L’esperienza di sé come esperienza dell’allegoria (a proposito di Dante, Convivio II i 2) [Enrico Fenzi]

Table of contents

Dati bibliografici

Autore: Enrico Fenzi

Tratto da: Studi Danteschi

Numero: 67

Anno: 2002

Pagine: 161-200

Il passo del secondo trattato del Convivio nel quale Dante espone la teoria dei quattro sensi delle 'scritture' è tanto noto quanto discusso, sì che lo sfondo culturale sul quale si accampa e la sua interpretazione sono ormai in gran parte chiariti. In gran parte: non del tutto, ché forse non si verrà mai perfettamente a capo delle sue aporie anche lievi, delle sue sfasature, delle sue ambiguità. In ogni caso, non è questo il mio primo scopo. Vorrei tentare, invece, un approccio laterale, che mira non tanto a ricostruire il sistema tornando a incastrarne ancora una volta i singoli pezzi, ma piuttosto a considerarlo nel suo insieme quale risultato di una personale esperienza di scrittura. Tuttavia, qualche puntuale chiosa al testo è necessaria, non foss'altro che per dire 'com'io l'intendo': con la massima semplicità e con il minimo indispensabile di riferimenti bibliografici.

1. Sezione 1

In Conv. II i 3, proprio all'inizio del passo dedicato alla definizione dei quattro sensi, il testo dell'archetipo presenta un evidente salto, sì che occorre supporre una lacuna tra quello che e si nasconde: «L'uno si chiama litterale, e questo è quello che I ... I si nasconde sotto 'l manto di queste favole», ecc. Come si vede, manca la definizione del senso letterale, e si prosegue invece con quella del senso allegorico. Onde la necessità di integrare almeno con: «si nasconde sotto 'l manto», ecc., pur con la consapevolezza che si tratta di una mera stampella che aiuta a saltare il fosso, senza presumere di restituire davvero una parte del testo originale. E questa infatti è la corretta soluzione adottata da Franca Ageno, nell'edizione critica del 1995. In precedenza, invece, si sono tentati rappezzamenti vari che includessero la definizione del senso letterale. Lasciando da parte qualche tentativo più fantasioso, ecco la soluzione di Parodi e Pellegrini, nell'edizione del 1921, impostasi sino a pochi anni fa come la più autorevole, sostanzialmente riprodotta nella Busnelli-Vandelli (1934-1937: II ed., con appendice di A. E. Quaglio, 1964) e in quella di Vasali, per le Opere minori ricciardiane (1988): «L'uno si chiama litterale, [e questo è quello che non si stende più oltre che la lettera de le parole fittizie, sì come sono le favole de li poeti. L'altro si chiama allegorico,] e questo è quello che si nasconde», ecc. Come si vede, gli studiosi hanno qui inserito una definizione del senso letterale strettamente confinata al senso fittizio delle favole o invenzioni poetiche, adeguandosi a quanto il contesto sembra imporre. Il punto resta tuttavia assai delicato e per qualche aspetto discutibile: tra l'altro, ne è coinvolto non solo il rapporto tra questo senso letterale e l'allegorico, ma lo statuto medesimo dell'allegorico. Occorre dunque, prima di confermare l'intestazione o di proporre qualcosa di diverso, fissare una serie di punti fondamentali per la comprensione dell'intero passo dantesco.

2. Sezione 2

La tradizione alla quale Dante si rifà per il suo modello dei 'quattro sensi' è quella dell'esegesi biblica. Ai nostri fini, è qui sufficiente illustrarlo con le parole dell'Epistola a Cangrande, 20-22, pp. 8-10 Cecchini, siano o no di Dante stesso (personalmente non lo credo: ma non intendo in alcun modo entrare qui nella questione):

primus sensus est qui habetur per litteram, alius est qui habetur per significata per litteram. Et primus dicitur litteralis, secundus vero allegoricus sive moralis sive anagogicus... Et quomodo isti sensus mistici variis appellantur nominibus, generaliter omnes dici possunt allezorici cum sint a litterali sive historiali diversi.

Questa definizione, che fa passare il discrimine più importante tra il senso proprio, letterale, e l'insieme dei sensi 'mistici' che possono dedursi dal letterale, non fa che ripetere (anche nel modo in cui è interpretato l'esempio, da Ps. 113, 1-2) quella di san Tommaso, Summa I, Quaest. l, art. 10, resp., il quale però, invece che di 'mistici', parla di sensi 'spirituali':

llla ergo prima significatio, qua voces significant res, pertinet ad primum sensum, qui est sensum historicus vel litteralis. Illa vero significatio qua res significatae per voces, iterum res alias significant, dicitur sensus spiritualis; qui super litteralem fundatur, et eum supponit. Hic autem sensus spiritualis trifariam dividitur... Secundum ergo quod ea quae sunt veteris legis significant ea quae sunt novae legis, est sensus allegoricus; secundum vero quod ea quae in Christo sunt facta, vel in bis quae Christum significant, sunt signa eorum quae nos agere debemus, est sensus moralis; prout vero significant ea quae sunt in aeterna gloria, est sensus anagogicus.

