Osservazioni sul medievale “accesus ad auctores” in rapporto all’Epistola a Cangrande [Bruno Nardi]

Dati bibliografici

Autore: Bruno Nardi

Tratto da: Saggi e note di critica dantesca

Editore: Ricciardi, Milano-Napoli

Anno: 1966

Pagine: 268-305

[Dal vol. Studi e problemi di critica testuale. Convegno di Studi di Filologia italiana nel Centenario della Commissione per i Testi di Lingua (7-9 aprile 1960), Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1961, pp. 273-305.]

Fin dal 1891, Benedetto Colfi, studiando il commento inedito di Guizzardo Bolognese e Castellano da Bassano all’Ecerinis di Albertino Mussato, aveva segnalato in una brevissima nota la stretta somiglianza di un passo di questo commento con un luogo dell’Epistola di Dante a Cangrande. Dice Guizzardo:

In libri huius principio, qui Ecerinis est, ut moris est commentantibus, sex solita sunt dicenda: quipe causa efficiens, finalis, formalis, materialis, cui parti philosophie supponatur, et quis sit libri titulus.

E l’autore dell’Epistola a Cangrande:

Sex igitur sunt que in principio cuiusque doctrinalis operis inquirenda sunt, videlicet subiectum, agens, forma, finis, libri titulus et genus phylosophie.

Né maggior rilievo fu dato a questo raffronto, ignorato dal D’Ovidio come dal Bullettino della Società Dantesca Italiana, dallo stesso Luigi Padrin, che nel 1900 ci fe’ dono dell'edizione critica della tragedia del Mussato. Il Padrin, che non ignorava lo studio del Colfi, si limitò a riportarne la breve nota, senza aggiungere verbo.
Ma a lungo andare quel raffronto non poteva essere trascurato da un uomo di ben più ampia cultura che non avessero i filologi del suo tempo, qual fu il barnabita p. Giuseppe Boffito. Questi, che nel 1907 dedicò all’Epistola, dantesca o no, un nutrito studio apparso nelle Memorie dell’Accademia delle Scienze di Torino, e che prima ancora aveva largamente frugato nei commenti ad opere astronomiche e cosmografiche per venire a capo della controversia intorno all'attribuzione dantesca della Quaestio de aqua et terra, dovette capir subito il significato della frase di Guizzardo, che ho sottolineata, riguardante i sex solita, che sogliono esser premessi dai commentatori nelle loro esposizioni, ut moris est commentantibus, frase che ricorre pure, ma meno precisa, nell’Epistola: «que in principio cuiusque doctrinalis operis (ahi!) inquirenda sunt». E perciò egli allargò le sue ricerche in quella direzione, riuscendo a segnalare alcuni notevoli esempi di «accessus ad auctores» nel prologo del commento di Servio all’Eneide, in Pietro di Peckam, in Alessandro Neckam e Giovanni di Garlande, nonché nel commento di Cecco d’Ascoli all’Alcabizio, e infine in alcuni dei più antichi commentatori della Divina Commedia, raffrontati nella tabella alla fine ‘del suo studio.
Quanto a Cecco, del quale il Boffito aveva tra mano il commento all’Alcabizio da lui scoperto nell’unico codice Vat. lat. 2366, pare strano com'egli abbia dimenticato di rinviare al prologo del commento dello stesso ascolano alla Sfera del Sacrobosco, cui questi rimanda esplicitamente nell'altra opera: «Hec autem dixi in scripto supra speram mundi»; il quale pertanto è anteriore alla lettura dell’Alcabizio tenuta da Cecco «dum iuvenis erat electum (sic) per universitatem bononie ad legendum».? Nel proemio appunto al suo commento «supra Spheram» si legge:

In isto autem tractatu sicuti et in aliis libris quatuor cause principales requiruntur, scilicet causa materialis, causa efficiens, causa formalis et causa finalis. Causa materialis, sive subiectum, est ipsum corpus celeste compositum ex omnibus spheris; quia illud est subiectum in scientia, de cuius passionibus et proprietatibus inquiritur in illa. Causa efficiens fuit Ioannes de sacrobusco, qui ex diversis dictis philosophi et aliorum astrologorum istum tractatum sub brevitatis ordine compilavit. Nam bene rememorabilia sunt illa que pauca sunt et ad invicem sunt ordine colligata. Causa vero formalis est duplex, scilicet forma tractatus et modus tractandi. Forma tractatus est ipsum opus per capitula et per ipsorum partes distinctum serie ordinata. Modus tractandi est quincuplex, scilicet diffinitivus, divisivus, probativus, improbativus et exemplorum positivus; nam anime legentis est amenitas colligata, si modus tractandi debito fuerit ordine limitatus. Causa vero finalis est notitia celestium corporum quo ad se et quo ad eorum proprietates et proprias passiones; nam finis scientie speculatio est eorum que in ipsa scientia concluduntur.

Ma la dimenticanza più grave, da parte d’un uomo come il Boffito, fu quella di non averci informato che questo luogo dell’ascolano deriva sostanzialmente, salvo alcune variazioni verbali e qualche breve aggiunta, dal commento di Michele Scoto alla stessa opera del matematico e cosmografo inglese, che il dotto barnabita pur conosceva. Ecco il testo dello Scoto, il cui commento alla Sfera, dedicato a Federico II, non deve essere di molto posteriore al 1230, se pure non è anteriore:

Ex dictis ergo patet, quid sit subiectum istius tractatus, scilicet corpus celeste et tota machina mundi et ea que in mundo continentur et moventur, ut a Ptolomeo et Alphagrano declaratur, a quibus iste tractatus precipue est extractus. Corpus dico celeste esse subiectum, quod ingenerabile et incorruptibile, cum non sit alicuius peregrine impressionis subiectum. Causa efficiens est magister Ioannes de sacrobusco et alii compositores. Causa finalis: cognitio corporum celestium in se et proprietatum et passionum ipsorum. Causa formalis duplex est, scilicet forma tractatus et forma tractandi. Forma tractandi est idem quod modus agendi; et modus agendi est quincuplex, scilicet diffinitivus, probativus, improbativus, exemplorum positivus, ut legitime per se liqueat.

La ricerca iniziata dal Boffito non ebbe continuatori; e così il problema posto dal raffronto di Benedetto Colfi rimase insoluto. E insoluto se lo trovò tra i piedi Augusto Mancini, che nella ormai annosa controversia sull’autenticità dell’Epistola a Cangrande entrò con un’acuta e originalissima comunicazione all’Accademia dei Lincei del 25 marzo 1943.
Il Mancini in sostanza riteneva autentica l’Epistola fino a metà del paragrafo 13: «Sed zelus gratie vestre, quam sitio vitam parvipendens, a primordio metam prefixam urgebit ulterius». L'Epistola si sarebbe chiusa in questo modo con la promessa che altri canti del Paradiso, dopo quelli già inviati, Dante avrebbe continuato a mandare al signore di Verona sino alla fine dell’opera. Invece tutto quel che segue, dalle parole «Itaque, formula consumata epistole» sino alla fine, sarebbe opera di un ignoto espositore, che, appunto «sub lectoris officio», intraprendeva il commento di tutta la terza cantica coll’intenzione d’arrivare alla fine di essa. Anzi il Mancini arriva fino a supporre che l'anonimo espositore o «lector» la parte veramente autentica dell’Epistola a Cane neppur conoscesse. Accennando poi al problema delle «numerose coincidenze» fra il commento all’Ecerinis del Mussato e l’Epistola, che interessavano la data di composizione di questa, il Mancini esprimeva l'opinione «che i commentatori dell’Ecerinis dipendano dalla stessa fonte dell’autore dell’Epistola» (cioè, s'intende, della parte espositiva aggiunta più tardi), «o che l’autore dell’Epistola conoscesse e si valesse del commento dell’Ecerinis».
Ma proprio in quel 1943, usciva, nelle «Romanische Forschungen», il saggio di E. R. Curtius, Dante und das lateinische Mittelalter, ove ben nove pagine (163-71) eran dedicate all’Epistola a Cangrande, anzi alcune proprio al passo del quale ci stiamo occupando. Fu merito del Curtius di aver segnalato la prima fonte, cui diretta-. mente o indirettamente attinsero tutti coloro che nel Medioevo si accingevano a commentare un'opera famosa presa come testo d'insegnamento. Questa fonte è indicata da Boezio, in principio della prima redazione del suo commento dialogico In Isagogen Porphyrii (I, c. I), nell’insegnamento di Mario Vittorino. Secondo questo celebre retore che tanta importanza ebbe nella formazione dello spirito medievale, sei sono le cose che ogni maestro preliba quando s’accinge a commentare un’opera. La prima è l’«operis intentio», che poi sarà detta «subiectum» o «materia»; la seconda è l’eutilitas», cioè il fine che l’opera si propone di raggiungere, e che poi sarà detta «causa finalis»; la terza è l'«ordo», ossia quella che sarà detta la «causa formalis» o «forma tractatus et tractandi»; la quarta è l’autore dell’opera, che i medievali chiameranno «causa efficiens»; la quinta è l’«inscriptio» o «titulus»; e infine la sesta, cui prego di far bene attenzione, consiste nel chiedersi «ad quam partem philosophiae cuiuscumque libri ducatur intentio», ossia, come si dirà poi (e lo documenteremo ampiamente), «cui parti philosophiae opus supponatur» o «subalternetur».
Dallo stesso saggio del Curtius (p. 165) è assai curioso apprendere . che, verso la metà del secolo XI, Guarnieri da Basilea aveva premesso al suo carme teologico Paraclitus questo auto-accessus, com'è ritenuto da taluni quello di Dante nell’Epistola a Cane:

In eius principio suntque notanda: Primum, titulus… Causa efficiens fuit quidam Warnerius de Basilia... Materia libri… Forma tractatus sunt leonini versus; forma tractandi est persuasiva. Causa finalis est instructio penitentis.

