Le due specie di allegorie [Charles S. Singleton]

Dati bibliografici

Autore: Charles S. Singleton

Tratto da: Studi su Dante I. Introduzione alla Divina Commedia

Editore: Scalabrini, Napoli

Anno: 1961

Pagine: 137-154

Nel Convivio Dante riconosce due specie di allegoria: una «allegoria dei poeti» e una «allegoria dei teologi». E interpretando, in tale opera, le sue poesie, dichiara di voler seguire l'allegoria dei poeti, per la ragione che le poesie furono composte secondo tale modo di allegoria.
È bene ricordare che vi è sfortunatamente una lacuna nel testo del Convivio proprio a questo interessantissimo punto, col risultato che mancano le parole che definiscono il senso letterale, distinto dall'allegorico. Ma nessuno che conosca l'argomentare complessivo dell'intera opera vorrà, credo, muovere seria obiezione al modo come gli editori del testo critico generalmente accolto hanno riempito la lacuna. Il passo in questione da loro ricostituito, è il seguente:

Dico che, si come nel primo capitolo è narrato, questa sposizione conviene essere litterale e allegorica. E a ciò dare a intendere, si vuol sapere che le scritture si possono intendere e deonsi esponere massimamente per quattro sensi. L'uno si chiama litterale [e questo è quello che non si stende più oltre che la lettera de le parole fittizie, si come sono le favole de li poeti. L'altro si chiama allegorico,] e questo è quello che si nasconde sotto il manto di queste favole, ed è una veritate ascosa sotto bella menzogna: si come quando dice Ovidio che Orfeo facea con la cetera mansuete le fiere, e li arbori e le pietre a sé muovere; che vuol dire che lo savio uomo con lo strumento de la sua voce fa[r]ia mansuescere e umiliare li crudeli cuori, e fa[r]ia muovere a la sua volontade coloro che non hanno vita di scienza e d'arte: e coloro che non hanno vita ragionevole alcuna sono quasi come pietre. E perché questo nascondimento fosse trovato per li savi, nel penultimo trattato si mosterrà. Veramente li teologi questo senso prendono altrimenti che li poeti; ma però che mia intenzione è qui lo modo de li poeti seguitare, prendo lo senso allegorico secondo che per li poeti è usato.

Dante seguita qui a distinguere il consueto terzo e quarto senso, il morale e l'anagogico. Però, nell'illustrazione di questi, non è dato nessun esempio preso dai «poeti». Per entrambi i sensi, l'esempio per illustrarli è preso dalla Sacra Scrittura. È però evidente dalle parole conclusive del capitolo che nell'esposizione delle poesie del Convivio i sensi terzo e quarto avranno un interesse solo casuale, e che il poeta si occuperà principalmente dei primi due.
Era certo inevitabile che la concezione dell'allegoria che Dante qui chiama allegoria dei poeti finisse per venir identificata con l'allegoria della Divina Commedia. Questa, dopo tutto, è una formulazione della questione allegorica che Dante stesso ci offre. Essa distingue una allegoria dei poeti da un'allegoria dei teologi. Ora, i poeti creano e i teologi interpretano. E, se dobbiamo scegliere fra Dante teologo e Dante poeta, preferiamo, m'immagino, il poeta. Poiché la Divina Commedia, tutti convengono, è opera di poeta, è un poema. Perché mai, allora, la sua non dovrebbe essere l'allegoria quale la intesero i poeti: cioè quale dice Dante nel Convivio che la intesero i poeti? Indubbiamente, concludono molti, l'allegoria della Commedia è l'allegoria dei poeti, in cui il primo e letterale senso è una finzione e il secondo, o allegorico, è quello vero.
In verità, per alcuni dantisti tanto forte è stata la persuasione che tale concetto dell'allegoria della Divina Commedia sia l'esatto, da spingerli a porre in dubbio l'autenticità della famosa Epistola a Cangrande. Questo, con tutta logica, era destinato a verificarsi. Perché l'Epistola, nell'indicare l'allegoria della Commedia, parla a sua volta dei consueti quattro sensi. Ma l'esempio di allegoria che essa offre non è preso da Ovidio né invero dall'opera di alcun poeta. Consideriamo questo famoso e ben noto brano:

Ad evidentiam itaque dicendorurn sciendum est quod istius operis non est simplex sensus, ymo dici potest polisemos, hoc est plurium sensuum; nam primus sensus est qui habetur per litteram, alius est qui habetur per significata per litteram. Et primus dicitur litteralis, secundus vero allegoricus sive moralis sive anagogicus. Qui modus tractandi, ut melius pateat, potest considerari in hiis versibus: «In exitu Israel de Egipto, domus Iacob de populo barbaro, facta est Iudea sanctificatio eius, Israel potestas eius». Nam si ad litteram solam inspiciamus, significatur nobis exitus filiorum Israel de Egipto, tempore Moysis; si ad allegoriam, nobis significatur nostra redemptio facta per Christum; si ad moralem sensum, significatur nobis conversio anime de luctu et miseria peccati ad statum gratie: si ad anagogicum, significatur exitus anime sancte ab huius corruptionis servitute ad eterne glorie libertatem. Et quanquam isti sensus mistici variis appellentur nominibus, generaliter omnes dici possunt allegorici, cum sint a litterali sive historiali diversi. Nam allegoria dicitur ab «alleon» grece, quod in latinum dicitur «alienum», sive «diversum».

E l'Epistola continua subito dopo come segue:

Hiis visis, manifestum est quod duplex oportet esse subiectum, circa quod currant alterni sensus. Et ideo videndum est de subiecto huius operis, prout ad litteram accipitur; deinde de subiecto, prout allegorice sententiatur. Est ergo subiectum totius oneris, litteraliter tantum accepti, status animarum post mortem simpliciter sumptus; nam de illo et circa illum totius operis versatur processus. Si vero accipiatur opus allegorice, subiectum est homo prout merendo et demerendo per arbitrii libertatem iustitie premiandi et puniendi obnoxius est.

Ora questa, per tornare alla distinzione fatta nel Convivio, è, senz'ombra di dubbio, l'«allegoria dei teologi». È il loro tipo di allegoria non soltanto perché la Sacra Scrittura è citata per illustrarlo, ma perché, dato che è citata la Scrittura, il primo o letterale senso non può essere fittizio, ma deve essere vero, e, in tale esempio, storico. Gli effetti della musica di Orfeo sulle fiere e sulle pietre possono essere invenzione poetica, che enuncia sotto il velo della finzione una ascosa verità, ma l'Esodo non è invenzione poetica.
Tutti i medievalisti hanno familiare la classica definizione della «allegoria dei teologi» data da S. Tommaso verso il principio della Summa Theologica:

Auctor Sacrae Scripturae est Deus, in cuius potestate est ut non solum voces ad significandum accornmodet, quod etiam homo facere potest, sed etiam res ipsas. Et ideo cum in omnibus scientiis voces signifìcent, hoc habet proprium ista scientia, quod ipsae res significatae per voces, etiam significant aliquid. Illa ergo prima signifìcatio, qua voces significant res, pertinet ad primum sensum, qui est sensus historicus ve! litteralis. Illa vero significatio qua res significatae per voces, iterum res alias signifìcant, dicitur sensus spiritualis, qui super litteralem fundatur et eum supponit.