A ciò è ancora importante aggiungere che il senso letterale, trattandosi della Scrittura, è appunto storico, e cioè 'significa' cose vere, essendo inammissibile pensare il contrario, salvo pochi casi che hanno posto alcuni problemi particolari agli esegeti, il più notevole dei quali è quello rappresentato dal Cantico dei Cantici.
Consideriamo ora il passo del Convivio. Apparentemente tutto torna, ché i sensi sono quattro, e sono quelli previsti da una tradizione ormai lunga: letterale, allegorico, tropologico o morale, anagogico. Basta poco, tuttavia, per accorgersi che solo gli ultimi due corrispondono allo schema biblico di base: corrispondono in tutto, voglio dire, sia dal lato del senso letterale storicamente vero sul quale si fondano, i cui esempi Dante estrae dalla Bibbia (Math. 17, 1-2, e Ps. 113, 1-2: lo stesso esempio che, unico, sarà impiegato per tutti i quattro sensi nell'Epistola a Cangrande, dunque), sia dal lato della loro definizione , I primi due, invece, il letterale (il letterale così come Dante l'intende di fatto, in relazione all'allegorico: sulla sua possibile definizione torneremo) e l'allegorico non solo non corrispondono allo schema tradizionale, ma sono tra loro implicati così strettamente da risultarne uno schema complessivo non più basato sull'uno più tre (il letterale, e i tre spirituali), ma sul due più due (letterale-allegorico da una parte, e morale-anagogico dall'altra). Infatti, il senso letterale non è quello storicamente vero che stava alla base dell'esegesi biblica, ma quello fittizio delle «belle menzogne» del linguaggio poetico, mentre il senso allegorico sarebbe costituito dal contenuto storicamente vero nascosto sotto il velo del senso letterale fittizio (con le parole di Dante, II I 4, tale senso è infatti quello che «si nasconde sotto 'l manto di queste favole, ed è una veritade ascosa sotto bella menzogna»).
La prima osservazione che occorre, è che in qualche modo Dante abbia mescolato due tradizioni diverse, rifacendosi per il senso letterale e l'allegorico all'esegesi profana basata sul concetto di integumentum, e per il morale e l'anagogico (che hanno esistenza assolutamente marginale, e possiamo d'ora in poi tralasciare, come quelli che non hanno alcun peso effettivo nel Convivio) all'esegesi biblica , Che sia così, è facilmente dimostrabile attraverso le sue stesse parole. In sede programmatica, dichiarando il modo di procedere che terrà nell'opera, Dante afferma che commenterà quattordici sue canzoni, mostrando «la vera sentenza di quelle, che per alcuno vedere non si può s'io non la conto, perché è nascosa sotto figura d'allegoria» (Conv. I II 17). Nel passo del secondo trattato che ci interessa più da vicino definisce (l'abbiamo appena visto) dapprima il senso allegorico come «quello che si nasconde sotto 'l manto di quelle favole, ed è una veritade ascosa sotto bella menzogna» (II I 4), e termina poi dicendo che «sopra ciascuna canzone ragionerò prima la litterale sentenza, e appresso di quella ragionerò la sua allegoria, cioè la nascosa veritade» (II i 15: nascosa veritade non sarà tanto esplicativo di allegoria, ma piuttosto oggetto di ragionerò). Terminata poi l'esposizione letterale di Voi che 'ntendendo, dichiara: «Poi che la litterale sentenza è sufficientemente dimostrata, è da procedere alla esposizione allegorica e vera» (II XII 1), e infine, nel quarto trattato, accingendosi a commentare Le dolci rime, avverte che non sarà necessario «nella esposizione di costei alcuna allegoria aprire, ma solamente la sentenza secondo la lettera ragionare» (IV I 11). Lasciamo per il momento altre occorrenze (II xv 10, III XI 2 e III xv 20, per allegoria; I I 18, II i 2, II i 12, III x 10, per allegorica esposizione I dimostrazione; II i 9, per allegorica sentenza; II I 5 e 9, per senso allegorico): sulla base delle citazioni fatte, mai contraddette dall'autore, si ricava in maniera univoca che l'allegoria è il manto che va aperto (e nel caso solo il poeta stesso può farlo) per giungere alla vera sentenza che quello nasconde. Non è insomma possibile dubitare del fatto che tale allegoria corrisponda perfettamente alla nozione di integumentum, così com'era stata elaborata nei secoli appena precedenti soprattutto dalla scuola di