Ma l’importanza di questo auto-accessus è piuttosto nella testimonianza che già alla metà del secolo XI sulla terminologia usata da Mario Vittorino e da Boezio cominciava a prevalere quella d'ispirazione aristotelica. Il che s’avverte anche meglio dal volume di C. Spicq, Esquisse d’une histoire de l’exégèse latine au Moyen Age (Paris 1944), dallo studio di E. A. Quain, The Medieval «accessus ad auctores» (in «Traditio», 1, 1945, pp. 21 5-64), e da quello assai più importante di R. W. Hunt, The Introductions to the «Artes» in the twelfth Century (negli «Studia medievalia in honorem R.J. Martin», Bruges 1948). Nel 1948 poi il Curtius riprendeva e completava le sue precedenti indagini nel volume, uscito a Berna, Europaische Literatur und lateinisches Mittelalter. Infine, sei anni dopo, vedeva la luce l’Accessus ad auctores di R. C. Huygens (nella «Collection Latomus», vol. XV, Berchem-Bruxelles 1954), il quale per «auctores» sembra intendere quasi unicamente i poeti, come fa anche Dante (Conv., IV, vi, 4), il quale dice che in certo senso «‘autore’... si prende solo per li poeti». Ed infatti le testimonianze più notevoli di «accessus» addotte dallo Huygens sono quelle riguardanti «Ovidii Epistolarum» m (p. 25), «Ovidii de remedio amoris» (p. 29), «Ovidii de ponto» (p. 30), «Ovidii Fastorum» (p. 33) e Boezio (p. 41), che mi paiono tutte ispirate alla fonte boeziana del commento dialogico all’Isagoge di Porfirio, già indicata dal Curtius. Ed infatti in tutte quelle allegate dallo Huygens, alle pagine cui ho rimandato, si accenna ai «VI inquirenda» dell’insegnamento di Mario Vittorino, e particolarmente al sesto, «cui parti philosophiae (opus) supponatur».
Ma questo genere di pedestri ricerche non pare abbia incontrato nel gusto dei filologi nostrani, neppure di quelli che occupano cattedre di latino medievale, i quali, se tengono in qualche conto il Curtius e i medievalisti stranieri, a queste ricerche, fatta eccezione per il Boffito, non han recato alcun notevole contributo. Eppure a dedicarvisi dovevan sentirsi stimolati, se non dall’esempio degli stranieri, almeno dal bisogno di chiarire il confronto fatto da Benedetto Colfi fra l’autore del commento all’Ecerinis e l’autore dell’Epistola a Cangrande, e a cacciare la pulce messa loro nell'orecchio dal Mancini. L'unico che questo bisogno ha sentito è stato Francesco Mazzoni, un giovane che promette bene e dal quale è lecito attendersi molto, purché non corra troppo e non si lasci sedurre da allettamenti che lo porterebbero sicuramente fuori della buona strada.
Intanto egli non avrebbe dovuto limitarsi a prender visione sommaria e piuttosto affrettata dei risultati raggiunti dagli autori ora ricordati e che egli cita, meno lo Huygens. Ma da quel bravo e intelligente ricercatore ch'egli mi pare, avrebbe dovuto approfondire e continuare le indagini intraprese dal Boffito, dal Curtius e dagli altri. Per esempio: il Boffito aveva ricordato Cecco d’Ascoli. Ma poiché sì del commento all’Alcabizio come di quello anteriore sulla Sfera, per difetto di sicuri dati biografici, non si conosce la data di composizione, l’indicazione di Guizzardo, «ut moris est commentantibus, sex solita sunt dicenda», avrebbe dovuto aprirgli gli occhi e spingerlo a cercare in quella direzione.
Ma poiché egli, per giovanile ansia di arrivare alla mèta che s'era prefissa, questo non ha fatto, mi permetto di dargliene un saggio, poiché il poco tempo che altre occupazioni mi lasciano al presente, e il rapido circolar delle costellazioni mi riserva nell’avvenire, m'impedisce di condurre a termine la ricerca. La quale, nel nostro caso, va fatta in rapporto a Dante, cioè nel mondo culturale più vicino al poeta e nella direzione indicata da Guizzardo, senza limitarla agli accessus ad opere poetiche.
Da Cecco d’Ascoli ho detto di sopra che era facile risalire al commento di Michele Scoto alla Sfera. Allo stesso modo, dai commenti ad opere cosmografiche e astronomiche è altrettanto facile passare ai commenti ad opere mediche. E infatti se togliamo in mano il volume delle Expositiones di Taddeo Alderotto, fiorentino (l’ippocratista Taddeo ricordato da Dante nel Convivio, I, x, 10, come «quelli che transmutò lo latino de l’Etica» in laido volgare), il consueto accessus sul bel principio di ciascuna delle opere esposte non manca mai. Si veda, ad esempio, la Expositio super Isagogas Ioannitii che costituivano lo schema introduttivo fondamentale per l'insegnamento della medicina, sul quale avevano modellato ‘Ali ibn al-‘Abbas la Pantegni e Avicenna il Canon medicinae:

... Quo circa longitudini prologorum indulgens…, accedo ad assignandas causas quatuor, quas de mea consuetudine in principio cuiuslibet Libri perquirro, scilicet que materialis, que formalis, que efficiens, que finalis causa dicatur.
Causa materialis huius est collectio capitulorum universalium comprehendentium sub se totam scientiam medicine aut res medicinales… Causa vero formalis est duplex, scilicet forma tractatus et forma tractandi. Forma tractatus est distinctio partium libri inter se… Forma vero tractandi est modus quem servat, scilicet divisivus. Causa vero efficiens fuit Ioannitius. Causa vero fi nalis est duplex, scilicet finis operis et finis operatoris. Et dicitur finis operis utilitas quam quis consequitur de cognitione huius libri, et est ut tota medicina sub brevitate comprehensa doceatur, ut demum, ea habita, sciat quis per eam habitam sanitatem conservare, et recuperare amissam. Causa vero finalis operatoris est id quod movit auctorem ad condendum librum, et est duplex, scilicet exercitium intellectus, in vita, et post mortem fama cum laude, sicut dicitur in 7° de ingenii sanitate et in almagesti Ptolomei, qui dicit quod qui suscitavit scientiam non est mortuus.

Le stesse cose si leggono in principio dell'esposizione Super Aphorismos e di quelle sui Pronostica e sul Regimen acutorum, che son tre celebri opere di Ippocrate.
Ma si dirà: in tutti questi scritti di Taddeo son dimenticati il titulus dell’opera esposta, e il sesto punto, cioè «cui parti philosophiae supponatur». Ma osservo che né l’una né l’altra cosa sono «cause». Quanto al titolo, poi, è da osservare che esso risulta chiaro da quanto è detto a proposito della causa materiale. Quanto all’omissione del «cui parti philosophiae supponatur», debbo dire che omissione non c'è. Le cose stanno così: stabilire a qual parte della filosofia l'argomento d’un’opera andava ricondotto non era sempre facile, per i diversi punti di vista dai quali l’opera veniva considerata. Così appunto era della medicina per i pareri contrastanti tra i medici e i filosofi. Perciò maestro Taddeo, invece di liquidare questo sesto punto degli accessus boeziani con una frase troppo sbrigativa, preferisce imbastirvi sopra una quaestio o una dubitatio a parte, per discuterne con più ampio respiro e risolverla con meno fretta.
Ed eccolo infatti di lì a poco porsi appunto questo problema: «Secundum est videre cui parti philosophie medicina supponatur». Del quale egli ci dì questa soluzione:

Ad istam questionem videtur dicere Constantinus, quod pro parte subijcitur naturali, et pro parte dialectice… Sed distinguendum est, quia medicina potest considerari dupliciter: uno modo ex parte rei, scilicet ratione suorum principiorum; et hoc modo solum naturali subijcitur, quia sua principia subalternantur naturalibus principijs, etc.

Ma altri medici e filosofi sono stati condotti a porsi questo problema concernente il sesto punto degli accessus tradizionali; e in tutti s'avverte il bisogno di ricondurre da un lato la scienza medica, in un modo o nell’altro, ai princìpi generali della filosofia, e di non sacrificare troppo, dall’altro, il carattere di arte che la medicina trae dalla propria esperienza. In modo analogo, commentatori di opere filosofiche, astronomiche, etico-giuridiche, retorico- poetiche o biblico-teologiche dovranno dare uno svolgimento diverso a quella che si diceva la «forma tractandi», che in sostanza è il metodo proprio di ciascuna disciplina, ossia il «modus agendi» che lo svolgimento di ciascuna comporta, dalla matematica alla poesia.
Taddeo Alderotto moriva ottuagenario nel 1295, e a coprirne la cattedra furon chiamati, negli anni successivi, degni alunni di tanto maestro, Bartolomeo da Varignana, Dino del Garbo fiorentino e Guglielmo Corvi da Brescia.
Di Bartolomeo da Varignana ho potuto vedere le Expositiones super libro de accidenti et morbo, nel cod. Vat. lat. 4452, ove al f. 67ra si legge questo accessus all’opera di Galeno, nel quale è evidente l’influsso del maestro:

...Ex hiis autem apparet que sit causa materialis huius libri... Causa formalis est duplex, scilicet forma tractatus, que est divisio libri in partes et partium capitula, ut apparebit in prosequendo, et forma tractandi, que est modus agendi, qui quidem in hoc libro est resolutivus… Causa efficiens fuit Galienus. Causa finalis est duplex, scilicet operis et operatoris sicut et in aliis libris consuevit assignari.

Seguono poi la «divisio libri» e alcune «quaestiones» sul «titulus» di esso.
Nel cod. Vat. lat. 4464, f. 74ra-86v, v'è lo Scrictum (sic) de malitia complexionis diverse per magistrum dinum de florentia factum manibus propriis quando erat bononie. Ed anche in esso non manca il consueto accessus. Ma prima di tutto egli stabilisce qual sia l’ordine dei libri di Galeno tra loro. Quindi prosegue:

Ex his que dicta sunt, apparet quod sit subiectum in hoc libro, quia est corpus humanum…, et etiam ordo huius ad alios libros. Causa formalis est duplex, scilicet forma tractatus et forma tractandi… Causa efficientis (sic) fuit Galienus. Causa finalis est duplex, quedam est immediata et intrinseca... Causa finalis mediata et extrinseca… Libri titulus talis est: ‘Incipit liber de malicia complexionis diverse’.