San Tommaso continua suddividendo il secondo o spirituale senso nei tre consueti: l'allegorico, il morale, l'anagogico. Ma nel suo primo dividere in due egli ha fatto la distinzione fondamentale, che S. Agostino espresse come un significato che è in verbis e un altro significato che è in facto. E nel leggere le sue parole, ci si può con certezza ricordare delle parole di Dante nella Epistola: «nam primus sensus est qui habetur per litteram, alius est qui habetur per significata per litteram».
Una allegoria di poeti e una allegoria di teologi: l'Epistola a Cangrande non fa la distinzione. L'Epistola parla di come un poema vada compreso. E nello scegliere il suo esempio dall'allegoria della Sacra Scrittura, l'Epistola evidentemente guarda al tipo di allegoria che è l'allegoria dei teologi; e così allude ad un poema nel quale il senso primo e letterale deve esser considerato come il senso primo e letterale della Sacra Scrittura, cioè come un senso storico. Il ben noto distico sui quattro sensi cominciava, ricordiamo, «Littera gesta docet...».
Ma, prima di procedere oltre, domandiamoci se quest'argomento possa comportare altro che un interesse da antiquariato. Quando oggi leggiamo la Divina Commedia, importa davvero se il suo primo significato si considera storico oppure fittizio, dato che in ogni caso dobbiamo entrare in quella «willing suspension of disbelief», in quella voluta sospensione di sfiducia che si richiede a chi legga qualsiasi poesia o poema? In effetti, importa davvero molto, per il motivo che con questo poema non è questione di un solo significato, ma di due; e la natura del primo significato necessariamente determinerà la natura del secondo: dirà come dovremo cercare il secondo. Nel caso di un primo significato fittizio, come nella «allegoria dei poeti», l'interpretazione parlerà invariabilmente in termini di un senso esterno e di uno interno, di un secondo senso che è reso, ma che è, in qualche modo, volutamente celato sotto la «scorza», o la «corteccia», o il «velame» di un senso fittizio esteriore. Questa allegoria dei poeti, quale Dante la presenta nel Convivio, è essenzialmente un’allegoria di «questo in luogo di quello», di «questa rappresentazione al fine di dare (e anche di nascondere) quel significato». Orfeo e gli effetti della sua musica dànno questo senso: un sapiente può domare cuori crudeli. Si noti che qui non abbiamo a che fare con l'allegoria quale è espressa in una personificazione, ma un'allegoria di azione, di avvenimento.
Ma il tipo di allegoria a cui l'esempio dalle Scritture dato nell'Epistola a Cangrande fa riferimento non è un'allegoria di «questo in funzione di quello», ma un'allegoria di «questo e quello», di questo senso più quel senso. Il versetto della Scrittura che dice «Quando Israele usci d'Egitto» ha il suo primo senso nel denotare un vero e proprio avvenimento storico; ed ha il suo secondo senso perché quell'avvenimento storico spesso, per aver avuto l'Autore che ebbe, può significare anche un altro avvenimento: la nostra Redenzione per mezzo di Cristo. Il suo primo senso è un senso in verbis; l'altro suo senso è un senso in facto, nell'evento stesso. Le parole hanno un significato reale nel far riferimento ad un avvenimento reale; l'avvenimento, a sua volta, ha senso perché gli avvenimenti operati da Dio sono essi stessi come parole che danno un senso, un senso più alto e spirituale.
Ma vi era un ulteriore dato di fatto circa questo tipo di allegoria delle Scritture: in generale si riconosceva che mentre il primo senso letterale si trovava li sempre, in verbis, il senso secondo o spirituale non era sempre da trovarsi in tutte le cose e in tutti gli avvenimenti a cui le parole si riferivano. Alcuni avvenimenti esprimevano il secondo senso, altri no. Ed è questo fatto che meglio mostra che il senso storico letterale delle Scritture non era necessariamente un senso al servizio di un altro senso, non perciò una questione di «questo in funzione di quello». È questo che più importa nella interpretazione della Divina Commedia. Il punto cruciale della questione, allora, è questo: se interpretiamo l'allegoria della Divina Commedia come allegoria dei poeti (come Dante intese questo tipo di allegoria nel Convivio), ciò vuol dire che consideriamo il poema come una costruzione in cui ci si debba sempre aspettare che il senso letterale esprima un altro senso, dato che il letterale è solo una finzione intesa a esprimere un secondo senso. Sotto tal punto di vista il primo senso se non offre un altro, verace senso, non ha alcuna ragion d'essere. Invece, se interpretiamo l'allegoria della Divina Commedia come allegoria dei teologi, ci aspetteremo di trovare nel poema un primo senso letterale presentato come senso non fittizio, ma vero, poiché le parole che dànno quel senso. fanno riferimento ad avvenimenti che son visti come storicamente veri. Poi vedremo questi avvenimenti stessi riflettere un secondo senso poiché il loro autore, che è Dio, può servirsi degli avvenimenti come gli uomini delle parole. Ma, noi non richiederemo ad ogni momento che l'avvenimento significato dalle parole sia a sua volta come una parola, perché non accade così nella Sacra Scrittura.