Chartres . Dante usa dunque n maniera certamente anomala e generatrice di ambiguità la parola allegoria, propria dell'esegesi biblica, entro la quale designava un 'senso' spirituale ricavato dalla piena storicità del racconto biblico. A quella stessa esegesi era invece estranea la nozione di integumenium, elaborata dall'esegesi profana in un'ottica affatto diversa (ci torneremo). Ecco infatti, per non fare che qualche esempio, come Bernardo Silvestre formalizza la distinzione (si noti l'esempio di Orfeo): «Est autem allegoria orario sub historica narratione verum et ab exteriori diversum involvens intellectum, ut de lucra lacob. Integumentum vero est oratio sub fabulosa narratione verum claudens intellectum, ut de Orpheo. Nam et ibi historia et hic fabula misterium habent occultum, quod alias discutiendum erit. Allegoria quidem divine pagine, integumentum vero philosophice competit», e come ripeta lo stesso concetto con chiarezza ancora maggiore una glossa anonima: «et ira pater quod allegoria respicit historiam et integumentum respicit fabulam. Allegoria est veritas sub specie historie palliata; integumentum est veritas sub specie fabule palliata».
Che l'allegoria di Dante, contravvenendo al principio appena enunciato, coincida con l'integumentum risulta bene, del resto, dall'applicazione concreta che egli ne fa. Come si sa, egli vuol dimostrare che le due canzoni Voi che 'ntendendo e Amor che nella mente sono state concepite sin dal principio come canzoni allegoriche, nelle quali, sotto figura di un innamoramento per una nuova bellissima donna si cela la realtà della sua profonda dedizione allo studio della Filosofia, della quale quella donna è appunto l'immagine . Ecco perciò che, nel famoso capitolo 12 del secondo trattato, accingendosi alla «esposizione allegorica e vera» di Voi che 'ntendendo, Dante spiega come, dopo la morte di Beatrice, egli, in cerca di consolazione, si fosse immerso nello studio, avesse letto Boezio e Cicerone, e conquistato dall'amore per il sapere avesse deciso di celebrare questa sua iniziazione filosofica nella canzone «mostrando la sua condizione sotto figura d' altre cose», cioè appunto descrivendosi come innamorato di una donna. Di ciò egli dà anche le ragioni, soggettive e oggettive: personale ritegno nel dedicare esplicitamente rime volgari alla Filosofia, e attenzione verso il pubblico avezzo a prestare ascolto a parole d'amore e in ogni caso pregiudizialmente convinto che appunto di amore per donna anche in quel caso si trattasse. Questa che Dante ora racconta è dunque la circostanziata verità storica e persino minuziosamente biografica che lo riguarda, nascosta sotto il manto allegorico della canzone. Tutto bene: non fosse che siamo messi dinanzi al fatto abbastanza curioso che tale verità, nel lessico e nella definizione che Dante ne dà qui nel Convivio, costituisce precisamente il senso allegorico. Chiaramente c'è qualcosa che non è perfettamente a fuoco: quanto meno, agisce uno spostamento semantico che attribuisce la qualifica di allegorico al significato vero della «bella menzogna», quando invece, in forza delle stesse reiterate dichiarazioni dantesche, allegorica è la forma sotto la quale quella verità si nasconde, e dunque le parole che la dicono, e dunque, propriamente, l'involucro o l’integumentum letterale. In altri termini, là dove Dante parla di senso allegorico sarà necessario intendere, più esattamente: 'senso espresso in forma allegorica', che non è proprio la stessa cosa.
Se le cose stanno così (e non vedo come possano essere diverse), è finalmente chiaro che la definizione dantesca dei primi due sensi, letterale e allegorico, è specularmente opposta a quella della tradizione esegetica biblica che pure parrebbe fare da sfondo, e dunque anche alla definizione che sarà nell'Epistola a Cangrande. In questa tradizione, infatti, ci si muove da un senso letterale storicamente vero verso alcuni sensi spirituali generalmente definiti come allegorici; qui nel Convivio ci si muove da un senso letterale fittizio, integumentum immaginosamente poetico e intrinsecamente allegorico, verso il vero storico, addirittura il vero personale e biografico di Dante. Il vero, insomma, che là è il punto di partenza, qui è il punto di arrivo.

