quod est contra Fidem et per omnia detestandum; summi et increati principii perfectissima considerata iustitia, que bonis merentibus premia, malis supplicia, iudicio sue perfectissime rationis impendit.

Ma rendersi conto dei pericoli teorici di questa negazione del libero arbitrio, non era ancora mostrare che il Poeta non l'aveva neppure concepita. L'indagine procede allora a indicare la sostanziale differenza tra dispositio e necessitas, delimitando il libero arbitrio come assenza totale di necessità, fuori da ogni costrizione, e riferendo invece le parole di Dante alla disposizione che si trae dagli astri:

Concluditur ex necessaria ratione quod ex celesti corporis influentia, quam fortuna communiter appellamus, non necessitas boni vel mali, sed qualitas, dispositio vel habitus ad bonum vel malum veridice infunduntur.

E da questo ne consegue che l'umana ragione può dunque, in assoluta libertà, raffrenare i movimenti e le disposizioni che dipendono dalle influenze del cielo .
L'appassionata difesa di Graziolo, se poniam mente all'anno in cui fu scritta, non può non essere riconnessa con gli attacchi mossi a Dante, certo oralmente prima che concretati nell'Acerba, da Cecco d'Ascoli, che insegnò astrologia a Bologna proprio dal 1322 al 1324. Meglio si comprende, allora, la dura espressione usata dal Bambaglioli per bollare la obliquentium vel detrahentium infamia. Questo primo commento bolognese, come, sia pure in minor parte, il più tardo Lanèo, risente dunque del particolare antagonismo e delle obbiezioni mosse a Dante da certa cultura accademica, che considera va la Commedia sotto il particolare aspetto di Summa dottrinale. Il merito di Graziolo è d'aver reagito non solo prendendo le difese di Dante in punti particolari, ma, soprattutto, elaborando un commento che, sorretto da una solida conoscenza del pensiero scolastico, e da una fervida comunanza d'ideali, mira a illuminare sopratutto i moventi spirituali dell'opera.
In questo senso il commento del Bambaglioli, fra quelli del Trecento, va tenuto in gran conto, perché rappresenta l'unica voce valida di questa primissima età della critica dantesca, quando era ancora sentita la presenza quasi fisica del poeta, e il commento come a difenderne la fama e la degnità, mirava a puntualizzare una linea interpretativa della Commedia.
Contrariamente al suo predecessore, Graziolo, lo possiamo ben dire, riesce nel suo intento: questo perché egli gravitava ancora in una sfera d'interessi - quelli dell'Umanesimo Cristiano del XIII secolo - ch'eran poi gli stessi di Dante. Interessi così ben concretizzati dal1' autore dell'Epistola a Cangrande.
Nel clima culturale aristotelico-domenicano, lavorando sulla trama d'un pensiero in lui ancora vivo e operante, il guelfo cancelliere di Bologna ha posto concretamente le basi per una interpretazione della Commedia sinteticamente incentrata sull'interna linea di svolgimento della personalità morale di Dante; inquadrata non su astratti concetti, ma sulla realtà vissuta dell'uomo che rettifica liberamente la propria volontà e la ordina al Bene .
Nonostante manchino quei riscontri puntuali con l' Epistola a Cangrande che sarà invece facile ritrovare nell'astratta compilazione degli esegeti posteriori, il commento di Graziolo è veramente nato nello stesso clima culturale che determino quel primissimo e sapientissimo commento: ed è questa una delle ragioni, certo la più importante, per considerarlo come un'opera fondamentale dal punto di vista interpretativo, per ogni studioso di Dante .

Date: 2021-12-25