Egli non parla del sesto argomento dello schema tradizionale, perché esso è stato già chiarito, parlando dell’«ordo huius ad alios libros». Il che appare anche meglio da questo accessus che è in principio delle Recollectiones de differentiis febrium magistri dini, nel cod. Vat. lat. 4450, f. Ira:

Postquam Galienus in libro de accidenti et morbo determinavit de egritudine in generali, et in libro de malicia complexionis diverse determinavit de egritudine ut contrahitur ad malam complexionem consimilem in generali, modo est eius intencio determinare de mala complexione consimili in speciali, scilicet prout contrahitur ad febrem et eius species. Et ex hoc apparet quid sit subiectum in hoc libro, quia est morbus consimilis, qui est febris in habitudine ad omnes suas species… Sed ratio formalis, secundum quam corpus humanum'est subiectum in hoc libro, est illa que dicta est, scilicet in quantum est egrotabile egritudine febrili in habitudine ad omnem suam speciem. Causa vero formalis est duplex: forma tractatus et forma tractandi. Forma tractatus est ordo libri in suis partibus, qui in divisione patebit, Forma tractandi est modus agendi quem Galienus servat, et est resolutivus in cognitione febrium, et compositivus in dando generationis modum febrium... Causa vero efficiens fuit Galienus. Causa finalis est duplex: intrinseca et extrinseca... Supponitur autem parti medicine theoretice...Libri titulus est: ‘Incipit liber de differentiis febrium'.

Ma l'accessus più completo è quello dello stesso maestro Dino del Garbo in principio delle sue Recollectiones super libro de natura fetus. L’opera esiste in edizione veneziana dei primi anni del Cinquecento; ma preferisco fare uso del già citato cod. Vat. lat. 4464, ff. 88ra-124ra, perché nell’explicit del codice è detto che queste Recollectiones sull'opera di Ippocrate furono «reportate sub excellentissimo artium doctore et scientie medicine Magistro dino de florentia, per magistrum Julianum Bononiensem de Prehuntis [costui era «doct. in medicina» nel 1321 e lettore fino al 1342], sub anno domini 1310, die .10. mensis octubris». Questa data del 1310 ha una qualche importanza. Dopo aver parlato dell’«ordo librorum ypocratis», maestro Dino prosegue [fol. 88va]:

Ex dictis ergo apparet sufficienter que sit causa materialis sive subiectum vel obiectum huius libri, et distinctio eius a cumscideratione philosophi naturalis, et ordo quem tenet inter libros alios ypocratis et distinctio inter eos. Causa autem formalis, sicut et in aliis, est duplex, scilicet forma tractatus et forma tractandi. Forma tractatus est divisio libri in capitula et capitulorum in partes minutas et minutarum in minimas. Forma tractandi est modus agendi quem servat. Iste autem est resolutivus, quia ex effectibus notis ad sensum resolvet usque ad causas. Causa efficiens fuit ypocras. Ypocras autem fuit duplex, ut recitat commentator in commento regiminis acutorum, particula prima. Nam quidam fuit ypocras dictus chous, et iste fecit tantum duos libros, non tamen in medicina. Alius fuit ypocras filius euclidis, et iste edidit plures libros; et hic est qui fecit hunc librum. Causa finalis est cognitio modi secundum quem producitur fetus in utero mulieris. Titulus libri est talis: ‘Incipit liber de natura fetus vel puerorum?... [fol.88vb] Cui parti philosophie supponatur dicendum quod, in quantum huius cumscideratio spectat ad naturalem, supponitur illi parti philosophie, cui supponitur scientia de generatione animalium, scilicet philosophie naturali; in quantum autem spectat ad medicum, dico quod supponitur parti philosophie cui supponitur ipsa medicina.

Ma un altro celebre medico, filosofo e astronomo che Dante probabilmente ha conosciuto di persona a Padova dopo il ritorno di quello da Parigi, ove aveva preso ad esporre i Problemata dello pseudo-Aristotele, è Pietro d’Abano.
In quest'opera, che egli recò a compimento a Padova, anche l’Abanese ha cura di elencare, nel proemio, non sei ma otto preambula atti all'intelligenza dell’opera da lui esposta.

Et nunc in principio expositionis libri illa octo preambula que in exordiis librorum solent tangere glosatores, breviter explicentur. Secundum namque Ciceronem in Rhetorice veteris prohemio, promptiores nos reddunt ad inquirendas artis intrinsecas rationes.
Materia sive subiectum huius libri vel scientie est scibile pene commune sub dubitatione prolatum, sicut in alia editione, ubi hoc queritur, ostendetur; et ex hoc potest huius operis cuicumque intentio apparere. Forma autem huius est duplex, scilicet tractatus, consistens in distinctione partium libri universalium et particularium, ut videbitur subsequenter; et forma tractandi, dicta modus agendi, est triplex in doctrinis Aristotilis usitata. Efficiens siquidem huius scientie fuit Aristotiles stagiritanus, peripatheticus, filius Nichomaci, sapientissimus grecorum, qui secundum Averroem, magis dignius mereretur dici divinus quam humanus. Neque est quod hic liber non fuerit Aristotilis, sicut asserunt quidam mendaciter abnegantes... Et demum apparet quis huius scientie idoneus existat auditor; et non cuicmam parti philosophie hic liber ut alij supponitur, sed in eo pene sermo philosophie totius simpliciter reperitur. In ipso namque tractantur dubitabilia problemata in unaquaque arte, sicut Nicholaus peripatheticus in suis problematibus protestatur.

Quest'ultima osservazione va posta evidentemente in relazione con quanto il medico d’Abano ha detto della materia o soggetto di quest'opera ch'egli riteneva sicuramente aristotelica: i problemata in essa discussi non riguardano una sola parte della filosofia, ma i più svariati argomenti.
Ma su questo argomento egli ritorna nel Conciliator, diff. III, propter 3, là dove vuol dimostrare, contro Costantino Africano, come fa anche Taddeo Alderotto, che la medicina in quanto scienza teorica, e non in quanto arte pratica, naturali «supponitur philosophie», e non alla logica e alla morale, sebbene anche il medico nel ragionare debba rispettare le leggi della logica e nell’agire quelle della morale:

Sciendum quod Constantinus apostata, in principio eius grandioris furti, quod pantechni seu totam artem appellavit, voluit medicinam supponi seu subalternari loyce, naturali et morali... Sed quod rationali sive loyce subalternetur falsum est... Neque est moralis simpliciter, cum in ea doceantur mores et virtutes naturales, acquisiti vero remote ac estranee valde, iuxta illud primi de ingenio [sanitatis], capitulo 5: ‘Qui vult curare animam, primo curet corpus ... Casu tamen potius quam ratione fortassis naturali dixit supponere... Unde in principio de sensu et sensato: Physici est de sanitate et infirmitate prima invenire principia; nec enim sanitatem nec infirmitatem possibile fieri carentibus vita. Quare fere physicorum plurimi et medicorum qui magis physice artem prosequuntur, hi quidem finiunt ad ea que de medicina, hi vero [ex iis] que de natura incipiunt [que] de medicina’. Qui vero medicinalem scientiam asserunt totam fore practicam, subalternari eam mechanice concupiscunt.

Ove in quel concupiscunt, se non m'illudo, mi par d’avvertire una maliziosetta strizzatina d'occhio; poiché, per quanto Pietro sapesse di greco, non mi meraviglierei che anche lui, come S. Tommaso e come più tardi, in pieno Cinquecento, il buon Peretto Mantovano, che di greco non sapevano, intendesse per «ars mechanica» un'arte servile «que facit mechari intellectum»!
Ma v'è un altro medico filosofo e astronomo assai più vicino a Dante e che con Dante dev’essersi incontrato a Verona, cioè quell’Antonio Pelacani da Parma, del quale mi sono occupato nello studio su La caduta di Lucifero e l'autenticità della «Quaestio de aqua et terra». A Verona il Pelacani moriva nel 1327, appena sei anni dopo Dante a Ravenna, e nella tomba a San Fermo Maggiore era ritratto in cattedra in atto di esporre gli Aforismi d’Ippocrate. Ma di lui ci resta anche un commento alla prima Fen del Canon di Avicenna, del quale ho pure parlato.
Nel proemio appunto a quest'opera anch'egli parla delle sei cose utili a sapersi quando si pon mano a «leggere» un testo tolto ad argomento d’una «lettura», cioè d’un corso di «lezioni». Ora in questo proemio, anche prima di accennare alle consuete quattro cause e al titolo dell’opera commentata, maestro Antonio si preoccupa del sesto punto dello schema boeziano dell’accessus, tanto la cosa gli pareva importante. Ma ecco il testo che trascrivo dal codice Vat. lat. 4452, fol. Ira:

Scriptum magistri anthonij de parma, maximi philosophi, super primam fen primi avicene.
[I]n primis deo gratias. Intentio avicene in hoc libro est docere, subvenire et aministrare nature in cunservando sanitatem in sanis et removendo egritudinem in egris, quando est in hoc deficiens. Nam, licet natura sit principalior operans in cunservando sanitatem et egritudinem removendo, tamen medicus in hoc ei ministrat quando in hoc deficit. Unde dicebat Snc in tegni: ‘horum vero natura operatrix’ etc.
Sed advertendum quod sanitas et egritudo possunt cunsciderari dupliciter. Uno modo, ut sunt quedam passiones viventis ut vivens est; et ut sic, earum cunscideratio pertinet ad philosophiam naturalem. Et ratio huius est, quia cuius est cunsciderare principia vite, eius est cunsciderare passiones vite. Modo, cum philosophus naturalis cunscideret principia vite, habet etiam cunsciderare passiones vite; et cum sanitas et egritudo sint huiusmodi, ideo etc. Ideo dicebat aristotiles, in principio de sensu et sensato, quod philosophi naturalis est cunsciderare principia sanitatis et egritudinis; et pro tanto aristotiles ibidem recitat se fecisse librum de sanitate et egritudine quem tamen non habemus translatum.
Alio modo possunt cunsciderari ut sunt quedam passiones aquisibiles vel removibiles non solum pèr naturam, sed etiam per artem; et sic sunt de cunscideratione medici... Et ideo sic erit de sanitate et egritudine quia, licet a virtute corporis procedant principaliter, tamen modus cunservationis sanitatis et remotionis egritudinis per artem docetur.
Ex dictis autem apparent duo. Unum est que sit differentia inter philosophum naturalem et medicum in cunscideratione sanitatis et egritudinis. Aliud est que sit causa materialis huius libri, quia corpus humanum ut in ipso sanitas cunservatur et egritudo removetur per artem. Causa autem efficiens fuit avicena; et dicitur avicenus ab .a. quod est filius, et vicenus pater; unde abutentes nomine dicimus avicena. Causa formalis est duplex, scilicet forma tractatus, que est libri divisio, et forma tractandi, que est modus procedendi huius libri, qui est multiplex et diversus. Nam aliquando avicena procedit modo diffinitivo, aliquando demonstrativo, aliquando narratorio, aliquando resolutivo, aliquando experimentatorio. Et causa huius fuit, nam, cum in hoc libro determinentur diversa que in sui determinatione egent diverso modo procedendi, necessitatus fuit avicena uti in hoc libro diversis modis procedendi. Et propterea qui ponunt ipsum uti proprio modo procedendi male dicunt. Causa finalis est duplex, scilicet propinqua, ut cunservatio sanitatis et remotio egritudinis, et remota, ut, habita sanitate, de deo speculemur; in hoc enim omnis scientia finaliter ordinatur. Quid sit libri titulus: ‘Incipit liber avicene’. Dividitur autem liber iste...