Non si dovrebbe provar nessuna difficoltà a far la scelta. L'allegoria della Divina Commedia è tanto evidentemente l'«allegoria dei teologi» (come afferma l'Epistola a Cangrande con l'esempio riportato), che non possiamo se non restar perplessi dinanzi ai continui sforzi fatti per intenderla come la «allegoria dei poeti». E invero la perplessità dinanzi a tale sforzo si accresce per il fatto che ogni tentativo di considerare il primo significato del poema come finzione intesa a esprimere un senso verace ma nascosto si è risolto in una ben chiara dimostrazione di come si possa forzare un poema a significati che non può assolutamente avere in quanto poema.
Sembra necessario illuminare la questione brevemente con un solo e ovvio esempio. Tutti i lettori della Commedia, quale che sia il loro credo allegorico, devono riconoscere che Virgilio, per esempio, a considerarlo staticamente, isolato dall'azione del poema, aveva ed ha, come lo presenta il poema, una vera e propria esistenza storica. Egli fu uomo vivo («omo già fui») ed è ora un'anima dimorante nel Limbo. Visto solo così, egli non avrebbe proprio nessun altro senso, nessun secondo senso. E. perché Virgilio ha un suo ruolo nell'azione del poema che assume un secondo significato. Ed è a questo punto che comincia ad essere importante la concezione che si ha della natura del primo significato. Poiché se questo è l'allegoria dei poeti, allora ciò che Virgilio fa, come ciò che fa Orfeo, è una finzione immaginata per recare un senso ascoso, che essa deve recare sempre in sé, dato che solo esprimendo tale altro senso ciò che egli fa può essere giustificato. Invece, se questa azione è allegoria come l'intendono i teologi, allora essa deve aver sempre un senso letterale che sia storico e non fittizio; e quindi le azioni di Virgilio come parte dell'intera azione possono, a loro volta, essere come parole significanti altre parole; ma non devono far questo ad ogni momento, poiché, essendo storiche, quelle azioni esistono semplicemente per conto loro.
Ma possiamo esitare in tale scelta? Non è evidente che Virgilio non può sempre parlare e non parla o agisce sempre come Ragione, con iniziale maiuscola, e che voler fargli fare questo significa cercare di riscrivere il poema secondo una concezione dell'allegoria che il poema non reca affatto?
Se, allora, l'allegoria della Divina Commedia è l'allegoria dei teologi, se è un'allegoria di «questo e quello», se la sua allegoria può esser veduta in termini di un primo senso che è in verbis e un altro senso che è in facto, quale è il principale disegno della sua struttura allegorica?
Per definirlo nel modo più semplice e breve possibile, il viaggio di un uomo verso Dio attraverso tre regni del mondo al di là di questa vita è quanto viene reso col senso letterale. Esso allude all'evento. L'evento è quel viaggio verso Dio attraverso il mondo dell'aldilà, «Littera gesta docet». Le parole del poema hanno il loro primo senso nel fatto che significano quell'evento, appunto come il versetto dei Salmi ebbe il suo primo senso nel significare l'evento storico dell'Esodo.
E allora, proprio come l'evento dell'Esodo, essendo stato operato da Dio, può a sua volta esprimere un senso, cioè la nostra Redenzione per mezzo di Cristo, così, nell'evento di questo viaggio attraverso il mondo dell'aldilà (un evento che, come lo vede il poema, è anche operato da Dio) vediamo il riflesso di altri sensi. Questi, nel poema, sono i vari riflessi del viaggio dell'uomo verso il suo fine proprio, non nella vita dopo morte, ma qui in questa vita, come quel viaggio fu concepito possibile al tempo di Dante: e non solo al tempo di Dante. La principale allegoria della Divina Commedia è perciò un'allegoria di azione, di evento, di un evento dato per mezzo di parole, il quale a sua volta riflette (in facto) un altro evento. Entrambi sono viaggi verso Dio.