3. Sezione 3

Quanto detto sin qui, forse troppo rapidamente, serve a mettere in luce altri elementi significativi. Abbiamo già accennato alla divisione che corre tra i primi due sensi e gli ultimi due, immediatamente ravvisabile nel fatto che il senso morale e l'anagogico siano derivati da esempi biblici e per ciò stesso storici, mentre il senso letterale e l'allegorico che ne deriva riposano sulle finzioni poetiche. Non è però l'unica cosa da osservare: quella divisione è infatti resa pressoché invalicabile proprio dal contenuto di verità del punto d1 arrivo, che in quanto tale chiude il percorso ermeneutico, e non ammette sviluppi ulteriori. Vediamo meglio. Dante stesso, nel passo in discussione del Convivio, spiega a lungo e minuziosamente qualcosa su cui tutti, da secoli, erano perfettamente d'accordo, e cioè che i sensi spirituali sono deducibili solo ed esclusivamente dal senso letterale (anche su ciò, tornerò fra poco): s'intende, un senso letterale nella pienezza dei suoi significati e, per dir così, dei suoi poteri. Ma il senso letterale fittizio, la bella menzogna delle invenzioni poetiche, non può reggere simili sviluppi, e ammette solo che si laceri l'integumentum e si recuperi, mediante l'intervento extra-testuale dell'esegeta, un contenuto di verità nascosto in un linguaggio non suo. Né è possibile fare altro, perché, in quanto linguaggio figurato, esso è già di per sé un linguaggio 'secondo' dal quale si può solo retrocedere al vero sottostante, oltre il quale, ovviamente, non si può andare. Anche se in chiave diversa, ciò si deduce bene anche da quanto scrive san Tommaso, nella Summa, I, Quest. 1, ad 1, là dove, con rinvio ad Agostino, Epist. XCIII 8 («Quis autem non impudentissime nitatur aliquid in allegoria positum pro se interpretari, nisi habeat et manifesta testimonia, quorum lumine illustrentur obscura?»), afferma che «omnes sensus fundentur super unum, scilicet litteralem, ex quo solo potest trahi argumentum, non autem ex his quae secundum allegoriam dicuntur», e più diffusamente in Quodl. VII 6, 1, ad 4: «dicendum quod non est propter defectum auctoritatis quod ex sensu spirituali non potest trahi efficax argumentum, sed ex ipsa natura similitudinis in qua fundatur spiritualis sensus», ecc. Concludendo sul punto, mi sembra dunque indiscutibile che nel Convivio, a differenza di quello che avviene nell'Epistola a Cangrande, non esiste affatto un percorso unico, per di più fondato su un unico esempio, che va dal senso letterale all'anagogico, ma ci vengono prospettati due diversi e persin contrapposti percorsi: il primo, in sé completo, che va dal letterale fittizio al vero in esso nascosto; il secondo, mancante della sua prima metà (il letterale storico e l'allegorico quale primo dei sensi mistici), ridotto a uno spezzone che mal si regge da solo, che va dal morale all'anagogico.
Dante conferma questa linea interpretativa. Dopo aver definito nel modo che abbiamo visto il senso allegorico, ed aver portato l'esempio di Orfeo, aggiunge: «Veramente li teologi questo senso prendono altrimenti che li poeti; ma però che mia intenzione è qui lo modo delli poeti seguitare, prendo lo senso allegorico secondo che per li poeti è usato» (Conv. II I 5). E proprio così, e basta a dimostrarlo quanto abbiamo detto circa un senso allegorico che qui diventa, da primo dei sensi mistici, una figura del linguaggio poetico e, più precisamente, si sovrappone alla nozione tutta profana di integumentum, L'avvertenza di Dante, insomma, suona assai opportuna e addirittura inevitabile, se solo si vanno a vedere le definizioni altrimenti correnti del senso allegorico, e mi pare che, tra tante cose discutibili, non lasci spazio a dubbi o tormentoni interpretativi. Per questo, non sono del tutto d'accordo con lo Scott, quando mostra come nell'esegesi biblica il senso allegorico fosse costantemente riferito alla dimensione della fede, così come compendia, tra molti, Onorio di Autun: «Allegoria, cum de Christo et Ecclesia res exponitur» , e ne deduce che proprio di qui risulterebbero evidenti le ragioni della distinzione che Dante sente di dover fare. O meglio, è anche così, certamente, ma la ragione vera sta prima, e questo sviluppo e particolarizzazione del discorso non mi pare veramente necessaria. Se qualcosa, invece, si volesse aggiungere, io preferirei cercare ragioni più legate sia all'andamento dell'argomentazione dantesca che a quanto detto sin qui. Torniamo, per questo, a san Tommaso, per il quale, com'è noto, solo della Scrittura si può dare un'interpretazione insieme letterale e spirituale, mentre i testi profani saranno suscettibili solo di un'interpretazione letterale, ove con ciò si intenda un'interpretazione che in nessun caso fuoriesce dal testo per consegnarlo a una verità extra-testuale che lo sovradetermini. Così, tutti i sensi ammessi dal testo non-sacro, propri e figurati, espressi attraverso tutti i possibili artifici retorici (i sensi che egli riassume nel termine di parabolici) sono sensi letterali, perché compiutamente realizzati in quel testo, quale esso sia, da un autore che li padroneggia come suoi: «fictiones poeticae non sunt ad aliud ordinatae nisi ad significandum, unde talis significatio non supergreditur modum litteralem» . Ecco: sulla base di queste parole mi sembra sostenibile che i danteschi teologi possano essere ben rappresentati da Tommaso, per il quale la spiegazione appena data degli straordinari poteri di Orfeo non sarebbe affatto di tipo allegorico, ma rientrerebbe piuttosto nel complesso dei significati che devono essere compresi nel letterale. Si osservi anche, e soprattutto, che la precisazione è tanto più necessaria, dal momento che Dante pensa all'interpretazioni delle sue due canzoni allegoriche, nelle quali l'innamoramento per la nuova donna sarebbe solo ed esclusivamente una finzione che significa la sua dedizione agli studi filosofici: cioè una finzione intenzionalmente e univocamente ordinata ad significandum quella tal cosa, sì da rientrare perfettamente in quel tipo di significatio che per Tommaso «non supergreditur modum litteralem» (e del resto, a togliere ogni dubbio, «sensus litteralis est, quem auctor intendit»: Summa I, Quaest. I, art. 10, resp.). Oltre a quanto emergeva di per sé circa le differenze che separavano le sue categorie esegetiche da quelle tradizionali dell'esegesi sacra, Dante, insomma, con quell'inciso: «Veramente li teologi...», correttamente avverte che quella che egli definisce come allegoria per il teologo Tommaso non lo era affatto né, aggiungiamo, lo sarebbe stata anche se la donna delle canzoni oppure Orfeo fossero state finzioni originariamente concepite per significare la Chiesa o Cristo , dal momento che, teologicamente parlando, l'allegoria è qualcosa di più e di diverso rispetto alla mera intenzione significante dell'autore.