Abbiamo dunque tutte e sei le cose dello schema boeziano divenuto tradizionale. Ma il sesto punto è stato trattato per primo da Maestro Antonio. Il quale del resto ritorna poco dopo sull’argomento, ponendosi, come Pietro d’Abano e come Taddeo, lo speciale quesito Utrum omnium que sunt in medicina possit tradi certa cognitio. Nella soluzione appunto di questa quaestio il Pelacani chiarisce in che la medicina si distingue dalla filosofia naturale c dalla filosofia morale: dalla prima, perché quella non considera le disposizioni del corpo umano in particolare; dalla seconda poi, perché la morale non considera le disposizioni del corpo umano «ut sani fiamus, sed ut boni fiamus».
Alla scuola di Taddeo è strettamente legato l'anonimo autore della Lectura quedam imperfecta super Avicennam pervenutaci ugualmente nella riportazione di un discepolo parimente anonimo, nel codice Vat. lat. 2366, f. 94ra, che è codice di sicura origine bolognese, da me già ricordato nello studio su La caduta di Lucifero? Anche questo anonimo maestro si limita a far menzione delle quattro cause:

...et per hoc patet nobis que sit causa materialis huius libri, quia sunt canones universales medicine sub modo compilativo et sub complemento collecti. Causa formalis est duplex, scilicet forma tractatus et forma tractandi. Forma tractatus est ordo libri et distinctio et ordinatio partium libri et capitulorum inter se. Nam primo agit de canonibus universalibus medicine... Forma tractandi est idem quod modus agendi, qui forsan dici potest resolvens vel diffiniens… Causa efficiens fuit ipse avicena. Causa vero finalis est duplex, scilicet finis operis et operatoris. Causa finalis‘operis est duplex: inmediata et mediata: inmediata est ut habeatur perfecta cognitio eorum que in hoc libro determinantur; mediata est ut per ea que traduntur in hoc libro sciatur sanitas conservati et admissa (sic, l. amissa) recuperari, etetiam ut homo acquirat lucrum, sicut ipse [magister] dicit in presenti capitulo. Causa vero finalis operatoris est intentio quam habuit avicena; et hec est duplex: una est in vita presenti, alia vero est post mortem, ut per istius operis memoriam viventibus societur. Nam, sicut dicit tholomeus, non est mortuus qui scientiam suscitavit; hec etiam tradita sunt a Galieno, VII° de ingenio sanitatis, capitulo primo.

E mi pare che coi medici possa bastare, sebbene mi sarebbe facile allungarne la serie. Mi piace invece non tacere di qualche filosofo e teologo, limitandomi appena a un sol nome, perché in questo campo ha già dato utili informazioni lo Spicq, nel volume già citato, sebbene alquanto disordinate e ben lungi dall’esser complete.
Dirò dunque qualcosa di Egidio Romano, nome non ignoto a Dante, e del cui pensiero cosmografico ho dovuto parlare a proposito della Quaestio de aqua et terra. Nel prologo del commento al primo libro delle Sentenze di Pietro Lombardo, che pare sia anteriore di poco al 1277, Egidio distingue anzitutto le consuete quattro causae della scienza teologica, cioè la materia dei quattro libri, la carisa efficiens principalis che è la Sapienza increata, e la causa efficiens instrumentalis che è Pietro Lombardo, vescovo di Parigi, la causa formalis che al solito è duplice, in quanto per essa s'intende tanto il modus agendi quanto la forma tractatus, e infine la causa finalis. Ma sulla causa efficiente, sulla causa formale e su quella finale egli ritorna in modo più explicito nella terza parte dello stesso prologo, ponendosi altrettanti dubbi. Uno di essi riguarda la causa efficiente che è detta anche, e prego notarlo bene, causa agens. Nella soluzione di questo dubbio Egidio distingue un triplice «agens»: universale, quale Dio e i corpi celesti; particolare, quale la natura di ogni cosa, per esempio, la natura del frumento; e strumentale, quale il contadino che affida il frumento alla terra e gli dà modo di germogliare. Dal che si rileva che egli non fa differenza fra causa efficiente e causa agente. Di una cosa Egidio non parla, cioè di quella di cui si soleva parlare in sesto luogo: «cui parti philosophiae supponitur». Sarebbe stato il colmo. La scienza divina, la teologia, che ha per causa efficiente o agente principale Dio stesso, non può sotto- stare ad alcuna scienza umana, per Bacco! È chiaro. No? E con l’eremitano s'accorda anche Bonaventura nei luoghi indicati dallo Spicq.
Invece di questo Egidio parla nei termini consueti nel proemio al commento Super authorem de causis che si ritiene del 1290 al più tardi:

His visis, de facili possumus descendere ad causas huius operis. Nam ma- teria sive subiectum... Causa vero efficiens ignoratur, sed creditur a multis fuisse Alpharabium... Modus autem agendi sive forma tractandi... Forma autem fractatus... Causa autem finalis… Titulus autem huius libri qua- drupliciter ponitur... Cui autem parti philosophiae supponatur in dubiis patebit.

E proprio uno dei dubia ventilati da lui riguarda quest’argomento:

Ulterius forte dubitabit aliquis cui parti philosophiae supponatur haec scientia. Dicendum quod cum tres sint modi essentiales philosophiae, ut dicitur in sexto Methaphysices, videlicet physicus, matematicus et divinus methaphysicus, scientia tradita in hoc libro supponitur illi parti philosophiae quae di- citur divina sive Methaphysica…

Anche i due commenti al De consolatione philosophiae di Boezio e allo pseudo-boeziano De disciplina scholarium, più volte stampati col nome di S. Tommaso in fronte, ma che taluno ritiene opera di Tommaso Waleis o di Marquardo Scozzese (entrambi della metà del secolo XIV), ci offrono altre due testimonianze del persistere dello schema consueto di accessus. Ma se l’autore nel commento al De consolatione si limita alle quattro «cause» e al titolo dell’opera commentata, in quello invece al De disciplina scholarium, dopo aver trattato della «causa materialis quae subiectum dicitur», della «causa finalis» che denota l’intento e l’utilità dell’opera, della «causa efficiens», della «causa formalis» che al solito si distingue in «forma tractandi» e «forma tractatus», e del «titulus», sul quale in ambedue i commenti si ferma a lungo, eccolo di fronte al sesto quesito dello schema boeziano:

Postremo autem cui parti philosophiae subordinetur, videndum. Subordinatur autem ethicae, quia de moribus discipuli erga magistrum loquitur, quod ad ethicam reducitur.

Ma è ora che mi rivolga ai giuristi. E in primo luogo citerò la glossa alle Decretali di Gregorio IX, tratta da molte fonti. Nel proemio, proprio alla parola «Gregorius», sul ben principio dell’opera, accade di leggere:

In huius libri principio, quinque vel sex praecipue sunt praenotanda, videlicet quae sit intentio, quae materia, quae utilitas, cui parti philosophiae supponatur, quis modus agendi et quis libri titulus.

In questo schema s'avverte subito qualcosa d’arcaico che ci riporta alla terminologia usata da Boezio, tanto che alcune note marginali sono state ritenute indispensabili per chiarirla. Così, per esempio, a proposito dell’utilitas, che «alii dicunt causam finalem»; ma soltanto la «causa finalis proxima», poiché «causa finalis remota est felicitas et beatitudo quae sequitur ex causa proxima». Quanto al rapporto del Liber decretalium con la Filosofia, è detto che «supponitur Ethicae, idest morali scientiae, sicut et alii libri iuris».
Più diffuso è il celebre decretalista Enrico di Susa, detto rostiense, perché cardinale vescovo di Ostia dal 1261 al 1271. In principio della Summa aurea, egli amplia lo schema tradizionale, portando a dieci i sei argomenti dell’accessus che già conosciamo. L'Ostiense infatti si chiede: I. «Unde habuit originem liber iste» (Decretalium); 2. «Quis composuit hunc librum»; 3. «Quo nomine nuncupetur»; 4. «Quae sit eius materia»; 5. «Quae utilitas»; 6. «Quae intentio authoris»; 7. «Quis modus agendi»; 8. «Forma paragraphi»; 9. «Cui parti philosophiae supponatur»; 10. «Quis finis».
Ma nella trattazione di questi dieci punti lo schema tradizionale appare evidente, per quanto diluito. Per quello poi che concerne il nono punto: «Cui parti philosophiae (liber iste) supponatur», la risposta del nostro decretalista è netta: «Ethicae, idest Morali».
Né di questo schema tradizionale facevano uso soltanto i canonisti, ma anche gli espositori del corpus iuris civilis. Così, ad esempio, Azzone, contemporaneo dell’Ostiense, nel proemio alla sua Summa sul Codice di Giustiniano:

Videndum est ergo quae sit huius libri materia, quae intentio, quae utilitas sive finis et cui parti philosophiae supponatur.

E due colonne più giù:

Propria autem materia domini Iustiniani sunt tres codices, Gregorianus, Hermogenianus, Theodosianus et extravagantes constitutiones. Intentio autem sua est ex illis... hunc codicem componere... Finis autem sive utilitas summa est, quia, hoc opere perlecto… Supponitur autem ethicae philosophiae, quia tractat de moribus, sicut omnes libri legalis scientiae…

E le stesse cose Azzone ripete in principio alla sua Summa in librum novellarum.
Ma per concludere coi giuristi, non posso tacere del commento di Cino da Pistoia al Digestum Vetus. Nel proemio a quest'opera dell'amico di Dante si legge infatti:

Quid est ergo subiectum sive materia huius libri? Certe est hic subiectum quod in toto corpore iuris et in tota legali scientia... Modo videamus de causa formali. Et ista est duplex; nam una est ex parte tractandi, et alia ex parte tractatus... Causa finalis est duplex; una quidem est causa proxima, et alia est remota... Causa vero efficiens est ipse Deus, cuius Romanus populus in hoc suum organum... Expediti sumus de causis; videndum est de secundo, scilicet cui parti philosophiae subalternetur ista scientia. Multa possent dici, tamen Doctores communiter dicunt quod subalternatur Ethicae, ut in Authen. ‘Quomodo oportet Episc.’ et in multis aliis. Secundo et ultimo restat videre, quid sit nomen libri et quis titulus eius...