Che dire, allora, del Convivio? La sua «allegoria dei poeti» non contraddice questa «allegoria dei teologi» dell'opera posteriore? Si, se un poeta dovesse usar sempre la medesima specie di allegoria e non potesse tentarne una in un'opera e una in un'altra. Ma non ci troviamo difronte appunto a tale fatto? E non riconosceremo che in questo senso il Convivio contraddice non solo la Divina Commedia nella sua allegoria, ma anche la Vita nuova ove non c'è allegoria ? Il Convivio è l'opera in cui Dante tenta di usare la «allegoria dei poeti». E per ottenere tale tipo di allegoria e quel tipo di personaggio che potesse avervi una parte - per avere una donna gentile-Filosofia che era una allegoria dei poeti - egli fu portato a privare di ogni esistenza reale la «donna pietosa» della Vita nuova. E ciò facendo contraddisse la Vita nuova.
Il Convivio è un frammento. Non sappiamo perché Dante interruppe l'opera dopo averla appena avviata. Non lo sappiamo. Siamo, perciò, liberi di far delle ipotesi. Io mi avventuro a farne, e propongo questa: Dante abbandonò il Convivio perché s'accorse che, decidendo di costruire quest'opera secondo l'allegoria dei poeti, si era avventurato per una falsa strada; egli si rese conto che un poeta non può essere poeta di rettitudine, e nello stesso tempo servirsi di un'allegoria il cui primo senso sia una incorporea finzione. San Gregorio, nel Proemio alla sua Esposizione del Cantico dei Cantici, dice: «Allegoria enim animae longe a Deo positae quasi quamdam machinam facit ut per illam levetur ad Deum» , e l'Epistola a Cangrande dichiara che il fine di tutta la Commedia è di «removere viventes in hac vita de statu miseriae, et perducere ad statum felicitatis». Un poeta di rettitudine è un poeta impegnato a dirigere la volontà dell'uomo verso Dio. Ma una incorporea Donna-Filosofia non è una «machina» che sopporti il peso di innalzar l'uomo a Dio, perché in lei l'uomo non trova parte alcuna del proprio peso. La Filosofia non esisté mai, non esiste, non esisterà mai in carne ed ossa. Come è rappresentata nel Convivio, essa è allegoricamente la Sapientia, ma creata Sapientia, che è in analogia con l'increata Sapientia Che è il Verbo . Eppure, essa è verbosenza carne. E solo un verbo fattosi carne può innalzare l'uomo a Dio. Se l'allegoria di un poeta cristiano il quale è poeta di rettitudine è destinata a sorreggere un peso, dev'essere fondata nella carne, il che significa fondata nella storia: e così potrà «elevare». In breve, nei riguardi della Donna Gentile-Filosofia il limite era quello stesso che Sant'Agostino trovava nei riguardi dei Platonici: «Ma che il Verbo si fece carne e dimorò fra noi io non lessi colà». Dante, dunque, abbandona la Donna Gentile-Filosofia e ritorna a Beatrice. Ma ora il cammino verso Dio dev'essere aperto a tutti gli uomini: egli costruisce un'allegoria, una machina, cioè, in cui un Virgilio storico, una Beatrice storica e un San Bernardo storico prendono il posto di quella Donna Gentile, in una azione che è data, nel suo primo senso, non come una bella finzione, ma come un avvenimento reale, storico, un evento ricordato da uno che ne era, come dice un verso del poema, lo scriba. Storico e, secondo un modello cristiano, bello come allegoria, perché recante in sé il riflesso della vera via verso Dio in questa vita: una vita data e sorretta dal Verbo fattosi carne. Con il suo primo significato dato come senso storico, l'allegoria della Divina Commedia è fondata sul mistero dell'Incarnazione.
Nel suo commento al poema scritto circa mezzo secolo dopo la morte del poeta, Benvenuto da Imola sembra che intenda l'allegoria della Divina Commedia come «allegoria dei teologi». Per render chiaro a qualche lettore dubbioso il concetto per il quale Beatrice ha un secondo significato, egli fa riferimento a Rachele nella Sacra Scrittura:

Nec videatur tibi indignum, lector, quod Beatrix mulier carnea accipiatur a Dante pro sacra theologia. Nonne Rachel secundum historicam veritatem fuit pulcra uxor Jacob summe amata ab eo, pro qua habenda custodivit oves per XIIII annos, et tamen anagogice figurat vitam contemplativam, quam Jacob mirabiliter amavit? Et si dicis: non credo quod Beatrix vel Rachel sumantur unquam spiritualiter, dicam quod contra negantes principia non est amplius disputandum. Si enim vis intelligere opus istius autoris, oportet concedere quod ipse loquatur catholice tamquam perfectus christianus, et qui semper et ubique conatur ostendere se christianum.

Edward Moore una volta fece cenno, in una nota a pie’ di pagina, a queste osservazioni fatte dall'antico commentatore e ne sorrise come di parole che gettano «una curiosa luce sui procedimenti logici della mente di Benvenuto». Ma le parole di Benvenuto hanno, credo, una loro maniera di sorridere a loro volta. E per rendere più evidente il loro sorriso ad un lettore moderno, le si potrebbero così trasporre:

Non ti paia inopportuno, o lettore, il fatto che questo viaggio di un uomo vivo attraverso il mondo dell'aldilà ti sia presentato nel suo primo senso come vero, letteralmente e storicamente. E se tu dici «Io non credo che Dante sia mai andato nell'altro mondo», allora dico che con coloro che negano ciò che un poema richiede, non c'è da disputar oltre.

Date: 2021-12-25