4. Sezione 4

Proviamo ora a ripigliare la questione dalla quale siamo partiti: la definizione del senso letterale, caduta nell'archetipo del Convivio. Molte delle citazioni già fatte e che non è il caso di ripetere mostrano senza ombra di dubbio che Dante vuole che proprio così, come finzione poetica, sia inteso il linguaggio delle sue due canzoni Voi che 'ntendendo e Amor che nella mente, nelle quali si parla del suo amore per una donna che sin da principio sarebbe stata concepita come immagine della Filosofia. Ragioni personali fanno sì che la cosa gli prema assai:

Temo la infamia di tanta passione avere seguita, quanta concepe chi legge le sopra nominate canzoni in me avere segnoreggiata: la quale infamia si cessa, per lo presente di me parlare, interamente, lo quale mostra che non passione ma vertù sia stata la movente cagione. Intendo anche mostrare la vera sentenza di quelle, che per alcuno vedere non si può s'io non la conto, perché è nascosa sotto figura d'allegoria... (Conv. I ii 16-17)

Dico che pensai che da molti, di retro da me, forse sarei stato ripreso di levezza d'animo, udendo me essere dal primo amore mutato; per che, a tòrre via questa riprensione, nullo migliore argomento era che dire quale era quella donna che m'avea mutato... (Conv. III i 11)