In questo passo di Cino, non meno che in quelli di Dino del Garbo, ricompaiono, com'è facile vedere, nella loro forma più pura i sei punti degli accessus tradizionali ad auctores. Notevole che causa efficiente principale del diritto romano sia Dio, del cui volere il popolo romano è lo strumento. In questa affermazione del pistoiese si riassume tutta la Monarchia di Dante.
E con Cino pongo fine a questa scorribanda fatta con molta fretta e coll’intento preciso di non allontanarmi troppo da Dante.
Ed ora ritorno al commentatore dell’Ecerinis, Guizzardo bolognese. Il quale, oltre che del commento alla tragedia di Albertino Mussato, è autore anche di un'esposizione Super poetria Magistri Gualfredi, conservata nel cod. Ottob. lat. 3291, segnalatomi dall’amico e collega Augusto Campana. Siccome dell’esistenza di questa esposizione non tutti sono a conoscenza," mi piace di riportarne per intero il prologo, sebbene non immune da errori:

[f. Ira] Incipiunt Recollecte super poetria Magistri Gualfredi. Quoniam propter opinantes contrarium novitati, qui ob ornatum modum loquendi sive stilo dictaminis subiacentem suspicantes rethoricam formaliter - edocere, «delphinum silvis appingit, fluctibus aprum», ego Guicciardus, minimus donatorum minister ipsis deviantibus fore succurrendum, errore sublato de medio propter differentiam inter Rethoricam, Dyaleticam, Poesim et ornatum sermonem lucide assignandam, cum correptionis venia, cogitavi, antequam presens opus exponerem sicut possum. Aiunt enim rethoricam ipsam, secundum id quod est, differre a loyca, et secundum genus distinctum ab ipsa in numero septem liberalium artium ponunt, quod evidens apparet, propter eorum dicta, in antiquis codicibus gramaticorum et sententijs, ut ibi septem sunt liberales artes. Nam ibi ponunt dyaleticam pro loyca. Rursus sub ipsa Rethorica formaliter accepta ipsam scientiam poetarum, que poesis nominatur, simul et ipsum ornatum sermonem, opus dictatorie facultatis, ponentes, ipsam videntur penitus rethoricam ignorare.
Primum quidem reprobat philosophus, primo rethoricorum, dicens quod ipsa rethorica est dyaletice assecutiva; quod potest probari et breviter declarari. Quia quorumcumque est idem principium sub generis unitate, et inter se differunt per formas essentiales, non debent inter se genere distingui. Sed dyaletica et rethorica sunt huiusmodi. Ergo etc. Maior de se nota est. Minor declaratur, quia sub arte probativa procedente ex probabili et contingenti, ut subicitur et predicatur per formas essentialiter differentes, reponitur dyaletica et rethorica; utraque enim probabiliter silogicat (ms. silogicant), licet differenter, ut statim apparebit. Ergo non differunt genere, sed specie. Ex quo manifeste apparet ipsas non esse diversa genera artis liberalis.
Secundum similiter reprobatur, quia illorum que differunt per formas specificas, unum. non reponitur sub altero. Sed poesis et rethorica et sermo ornatus sunt huiusmodi. Ergo non reponuntur sub rethorica. Maior est nota de se. Minor declaratur autoritate philosophi, qui separatim de singulis determinavit per se. Hoc idem apparct, quia forma poesis vel sillogismus poeticus procedit ex quibusdam transumptive sumptis vel fictis, ut aggeneret [?] suspitionem. Unde poio, pois, idem est quod fingo, ut apparet in fabulis poctarum: Ovidij, Oracij, Juvenalis, et aliorum illustrium personarum similium, Forma autem rethorice vel sillogismi rethorici est procedere vel persuadere cx quibusdam rerum attributis, coniecturis vel signis facientibus aliqua adherere alicui partium contradictionis. De hac autem rethorica philolosophus plene determinat in rethoricis; et ideo dicebatur, primo rethorice, quod énthimema est sillogismus rethoricus, et exemplum est inductio rethorica; ut cum dicitur: ‘mulier habet lac, ergo peperit’; et: ‘iste habebat gladium sanguinolentum in manibus, ergo hominem interfecit’.
Sermo autem dictatorius est quiddam compositum vocum, quod dignitatem ct consonantiam in se tenet, ad docilitatem benivolentiam et attentionem captandam, [f. 1rb] Tullio protestante, que ad usum oratoris est omnimo accomodata. Et tres res debet habere: elegantiam, compositionem et dignitatem; quia multum ornatus modus loquendi doctos ab indoctis separare videtur, et multam in populis gratiam promeretur.
Hic autem sermo passionalis dici potest, quia omnibus enarrandus (sic, l. enarrandis) merito adaptatur. Sed quia ipso potius utimur ad finem rethorice persuasivum, ideo rethorice nomine nuncupatur, et melius videtur posse rethorice adaptari. De hoc autem sermone determinatur in rethorica tullij mixtim cum ipsa rethorica. Sed philosophus de rethorica determinat.
Sed in hoc presenti opere poctrie de tali sermone plenarie determinatur. In cuius quidem principio sunt quattuor genera causarum investiganda, scilicet efficiens, materialis, formalis ct finalis.
Causa quidem efficiens fuit Gualfredus vel Gualterius, litteratoria facultate facundus, qui quanta bonitate claruerit suortum operum eminentia manifestat. Flic autem, propter veniam impetrandam a summo pontifice, ad curiam Romanam, pro Ricardo rege Anglie qui beatum thomam de conturbia interfecerat ob thesauros ecclesie habendos, direxit humiliter suos gressus. Hic vero, videns quod propter mellifluum ornatum modi loquendi, per modum doctrine in summam redactum, poterat in curia concludere quod optabat, epylogationem presentis operis perpetrandam commisit. Qua fine legitimo consumata, laudum papalium et cardinalium continentia, obtinuit quod petit ab eisdem, et ab alijs curialibus gloriam et honorem.
Causa materialis idem est quod subiectum libri. Ideo cum omnia, que hic dicuntur, reducantur vel per se dicantur de ornato modo loquendi in stilo dictaminis, ipsum erit causa materialis.
Causa vero formalis est duplex, scilicet forma tractatus et forma tractandi. Forma tractatus est distinctio libri per partes principales et partium principalium in partes minutas, quousque deveniatur ad minimas sententiam continentes. Forma tractandi idem est quod modus agendi, qui est divisivus, continuativus et exemplorum positivus.
Causa finalis assignari potest, videlicet ut tali oratione ornata in omnibus enarrandis gratiam adquiramus.
Nunc ad divisionem libri accedentes...

Fatto cenno delle quattro cause, Guizzardo, a differenza di quel che fa nel commento all’Ecerinis, non sente il bisogno di soffermarsi sul «titulus libri» e sulla domanda «cui parti philosophiae supponatur», perché questi due punti erano ormai chiari dalla prima parte del prologo che abbiamo riferito, ove si discute dei rapporti della Retorica con la Dialettica.
Ed ora mi pare che basti con le testimonianze, trascelte a bella posta nel mondo letterario assai vicino all’autore della seconda parte dell’Epistola a Cangrande. Il numero ragguardevole di esse e l’importanza e diffusione delle opere da cui son tratte, mi pare autorizzino alcune conclusioni che sottopongo al giudizio degli intendenti.
La prima è questa, che cioè nessun indizio autorizza ad affermare un rapporto di diretta dipendenza sia del commentatore bolognese dell’Ecerinis dall’Epistola a Cangrande, sia dell'autore di questa da Guizzardo.
Dopo quanto son venuto documentando, non si può non sorridere dell’ingenuità del nostro caro Francesco Mazzoni quando afferma che il «primo punto di contatto» fra il commento all’Ecerinis del Mussato e l’Epistola sarebbe indicato dalle sei periochie o accessus dell'uno e dell'altra, «tutte e sei, badiamo bene, non ancora ridotte — come poi accadde nei commentatori del Poema — al numero di quattro, mediante gli abbinamenti che ben conosciamo». Ma egli evidentemente ha dimenticato il «sex omnino magistri in omni expositione praelibant» di Boezio, pur segnalatogli dal Curtius. E sei, e soltanto sei, son rimasti per tutti, da Boezio in poi, i punti dell’accessus ad auctores, e cioè le quattro cause, il titolo e il rapporto dell’opera commentata con una parte della filosofia: 4+1+1=6. Chiaro? Se qualche commentatore omette talora il titolo o il sesto punto, lo fa perché del titolo ha già parlato implicitamente a proposito della causa materialis o subiectum libri. Quanto poi al «cui parti philosophiae supponitur», talora, come abbiamo visto, è fatto argomento di discussione speciale. Infine, che taluno porti a otto o a dieci i punti dell’accessus significa che sente il bisogno di chiarir meglio questo o quel punto dello schema tradizionale, ma lo schema stesso non muta. Ciò andava detto per quel che il Mazzoni osserva sulla pretesa riduzione delle sei periochie a quattro da parte dei commentatori trecenteschi del Poema: 4+1+1=6, cioè 4 cause, più il titolo, più il «cui parti philosophiae supponitur», fanno sei giusto giusto.
A proposito poi della «causa materialis sive subiectum» di Guizzardo, nel commento all’Ecerinis (ma ora egli può vedere anche il commento dello stesso maestro bolognese Super poetria Gualfredi), il Mazzoni scrive:

Lo schema, come si vede, è quello ormai noto. Facile vedere in quel ‘sive subiectum’ che vuol chiarire la ‘causa materiale’ una spia del ‘subiectum’ dell’Epistola.

Se davvero lo schema tradizionale gli fosse stato noto, non in astratto e per sentito dire, ma in concreto e negli espositori medievali che ne fanno uso, egli non si sarebbe illuso fino al punto di scorgere nel «sive subiectum» di Guizzardo «una spia del subiectum dell’Epistola»; poiché l’espressione «causa materialis sive subiectum» si trova, come abbiamo visto, nel commento al De causis di Egidio Romano, in Pietro d’Abano, nelle Recollectiones di Dino del Garbo sul De natura fetus, del 1310, e in Cecco d’Ascoli; anzi in Dino, per due volte, la parola «subiectum» sostituisce addirittura la frase «causa materialis», come nel commento di Michele Scoto alla Sfera.
Questa debole conoscenza dello «schema… ormai noto» l’amico Mazzoni rivela ancora meglio quando aggiunge:

Facile cogliere, subito dopo, in modo addirittura scoperto, cosa si leggesse, al posto dell’espressione «causa formalis» nel testo che Guizzardo doveva aver sott'occhio:
Causa formalis duplex: forma tractatus et forma tractandi. Forma tractatus est compositio partium libri: componitur enim ex tribus partibus principalibus ... Forma autem tractandi est modus agendi quem tenet auctor, et est tragicus a tragos quod est hyrcus.

E non contento d’aver sottolineato le due espressioni «forma tractatus» e «forma tractandi», egli esclama: «Dalla botte nuova, è il caso di dirlo, vien fuori il vino vecchio»! Veramente le botti nuove non son le più adatte, per chi se ne intende, al vin vecchio. Ma qui la botte è altrettanto vecchia quanto il vino, perché il concetto e l’espressione che lo enuncia eran d’uso comune da oltre un secolo almeno. Basta dare una scorsa alle testimonianze che ho riportate.
Ma il buon Mazzoni sente ad un tratto raffreddarsi l'entusiasmo per Guizzardo:

E guardiamo, subito dopo, come si svuota, in una assoluta genericità, il senso del «genus phylosophiae», nel passare (ben difficile provare il con- trario!) dall’Epistola al commento di Guizzardo:
Parti philosophiae supponitur ethicae; nam bonis exemplis virtus accenditur, ut illud poéticum: «proficit exemplo meriti cautela docendi».

Purtroppo, coll’affermazione che l’Ecerinis «parti philosophide supponitur ethicae» l’autore del commento s'è uniformato, anche nell'espressione verbale, alla formula ormai stereotipata della quale abbiamo incontrate tante testimonianze, con variazioni insignificanti. Sembra proprio che l’aver avuto «sott'occhio» il testo dell'Epistola non abbia affatto giovato a Guizzardo, sì che il Mazzoni avrebbe ben ragione di risentirsene.
Ma forse, ad attenuare alquanto la sua delusione, potrà giovargli il sapere che l’espressione «genus philosophiae» parrebbe sottintesa e riecheggiata nel prologo, che ho riferito, del commento del maestro bolognese Super poetria Magistri Gualfredi, là dov'egli discute della differenza tra retorica e dialettica.
Se non che la certezza della scoperta ripiglia subito quota, e il Mazzoni trova che «persino la secchezza dell’intitulatio conserva alcunché dell’esemplare:

Libri titulus: «Albertini Mussati poetae Paduani tragedia Ecerinis incipit»!

E che altro aveva da dire Guizzardo, se questo era il titolo dell’opera presa a commentare? Forse spiegare il significato della parola Ecerinis? Ma questo è spiegato Îì dove si narra la storia di Ecerino III da Romano. Forse l'etimologia del nome Mussato» Ma di questo aveva già detto a proposito della «causa efficiente», spiegando che Muxatus «ethimologice» vuol dire «musis satus vel musis aptus». La quale etimologia è probabile abbia influenzato l’Ottimo, quando scrive:

Dante è el proprio nome del auctore [del libro, la Commedia], et optima- mente si confece a luj, però che infino che elli vivette fu in habito et acto di dare e di concedere di quelle scientie et beni che dio li avea donati; sì che alla cosa rispuose il nome, sì come dice nella instituta, titolo de donationibus, paragrafo Est et aliud. Quivi, li nomi essere conseguenti ale cose studiavano.

Ma ora conviene fermarci a considerare l’uso che dello schema tradizionale degli accessus si fa da parte dell’autore dell’Epistola a Cangrande.
L'autore della seconda parte dell’Epistola alla più frequentemente usitata terminologia che ben conosciamo, «causa materialis, causa efficiens… cui parti philosophiae supponitur», preferisce una terminologia più rapida, «videlicet subiectum, agens, forma, finis, libri titulus, et genus phylosophie». Niente di strano in questo; la sostanza, che è quella che conta, resta perfettamente la stessa. Una piccola inesattezza va però notata: mentre Guizzardo, d’accordo con Boezio e con la tradizione che n'è derivata, con precisione e verità c'informa che quei «sex solita» son propri dei «commentatori» o espositori («ut moris est commentantibus») e non s’usano in altre opere che non sian commenti, l’autore della seconda parte dell’Epistola pretende che «in principio cuiusque doctrinalis operis inquirenda sunt». Il che non è affatto vero.
Quanto al resto, ho poco fa notato come subiectum, invece di causa materialis o materia, si trovi già in Michele Scoto, Super auctore sphere, e due volte in Dino del Garbo (De mal. complexionis diverse e De differ. febrium), che però nel De nat. fetus usa «causa materialis sive subiectum vel obiectum», come s'usa anc’oggi, quando si dice: «il soggetto di cui si tratta; l'oggetto della ricerca» ecc. Dell’agens, invece di causa efficiens, dirò fra poco. Del genus philosophie, anzi che del «cui parti philosophiae (liber) supponitur», dirò che finora tale espressione non mi è mai capitata a questo proposito; tuttavia essa risponde sicuramente ad un concetto d’Aristotele, il quale dice che le diverse scienze si diversificano tra loro in quanto «circa unum quid et genus aliquod circumscriptae, de hoc tractant». E, come, esempi di questa diversità, ricorda le diverse parti della filosofia teoretica, le discipline pratiche o morali e quelle «fattive» concernenti le arti e i mestieri che si propongono di produrre qualcosa di nuovo artificialmente.
Fin qui, dunque, niente di sostanzialmente nuovo. Le novità invece cominciano là dove si tenta di applicare alcuni di questi accessus all'opera di Dante, sia per quel che concerne l’intero poema, sia per quel che concerne in particolare la terza cantica.
E cominciamo dal subiectum. Ma prima di venire alla determinazione del subiectum, sia di tutto il poema, sia del Paradiso in parti colare, egli dichiara che la Commedia non ha un solo senso semplice, ma. ne ha più d’uno. E da teologo l’autore dell’Epistola parla dei quattro sensi scritturali, che cioè s’applicavano nel Medioevo all’interpretazione della Sacra Scrittura. Anche Dante, nel Convivio, I, i, 2-15, accingendosi a interpretare allegoricamente la canzone Voi che ‘ntendendo il terzo ciel movete, osserva che i teologi prendono il senso allegorico «altrimenti che li poeti». I quali ritengono il senso allegorico «una veritade ascosa sotto bella menzogna». Il senso letterale sarebbe appunto «bella menzogna», cioè favola. Ma pur dichiarando di voler «qui lo modo de li poeti seguitare» e di prendere «lo senso allegorico secondo che per li poeti è usato». Dante si dilunga a parlare altresì del senso morale o tropologico e di quello anagogico usati dai teologi, per dirci che per arrivare al senso allegorico, morale e tropologico di questi, come al senso allegorico dei poeti, il punto di partenza è il senso letterale: «sempre lo litterale dee andare innanzi, sì come quello ne la cui sentenza li altri sono inchiusi, e sanza lo quale sarebbe impossibile ed inrazionale intendere a li altri, e massimamente a lo allegorico» (Conv., II, i, 8).
Invece l’autore della parte dell’Epistola scritta «sub lectoris officio» parla dei quattro sensi che si potrebbero o dovrebbero attribuire alla Commedia da un teologo; e come i teologi, osserva anch'egli che i sensi mistici, sovrapposti a quello letterale o «istoricale», posson tutti e tre dirsi allegorici: «generaliter omnes dici possunt allegorici, cum sint a litterali sive historiali diversi». Ma egli non solo tralascia di parlare del senso allegorico come l’intendono i poeti, ma, quel che è più grave, finge di dimenticare che il senso letterale, pei teologi, non può esser mai bella menzogna, tranne il caso delle parabole e di certe figurazioni essenzialmente allegoriche che s'incontrano nelle visioni profetiche e nell’ Apocalisse. Unico libro cui s’attribuisse nel Medioevo soltanto un senso allegorico era il Cantico dei cantici; ché altrimenti si sarebbe dovuto escluderlo dalla raccolta dei libri sacri. Tranne questi casi, il senso letterale o «istoriale», cioè quello che le parole significano per se stesse, è sempre vero, e tutti gl’interpreti medievali della Bibbia si sarebbero guardati dal chiamarlo favola. Tali, ad esempio, la benedizione di Isacco a Giacobbe ottenuta con l’inganno, taluni episodi della storia di Sansone, la permanenza di Giona nel ventre del cetaceo, ed altri. Anzi il senso allegorico, come dicevano concordi i teologi e come ripete anche l’autore dell’Epistola, non si ha «per litteram», ma bensì «per significata per litteram».
Ora, mentre finge d'ignorare che il senso letterale nelle Sacre Scritture è sempre vero, l’autore dell’Epistola tende, applicando ciò che ha detto alla Commedia, a svalutare il senso letterale e a ridurlo a favola o finzione. Egli infatti afferma subito che «subiectum totius operis, litteraliter tantum accepti», è lo «status animarum post mortem simpliciter sumptus», riducendo così la Commedia a un barboso trattato teologico sull’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso. E, per giunta, volendo distinguere dal soggetto della Commedia inteso in senso letterale, il soggetto inteso in senso allegorico, ripete, senz’accorgersene, la stessa cosa; poiché dire che soggetto allegorico del poema «est homo prout merendo et demerendo per arbitrii libertatem iustitie premiandi et puniendi obnoxius est», è esattamente la stessa cosa del dire qual è lo «status animarum post mortem», lo stato cioè delle anime disposte e raggruppate nei tre regni d’oltretomba secondo un sapiente criterio di giustizia.
In realtà il senso letterale di tutto il poema è un altro, e cioè il viaggio, il «fatale andare» di Dante, smarrito, attraverso l'Inferno e il Purgatorio fino alla «selva antica» del Paradiso terrestre, sulle orme d’Enea, sotto la scorta di Virgilio; e quindi l’ascesa attraverso le sfere celesti sulle orme di S. Paolo, sotto la guida di Beatrice. E in questo viaggio e in questa ascesa Dante porta con sé il suo «stato civile» con tutta la sua ricca umanità, con tutte le sue aspirazioni personali, letterarie, politiche, morali e religiose, sì che il pronome personale io risuona dal secondo al terz’ultimo verso della Commedia («mi ritrovai in una selva oscura»...«e già volgeva il mio disio e il velle») ed è costantemente presente, in ogni tappa, in ogni episodio, in ogni momento. Questo il senso letterale del poema dantesco dal principio alla fine; la stessa giustizia del premiare e del punire non ha niente di allegorico, poiché è discussa e dichiarata apertamente nel canto undecimo dell'Inferno, nel canto diciassettesimo del Purgatorio, e nei luoghi del Paradiso ove si afferma che i gradi della beatitudine celeste corrispondono ai doni della grazia, proporzionati al «fondamento che natura pone», «secondo il color de’ capelli» di ciascuno. E tanto peggio per chi è calvo.
Questo, sì, è il senso letterale del poema ed è il solo che veramente ci commuova sino a farci trasalire. Ed è proprio questo che sta sullo stomaco al teologo, che «sub lectoris officio» s'è proposto di svalutarlo, riducendolo a semplice finzione poetica, quando di lì a poco, adattando il terzo punto dell’accessus, cioè la forma tractandi, dirà che «forma sive modus tractandi est poeticus, fictivus, ... transumptivus».
In questi tre aggettivi egli scopre il suo innocentissimo giuoco. Fin dal suo primo apparire parrebbe che il canto della sirena dantesca avesse adescato molti che l’ascoltavano rapiti, e, per essere il poema scritto in volgare, la lettura di esso, come dirà S. Antonino, vescovo di Firenze, era «a vulgaribus frequentata ... et idiotis, propter dulcedinem rytmorum et verborum elegantiam», i quali, non sapendo distinguere «inter fictionem et veritatem», finivano per credere a tutto quel ch’ei diceva, anche contro l’insegnamento della Chiesa. Quella del vescovo fiorentino è una testimonianza, piuttosto tarda, delle apprensioni che altri domenicani come lui avevano avuto sull’ortodossia del pensiero di Dante, non tanto per la Monarchia impugnata da frate Guido Vernani, quanto per la Commedia, la cui lettura il Vernani dichiarava perniciosa alla salvezza dell’anima anche pei dotti, e che il capitolo dei domenicani tenuto a Firenze nel 1335 aveva interdetto ai frati giovani ed anziani. Sì che è proprio vero, come si lagnava il figlio di Dante, Pietro, che la «nomea» del «Mastro della fede», qual egli riteneva suo padre, fosse stata «condannata in concestoro». La proibizione fiorentina è del 1335; ma per arrivare ad essa, bisogna ben supporre che vivaci discussioni sull’ortodossia del poema ci fossero state assai prima. Il fatto stesso che il primo dannato che Dante incontra sul cammino fosse un santo solennemente canonizzato (e nessuno in quel momento pensava ad altri che a Celestino) metteva l’ortodossia di Dante in serio pericolo. Che dire poi delle fiere invettive e dei giudizi intorno a Bonifacio VIII e a Clemente V: E dell’atteggiamento da profeta assunto dall’autore della Commedia?