Così, ecco che spiega, ivi 8 (l'abbiamo già visto) che la Filosofia di cui si era innamorato non poteva essere degnamente celebrata in quanto tale, direttamente, in volgare, e che gli eventuali ascoltatori non sarebbero stati sufficientemente disposti a cogliere il senso di parole non fittizie, né avrebbero prestato alla sentenza vera la stessa fede che invece erano pronti a prestare alla sentenza fittizia. E ancora, concludendo, insiste sullo stesso aggettivo: non occorre infatti ripetere l'ordine dell'esposizione letterale, ché «volta la parola fittizia di quello ch'ella suona in quello ch'ella 'ntende, per la passata esposizione questa sentenza fia sufficientemente palese» (ivi, 10: si veda Isidoro, Etym. I 3 7, 22: «Allegoria est alieniloquium. Alius enim sonat, et alius intellegitur»). Se si aggiunge che, subito dopo la lacuna, Dante scrive che il senso allegorico è quello che «si nasconde sotto 'I manto di queste favole, ed è una veritade ascosa sotto bella menzogna», non ci saranno più dubbi sul fatto che la perduta definizione del senso letterale contemplasse anche questa particolare nozione del linguaggio poetico, e più precisamente ricorresse a termini come parole fittizie, favole, menzogne (anche nel De v. E., II IV 2, del resto, la poesia «nihil aliud est quam fictio rethorica musicaque poita»).
Ma tutto ciò non comporta, io credo, che la definizione dantesca del senso letterale fosse necessariamente limitata al linguaggio fittizio delle favole e delle fantasie poetiche, e credo invece che quella immaginata dagli studiosi non ne sia che una specificazione particolare, richiesta dal caso presente. Non mi sembra infatti credibile che egli abbia caratterizzato in tal modo il senso letterale, quando in prima istanza, in tutta la tradizione, esso è invece il senso perfettamente autosufficiente della verità storica e fattuale. In altre parole, non vedo come in sede di definizione generale Dante avrebbe potuto semplicemente far coincidere il senso letterale fittizio delle sue due canzoni con il senso letterale tout court, assolutamente considerato. Ci sono vari elementi che mi convincono di ciò, a cominciare dal fatto appena messo in rilievo che proprio negli esempi di Dante i sensi morale e anagogico si reggono su un senso letterale assunto come storicamente vero. Qui, mi limiterò a recarne qualcuno in più rispetto a quelli già elencati da John A. Scott, con il quale concordo e al quale rimando per le linee di fondo della dimostrazione . Il primo per la verità ha due facce, e complica le cose più che risolverle. Nel trattato IV dell'opera Dante commenta la canzone dedicata al tema della nobiltà, Le dolci rime, e premette che l'esposizione sarà limitata al senso proprio e letterale, dal momento che altri sensi non ci sono (Conv. IV I 11: «Non sarà dunque mestiere nella esposizione di costei alcuna allegoria aprire, ma solamente la sentenza secondo la lettera ragionare»). Se ne dovrebbe dunque dedurre che la perduta definizione del senso letterale nel passo in questione avrebbe dovuto coprire sia il caso di Voi che 'ntendendo e Amor che nella mente, che il caso diverso de Le dolci rime. E qualcosa del genere, infatti, saremmo tentati di vedere là dove, in Conv. I I 14, Dante parla delle «quattordici canzoni sì d'amor come di vertù materiate» che sarebbero state commentate, ove l'allegoria sarebbe precisamente quella implicita nell'uso figurato del linguaggio amoroso, mentre le canzoni materiate di virtù sarebbero le non-allegoriche, e in particolare le cosiddette 'dottrinali', come appunto Le dolci rime e, almeno, Poscia ch'Amor. Di più, proprio qui, in questo primo trattato, I 17, c'è un preciso rimando a quanto si dirà poi, nel quarto, 24, 8, a proposito cli ciò che conviene alle varie età dell'uomo. Le cose tuttavia non sono così semplici. Per quanto paia che Dante abbia messo in conto sin da principio di dover commentare anche canzoni non allegoriche, resta che il trattato IV, verisimilmente composto dopo un certo intervallo rispetto ai primi tre , proprio sul punto li contraddice abbastanza clamorosamente, visto che là Dante aveva affermato di voler interpretare in chiave allegorica tutte le quattordici canzoni previste: «per allegorica esposizione quelle intendo mostrare» (vedi anche ivi II I 15: «sopra ciascuna canzone ragionerò prima la litterale sentenza, e appresso di quella ragionerò la sua allegoria»), sì che il caso della terza, Le dolci rime, contravviene proprio a questa esplicita dichiarazione d'intenti. Con tutto ciò, anche se questa aporia non sembra sanabile, non può essere messa in discussione la relativa autonomia definitoria del passo sui quattro sensi della scrittura, nel quale Dante combina le proprie personali esigenze con lo schema tradizionale. Ora (ecco il secondo elemento), la definizione del senso letterale manca, è vero, ma è singolare che l'esposizione dei quattro sensi, così come ci è giunta, occupi ventotto righe nell'edizione Ageno (Conv. I i 3-7), mentre ben trentatrè righe (Ivi, 8-14) sono poi occupate dalla minuziosa spiegazione delle ragioni (del tutto correnti nella tradizione culturale precedente e contemporanea a Dante, e che non sarà qui il caso di ripetere) per cui il senso letterale «dee andare innanzi, sì come quello nella cui sentenza li altri sono inchiusi, e sanza lo quale sarebbe impossibile ed inrazionale intendere alli altri, e massimamente allo allegorico», come quello che è fondamentale alla «edificazione di scienza», al modo stesso in cui lo sono le fondamenta nell'edificazione di una casa. Una prima elementare domanda: è possibile che una testa così piccola, com'è l'integrazione che riduce il senso letterale alle «parole fittizie, sì come sono le favole de li poeti», regga tutto il gran corpo di quel discorso sul suo primario e irrinunciabile valore conoscitivo? Io non lo credo, e ripeto piuttosto che mi sento propenso a credere, come già John A. Scott, che la definizione del senso letterale fosse originariamente più articolata, e che solo una parte di essa concedesse che il linguaggio delle finzioni poetiche spetta a un senso letterale di per sé insufficiente a rendere ragione piena del significato del testo, ove non sia illuminato dalla spiegazione «allegorica e vera» (solo per capirci, potrebbe bastare anche qualcosa come: 'il senso letterale è quello che non si stende più oltre che la lettera, anche quando essa sia costituita dalle parole fittizie delle favole dei poeti'). Anche la via che passi per le probabili auctoritates di