Ora a tutto questo si trovava una risposta quasi plausibile con la distinzione tra finzione poetica e realtà teologica. Questa distinzione tra quello che «l’auctore poetiza e finge» e il preteso «soggetto» o «materia» del poema che sarebbe lo «stato de l'anime partite da li mortali corpi» nelle loro tre condizioni, insomma tra «la corteccia delle parole», come appunto vuole l’Ottimo;” e un «più alto intendimento» che sotto quella «corteccia» si nasconderebbe, bastava a rimuovere ogni sospetto dalle parole dell’autore, per quanto queste «sieno al tutto alla fede contrarie e alla Santa Scrittura» (è l’Ottimo che non esita ad ammetterlo esplicitamente), di guisa che, rimosso il grave scoglio delle «parole», cioè del senso letterale, l'autore della Commedia apparisse un «sì alto dottore e tanto cattolico», come appunto finì per apparire all’Ottimo, che più di ogni altro commentatore del Trecento ha subito l'influenza della seconda parte dell’Epistola a Cangrande. A tal prezzo, cioè svalutando il senso letterale della Commedia, l’autore di questa coda appiccicata ad un’epistola sicuramente dantesca ha creduto di salvare il poema (e non ce n'era proprio bisogno) dal sospetto di eresia.
Intorno all’«agens totius [operis] et partis», l’autore di questa coda se la sbriga in due parole, dicendo che «est ille qui dictus est et totaliter videtur esse». Dal che appare evidente che «agens operis» sta a significare l’autore dell’opera, cioè la «causa efficiens» dello schema tradizionale di accessus. Su ciò non è consentito il menomo dubbio, per chi conosca lo schema boeziano di accessus ad auctores fissato nella costante tradizione che ho ampiamente documentato, e ricalcato anche dall’autore della coda all’Epistola a Cangrande. Che il termine agens, equivalente all’espressione causa agens, sia sinonimo di efficiens e dell’espressione causa efficiens, è provato, non che da altro, dal fatto che nella traduzione latina della Sufficientia di Avicenna, nella quale è esposta la Fisica aristotelica, le cause del divenire naturale, ossia del passaggio dalla potenza all'atto, «sunt he quatuor et non plures… Dicemus igitur quod cause essentiales rerum naturalium sunt quatuor: efficiens, ‘materia, forma et finis»; invece nella traduzione latina della Metaphysica dello stesso Avicenna, e proprio con esplicito riferimento alla Sufficientia, l’efficiens è sostituito da agens: «Cause autem, sicut iam nosti, sunt forma et materia et agens et finis». Le traduzioni latine di Averroè di regola preferiscono agens a efficiens, ma non rifuggono dal ciceroniano efficiens, quando debbon rendere il ‘participio greco ποιοΰν o l'aggettivo verbale ποιητϰός. S. Tommaso usa promiscuamente questi termini ed espressioni come sinonimi.
Invece il nostro amico Francesco Mazzoni, facendo sua un’osservazione di G. B. Giuliani, pretende d’avere scoperto in questo luogo dell’Epistola una reale distinzione tra causa efficiens e agens, e impianta una disquisizioncella a vuoto, senza costrutto e soprattutto fuori proposito. Prima di tutto a vuoto: perché, se è vero che col verbo agere si suole esprimere spesso l’azione intransitiva, cioè il modo di comportarsi di un soggetto, e che esso corrisponde perciò al verbo greco πράττειν, è altrettanto vero e altrettanto frequente il caso del verbo latino agere usato in senso transitivo a significare l’azione che la causa agente o efficiente esercita su un soggetto paziente che l’azione patisce o subisce e n'è cangiato, alterato o trasformato. Per convincersene l’amico Mazzoni non ha che da consultare l'indice nel quinto volume dell'edizione greca ormai classica delle opere d’Aristotele a cura del Bekker, alla voce ποιεϊν, e fare i debiti raffronti con le traduzioni latine in uso nei primi tre decenni del secolo XIV, prendendo a guida magari la vecchia Tabula dello Zimara, ancora assai utile. E se questo mio suggerimento gli paresse troppo generico, gli consiglio in particolare d’aver la pazienza di leggere, nel primo libro del De generatione et corruptione, i capitoli 7-8, corrispondenti ai testi del commento averroistico 46-81. Son certo che l’uso promiscuo di agens ed efficiens come sinonimi gli apparirà pienamente chiarito.
Ma egli è stato fuorviato dalla suggestione del «Dante personaggio», e non ha badato che qui si tratta dell’agens operis, cioè dell'autore dell’opera, che è la Commedia, come voleva lo schema d’accessus ad auctores seguito dal nostro caudatario. Certo Dante, oltre che autore del poema, è anche «personaggio», anzi, per essere più precisi, protagonista, poiché ha la prima parte da principio alla fine. Ma, in quanto personaggio, anzi in quanto protagonista del «fatale andare» pei tre regni d’oltretomba, non è da considerare come «causa agente» od «efficiente» del libro che s'intitola Commedia, poiché in quanto «personaggio» inteso alla maniera del Giuliani e del Mazzoni, esso ricade sotto il primo punto dell’accessus, cioè il subiecttum, ossia la materia, o più semplicemente l'argomento, come si dice oggi. E per questo appunto dicevo che la disquisizioncella è fuori proposita; poiché il proposito del caudatario, che ha già parlato del su ubicate della forma del libro, è ora di parlare dell’autore dell’opera stessa che narra il viaggio e la vi sione di Dante, ossia, come dicevo, dell’«agens operis».
E intanto il Mazzoni, mentre si abbandona a questa inutile divagazioncella, si distrae e si lascia sfuggire una significativa punta polemica che poteva aprirgli gli occhi: Dante non soltanto è «agens totius [operis] et partis», ma «totaliter videtur esse». Se Dante è «agens totius [operis] et partis», che cosa può voler dire quel «totaliter»» Per rispondere a questa domanda bisogna ricordare alcuni degli accessus che ho riferiti di sopra. Chi è l’autore, ossia la causa efficiente, del Liber decretalium» — si chiede l'Ostiense. Certo, Gregorio IX che ha ordinato la raccolta; ma l’opera non fu composta dal papa, bensì da Raimondo penitenziere. E la «causa efficiens» del diritto romano? - si chiede Cino da Pistoia. E risponde: «Ipse Deus, cuius Romanus populus in hoc suum organum». Sicché Dio è causa efficiente principale; il popolo romano, i vari imperatori e i giuristi che concorsero alla formazione del Corpus iuris civilis son cause strumentali. Qual è la causa efficiente del Liber Sententiarum? — si domanda Egidio Romano. «Causa efficiens principalis» (ma poco dopo usa il termine agens) è Dio per mezzo della rivelazione. Pietro Lombardo è soltanto la causa strumentale.
Orbene: coloro che, per l'intelligenza della Commedia, s'attenevano al senso letterale, erano portati a credere che Dante non avesse fatto altro che affidare alle pagine del suo poema la «Visione» che Dio stesso gli aveva concesso per grazia speciale, con espresso mandato di riferirla tra gli uomini e di farsi banditore del rinnovamento umano voluto da Dio, onde avesse a rinverdire la pianta edenica «due volte dispogliata». Vi pare che un teologo come il nostro caudatario potesse tollerare l’idea che il poema di Dante fosse divinamente ispirato e Dante ridotto a semplice causa strumentale» Egli perciò sostiene che della Commedia Dante è autore totale; il poeta parla cioè in nome proprio, e non per ispirazione venutagli dall’alto. Quella della visione profetica e della grazia speciale concessagli da Dio è una finzione poetica da non prender sul serio, e da perdonargli, visto che «pictoribus atque poetis» è data facoltà d’inventar «balle», purché lo facciano con «parole per musaico legame armonizzate»: insomma la Commedia sarebbe per lui una specie di Basvilliana medievale, forse un po' meno retorica di quella del Monti. Chi oserebbe accusare d’eresia Vincenzo Monti nel periodo in cui non aveva ancora tradotta La pucelle d'Orléans?
E veniamo alla quarta causa dell’accessus tradizionale applicato alla Commedia, ossia al «finis totius et partis». Veramente, dal punto di vista strettamente poetico, è un po’ strano domandare a un poeta a che altro scopo tenda col suo canto che non sia quello di cantare. E già nella Vita Nuova a chi gli aveva chiesto: «A che fine ami tu questa tua donna, poi che tu non puoi sostenere la sua presenza?», - Dante aveva risposto: — «Lo fine del mio amore fue già lo saluto di questa donna, ... e in quello dimorava la beati- tudine, ché era fine di tutti li miei desiderii. Ma poi che le piacque di negarlo a me, ...tutta la mia beatitudine sta in quello che non mi puote venire meno», cioè «in quelle parole che lodano la donna mia», o, come dice nella canzone, «per isfogar la mente». Ma l’animo del poeta non è sempre mosso a cantare da così intimi e puri sentimenti; anche la passione politica, anche la passione religiosa può commuovere il suo animo, infiammare la fantasia e spingerla a dar forma di immagine al sentimento. Nasce così la poesia di contenuto politico, morale, filosofico (basti ricordare il De rerum natura) e religioso. Ed è anzi la poesia religiosa quella che ha dato, dai canti profetici della Bibbia alla Commedia dantesca e alla Pentecoste del Manzoni, il più ricco contributo di canti d’altissima ispirazione alla storia della poesia. Non è quindi meraviglia trovare tra gli accessus, per esempio, alle Epistole d’Ovidio, al De remedio amoris e ai Fasti dello stesso poeta, l’utilitas, cioè lo scopo che Ovidio s'è proposto con siffatti componimenti poetici.! E nemmeno farà meraviglia che anche il nostro caudatario si proponga, in omaggio allo schema tradizionale di accessus da lui seguito, di farci edotti del «Sinis totiuis [operis] et partis».
A dir vero, chi ha letto la Divina Commedia sa che, fin dal primo canto, è annunciata la venuta del veltro che ricaccerà la lupa all'Inferno, e che questo evento è atteso ancora nel canto xx del Purgatorio; sa dell'annuncio della venuta del messo di Dio che «anciderà la fuia con quel gigante che con lei delinque»; sa che, anche perduta la speranza in Arrigo, il poeta attende ancora, «prima che gennaio tutto si sverni», chi raddrizzerà le navi dell’umana famiglia, «sì che la classe correrà diretta» al suo duplice porto, quando « Vaticano e l’altre parti elette di Roma» ormai «libere fien de l'adultero»; sa che Beatrice, dopo aver mostrato al poeta la pianta edenica, «due volte dispogliata», gl’impone di scrivere ciò che ha visto «in pro del mondo che mal vive»; sa che il trisavolo Cacciaguida lo incita:

Tutta tua vision fa manifesta;
e lascia pur grattar dov’è la rogna;

e S. Pietro in persona:

E tu, figliuol, che per lo mortal pondo,
ancor giù tornerai, apri la bocca,
e non asconder quel ch'io non ascondo;

il lettore della Commedia che sa tutto questo, dicevo, deve contentarsi di apprendere, dal caudatario dell’Epistola a Cangrande, «quod finis totius [operis] et partis est removere viventes in hac vita de statu miserie et perducere ad statum felicitatis» nel senso generico che abbiamo appreso dal primo punto dell’accessus a proposito del subiectum del poema!
Meno male che lo stesso caudatario ci dà un’informazione preziosa a proposito del Libri titulus nell’esemplare che aveva innanzi: Incipit Comedia Dantis Alagherii, florentini natione, non moribus. Questa espressione: florentini natione, non moribus, è giunta dunque al nostro caudatario dall’esemplare che recava il titulus totius libri, e, a quanto parrebbe, anche il «titulus huius partis», cioè Incipit cantica tertia Comedie Dantis etc, que dicitur Paradisus. Buono a sapersi. Specialmente per l’amico Mazzoni, il quale nel commento del Lana ha adocchiato quell’espressione riferita a proposito dell'Inferno, XV, verso 69, «dai lor costumi fa che tu ti forbi». Il Lana però non dice di averla vista in litteris, come dirà invece più tardi Guido da Pisa, quando la coda era ormai stata... accodata all'autentica Epistola a Cangrande («accodata» è un'espressione che ho preso dal Mancini e dal Mazzoni, e me la sono appropriata perché mi stuzzicava).
E siccome chi entra in ballo gli convien ballare anche se non c'è avvezzo, il nostro caudatario, attaccato il ballo del tradizionale accessus ad auctores, coll’intento di darci un commento a tutta la terza cantica «sub lectoris officio», e il lodevole proposito di mostrarci che Dante, bene interpretato, era perfettamente cattolico e «theologus nullius dogmatis expers», ora, per condurre a termine il giuoco, ha dovuto attaccare anche l’ultimo tempo del ballo, quello concernente «cui parti philosophiae liber supponatur», sul quale ho richiamato più volte l’attenzione. Ora egli, per concludere il valzer che lo trascina, ci vorrebbe persuadere che il «genus ... phylosophie sub quo hic in toto et parte proceditur, est morale negotium, sive Ethica»; proprio come si leggeva negli accessus ad opere giuridiche. E noi possiamo ben ammettere che «non ad speculandum, sed ad opus inventum est totum et pars». Anzi, sappiamo dalla fine del terzo trattato del Convivio e dal primo capitolo del quarto, che Dante, prima tutto preso dai problemi speculativi e metafisici, si era volto a problemi morali, e siamo convinti che alla soluzione di un problema morale è inteso il suo animo durante tutto il suo viaggio pei tre regni d’oltretomba; ma il suo è problema morale in quanto altamente religioso. Che cosa c'è dunque che stona nell’affermazione del caudatario» Questo: «genus phylosophie sub quo hic in toto et parte procedi tur, est... Ethica». Il caudatario ha in mente il sesto punto dello schema tradizionale di accessus: «cui parti philosophiae liber supponitur». E questo è grave segno d’incomprensione O, se preferite, d’imperdonabile distrazione.
Sì, Dante teneva in grande considerazione l’Etica Nicimaten tanto da giudicare Aristotele come quello che massimamente ridusse «a perfezione la filosofia morale» (Conv., IV, vi, 15), e dell’Etica Nicomachea, della sua Etica, tiene il maggior conto per trovare un criterio razionale all’ordinamento morale dell'Inferno, e dall’Etica trae il concetto morale del «contrappasso» e altri concetti già passati nella Prima Secundae e nella Secunda Secundae di S. Tommaso; ma tutto questo non autorizza a dire che la Commedia proceda «in toto et parte» sotto il «genus phylosophie» che è l’Etica; tanto più che lo stesso caudatario s'è adoprato a farci credere che il «subiectum» del poema, «prout ad litteram accipitur», è lo «status animarum post mortem,… nam de illo et circa illum totius operis versatur processus». Ora S. Tommaso ci assicura che «loquitur in hoc libro [Ethicorum] Philosophus de felicitate qualis in hac vita potest haberi. Nam felicitas alterius vitac omnem investigationem rationis excedit». Sì che alla domanda «cui parti philosophiae [Comedia] supponatur», oppure «sub quo genere philosophiae hic liber in toto et in parte procedat», la risposta non poteva essere dubbia: «Nulli parti philosophiae supponitur», «sub nullo genere philosophiae procedit», per la tomisticissima ragione che lo «status animarum post mortem» non è di competenza di nessuna parte e di nessun genere della filosofia, semplicemente perché «omnem investigationem rationis excedit». Chiaro? Ed è questa la ragione perché Egidio Romano, nel suo accessus al primo libro delle Sentenze, come abbiamo visto sopra, si guarda bene dal porsi il quesito «cui parti Philosophiae Theologia supponatur». Non era sì sciocco.
Assai imbarazzato è in proposito l'atteggiamento dell’anonimo commentatore che va sotto il nome dell’Ottimo. Questo ignoto tomista, poiché tale si rivela ad ogni pie’ sospinto, ha subìto più di tutti gli altri commentatori del Trecento l’influenza del caudatario dell'Epistola a Cangrande, per la parte evidentemente che anche l’amico Mazzoni ammette aver circolato per qualche tempo distaccata dalla vera e propria Epistole nuncupatoria al Signore di Verona e di Vicenza. L’Ottimo conosceva sicuramente questa parte dell’Epistola, ma non pare sospettasse mai che fosse di Dante. Ora nel codice Barberiniano latino 4103, al f. Ivab, si legge, a proposito del sesto punto dell’accessus: «Sottoponesi questa opera in parte a phylosophya morale, dove tracta de costumi delli huomeni. In parte a phylosophya naturale. In parte a metafisica. In parte a la sancta theologia». Il Croce quando caratterizza la trama del poema come «romanzo teologico» è più deciso. La parola «romanzo» non è ignota a Dante. Ma questi ne preferisce un'altra di sapore biblico: «quasi tutta cessa mia visione» (Par., XXX, 62). E ancora:

Tutta tua vision fa manifesta;
e lascia pur grattar dov’è la rogna.

E infine:

La chiesa militante alcun figliuolo
non ha con più speranza, com'è scritto
nel sol che raggia tutto nostro stuolo:

però li è conceduto che d'Egitto
vegna in Ierusalemme per vedere,
anzi che 'l militar li sia prescritto.

Ma per il caudatario dell’Epistola a Cangrande queste cose puzzan d’eresia. E però la biblica parola «visione» è intesa da lui in senso «poetico, fittivo, transuntivo». La faccenda dell’eresia era aggiustata, e nasceva un Dante che, per usare una nota espressione carducciana, può ben dirsi «paolotto».

Date: 2021-12-25