Dante, conforta una simile opinione. In questa sede, non voglio gravare il testo di troppe citazioni, ma davvero non è difficile accumulare testimonianze su testimonianze circa il fatto che il senso letterale «gesta docet», come insegna il famoso distico di Agostino di Dacia («Littera gesta docet, quid credas allegoria, / moralis quid agas, quo tendas anagogia»), tant'è che esso è anche detto correntemente historicus, e «historiae sunt res verae», come scriveva Isidoro, Etym. I 44, 5 , E tornando al linguaggio dei poeti, già Lattanzio ammoniva che quelli capaci solo di inventare sono solo degli inetti o dei bugiardi, mentre Bernardo Silvestre, ricordando le raccomandazioni al verisimile che sono nell'Ars poetica di Orazio, enunciava la bella formula: «Vera ergo scriptorum pulcritudo est veritas» , mentre per lo stesso Dante non si può certo dire che Virgilio o Lucano (Lucano che è insieme poeta e 'storiografo', si ricordi, secondo la nota definizione di Arnolfo d'Orléans) avessero raccontato esclusivamente cose fittizie o menzogne... Ripeto, le citazioni possibili sono anche troppe. Piuttosto, varrà la pena di ricordare brevemente che proprio la Scolastica s'impegnò, attraverso il sistema dei quattro sensi, a difendere la piena storicità delle Sacre Scritture, e che sia Tommaso che Alberto Magno si mostrarono assai attenti ai valori letterali del testo, manifestando un certo fastidio per le spiegazioni di tipo allegorico (fastidio che per la verità già traspare, a tutto favore del senso morale, già in Gregorio Magno e poi in san Bernardo) . Né si può dimenticare il 'nuovo letteralismo' di Ugo e Riccardo di san Vittore , o la forte polemica (siamo nei primi anni del '300) di Niccolò di Lira in favore dell'importanza decisiva della interpretazione letterale, dato che tutte le altre «praesupponunt sensum litteralem tanquam fundamentum. Unde sicut aedificium declinans a fondamento disponitur ad ruinam, ita expositio mystica discrepans a sensu literali reputanda est indecens et inepta...», ecc. .
Insomma, nulla poteva autorizzare Dante a formulare una nozione così riduttiva del senso letterale come quella che per troppo tempo gli è stata attribuita, e una prova ex silentio la si può forse avere dallo scrupolo che egli mette nel puntualizzare le cose a proposito del senso allegorico. Quando scrive: «Veramente li teologi questo senso prendono altrimenti che li poeti; ma però che mia intenzione è qui lo modo delli poeti seguitare, prendo lo senso allegorico secondo che per li poeti è usato», egli fa questione solamente del senso allegorico, non del letterale, sì che è da presumere appunto che la definizione di quest'ultimo non dovesse discostarsi da quella corrente che gli attribuiva per prima cosa la custodia del vero storico.
Quanto appena detto può forse essere meglio inteso se si torna all'esempio di allegoria proposto da Dante, che riguarda Orfeo, rispetto al quale voglio solo dire, brevemente, che trovo assai convincente il discorso di Baranski, il quale da una parte allega un importante passo dell'Ars poetica di Orazio, 391-96, prossimo al testo dantesco, e dall'altro, riprendendo una tesi di Pézard e riargomentandola con ampiezza, ripropone a testo la lezione facea (Pézard facià) di alcuni manoscritti, sì da leggere: «che vuol dire che lo savio uomo collo strumento della sua voce facea [Ageno faccia; Parodi-Pellegrini faria] mansuescere ed umiliare li crudeli cuori, e facea [id.] muovere alla sua volontade coloro che non hanno vita di scienza e d'arte; e coloro che non hanno vita ragionevole alcuna sono quasi come pietre» ( Conv. II I 4) . Così, Orfeo non sarebbe più la controfigura di un generico savio uomo che in via del tutto potenziale riuscirebbe a esercitare una funzione civilizzatrice, ma sarebbe solo se stesso, personaggio storicamente reale e savio uomo che effettivamente tale funzione ha esercitato. Non posso qui entrare nel merito della questione (ma ora anche Gorni, sul piano rigorosamente testuale, ammette la possibilità di facea), e aggiungo invece una considerazione che finisce di convincermi della bontà di questa ipotesi. Come mi è sembrato importante, sopra, ancorare il discorso sull'allegoria dei poeti e quella dei teologi alle particolari esigenze di Dante esegeta delle sue canzoni, altrettanto mi pare si debba fare qui. Lasciando da parte il fatto che le vecchie lezioni e le vecchie interpretazioni comportano un salto tra la lettera e l'allegoria che fanno assomigliare quest'ultima piuttosto a una 'moralizzazione' situata fuori del tempo e priva di grande rilievo (Pépin), vorrei si riflettesse sul fatto che con la nuova proposta scopriamo una forte corrispondenza tra la figura di Dante e quella di Orfeo, la quale investe sia i modi del rapporto lettera/allegoria, sia i contenuti. Per quanto riguarda la lettera, da una parte c'è Dante, soggetto storico, che si innamora di una donna, e dall'altra Orfeo, soggetto storico, che con il suo canto ha mosso le pietre. Per quanto riguarda l'allegoria, cioè il contenuto di verità della lettera: Dante s'innamora della Filosofia, del sapere, e ne scopre l'irresistibile potere; Orfeo, uomo sapiente, ha usato la forza del suo sapere per educare, ed ha trasformato le creature umane da bruti a uomini ragionevoli... Orfeo, insomma, è colui che già ha fatto esattamente quanto Dante, nel Convivio, vuole fare, come egli non si stanca in ogni modo di ripetere (come non ricordare, allora, con Inf. XV 61-63, che si trattava di educare «quello ingrato popolo maligno» che «tiene ancor del monte e del macigno»?). Ancora: con la nuova interpretazione riusciamo a mettere a fuoco una importante particolarità nella nozione di allegoria praticata da Dante. Egli infatti colma il primo 'salto' di senso, quello che va dalla lettera all'allegoria, legando l'una all’altra attraverso la piena storicità del soggetto che agisce: storico è Orfeo sia nella favola che nella realtà, così come lo è Dante che s'innamora della donna-Filosofia e vuole educare i suoi concittadini, e che - riesce inevitabile aggiungere - compie il viaggio nell'oltretomba portando con sé il suo stato civile, come dice Nardi... Insomma, il titolare di questa allegoria nel pieno delle sue allegoriche funzioni tutto è, meno che allegorico. E l'esempio di Orfeo, 'figura' dell'autore del Convivio, è dunque importante proprio per il modo in cui racchiude il nucleo decisivo dell'invenzione dantesca di un soggetto storico che agisce allegoricamente, e di un'allegoria che attraverso di lui si storicizza...

5. Sezione 5

Mi fermo, ché il discorso s'allarga e s'approfondisce pericolosamente, e lasciando finalmente il passo del Convivio, pur così parzialmente considerato, m'accontento di fissare poche cose. La prima: Dante, con la sua iniziativa, sembra voler ridurre la distanza tra testo profano e testo sacro, nel momento in cui rivendica anche al primo un contenuto di verità, coperto dal velo della finzione poetica che è lecito definire 'allegorico' . Il risultato è però incoerente, perché non fa che riversare l'aspetto essenzialmente retorico-linguistico della nozione di integunentum entro lo schema tutt'affatto diverso, extra-linguistico e sostanziale, dei quattro sensi propri del testo sacro. In altre parole, sovrappone cose diverse, quali sono la 'allegoria in verbis' dei poeti e la 'allegoria in factis' dei teologi. Non si tratta certo di una questione nuova, ché siffatte sfasature e ambiguità hanno la loro radice nello stesso Agostino e connotano, per esempio, l'importante tentativo di sistemazione di Beda, ed è precisamente per uscire da un insolubile groviglio di problemi che Tommaso ha tagliato corto, persino con brutalità, escludendo che si possa parlare di sensi allegorici fuori dalle sacre scritture e consegnando tutto l'armamentario retorico del linguaggio poetico all'àmbito del senso letterale . Ma resta singolare che Dante sia consapevole di tutto ciò al punto da preoccuparsi di avvertire il lettore («Veramente li teologi...», ecc.), e però insista in un tentativo che lo fa entrare in contraddizione con se stesso, quando, all'interno del nostro passo, esalta il valore assoluto di fondamento che il senso letterale ha, dopo averlo preso in considerazione solo come menzogna dei poeti. La seconda cosa: in maniera del tutto anomala e per qualche aspetto persino paradossale rispetto alla tradizione, Dante afferma la propria verità ermeneutica non già su testi altrui e lontani nel tempo, come recupero attualizzante di un antico sapere, ma su testi propri, rispetto ai quali egli si pone sia nelle vesti dell'autore che in quelle dell'interprete privilegiato, e perciò in grado di coprire tutto lo spazio occupato sia dal senso letterale che da quello allegorico, e di innescare tra le due diverse figure che lo costituiscono un gioco di specchi tendenzialmente infinito. Così facendo, egli trasforma nel profondo l'ermeneutica profana, e segnatamente poetica, sin lì basata sul concetto di integumentum, della quale, in questa sede, non è davvero il caso di parlare, se non per ricordare che la lettura per integumenta era servita per traghettare, per dir così, all'interno della verità cristiana la sapienza antica, che si presentava avvolta nelle favole poetiche e nelle immaginose strutture del mito. Tale lettura comportava dunque, e non poteva non farlo, una certa dose di libertà e addirittura di arbitrio interpretativo (esemplare è il caso di Abelardo nei confronti di Platone, Virgilio e Macrobio), e, ora più ora meno, finiva per trasformare i grandi autori antichi in altrettanti 'profeti inconsapevoli', secondo la riassuntiva, straordinaria immagine di Dante, quando fa sì che Stazio dica a Virgilio: «Facesti come quei che va di notte, / che porta il lume dietro e sé non giova, / ma dopo sé fa le persone dotte» (Purg. XXII 67-69). Ma se questo, pur così grossolanamente riassunto, è l'asse lungo il quale si dispone una secolare pratica interpretativa (che in Petrarca già avrà esaurita la sua funzione), risulta abbastanza chiaro che quest'ultima è non solo autorizzata ma propriamente resa necessaria dalla lontananza culturale e temporale che divide l'autore dall'interprete, il quale muove dalla forte convinzione che in qualche modo, magari attraverso l'intervento dello Spirito Santo (ma nel caso di Platone, Ambrogio ammetteva che egli avesse potuto conoscere parte dell'Antico Testamento durante un suo viaggio in Egitto), alcuni autori pagani, affrontando il tema dell'immortalità dell'anima e dell'esistenza di Dio, avessero avuto una qualche premonizione o conoscenza intuitiva della verità rivelata, e che era dunque del tutto lecito ricercare ed estrarre questo barlume di verità oltre la superficie della loro opera. Ma risulta anche chiaro che le cose sono affatto diverse per Dante, presente e, per dir così, contemporaneo a se stesso, autore delle opere che si propone di interpretare e 'padrone' in modo perfettamente cosciente del loro significato. Altre sono dunque le ragioni della sua iniziativa, e diverso l'asse fondamentale di riferimento. Quali le ragioni, e quale questo asse? Ed ha tutto ciò un qualche rapporto con quell'incongrua mescolanza delle due 'allegorie' che continua a crearci dei problemi ogni volta che rileggiamo quel passo? Proverò a rispondere, ripigliando il discorso da un po' più lontano.

6. Sezione 6

In un importante passo del primo libro del Convivio, XVIII 3, Dante scrive che l'uomo ha due perfezioni, delle quali «la prima lo fa essere, la seconda lo fa essere buono»: in altre parole, la prima è la perfezione per la quale l'individuo passa dal non essere all’essere e sussiste in ciò che è (la generazione sustanziale di Conv. II XIII 5), mentre la seconda è la perfezione che costituisce il fine precipuo dell'uomo in quanto essere dotato di ragione, della quale «le scienze sono cagione in noi; per l'abito delle quali po terno la veritade speculare, che è ultima perfezione nostra, sì come dice lo Filosofo nel sesto dell'Etica, quando dice che 'l vero è lo bene dello 'ntelletto» (ivi, xviii 6, e vedi I XIII 5: «...nella via di scienza, che è ultima perfezione nostra»), ed è dunque, propriamente, «perfezione de la ragione», realizzazione piena dell'uomo in quanto tale, e condizione e garanzia della sua felicità:

in questo sguardo [della Sapienza] solamente l'umana perfezione s'acquista, cioè la perfezione della ragione, dalla quale, sì come da principalissima parte, tutta la nostra essenzia depende; e tutte l'altre nostre operazioni - sentire, nutrire, e tutte - sono per questa sola, e questa è per sé, e non per altre, sì che, perfetta sia questa, perfetta è quella, tanto cioè che l'uomo, in quanto elio è uomo, vede terminato ogni suo desiderio, e così è beato. (Ivi, III xv 4)

Non mi fermerò sulla pervasività e proliferazione del motivo nel Convivio e, per la verità, in tutto Dante (occorre citare Inf. XXVI 119-20: «fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza»?), né sui suoi fondamenti filosofici (Aristotele, Avicenna, Averroè, Alberto Magno, Tommaso) o i suoi vicini precedenti letterari (per esempio, in quel grande e greve moralista di Guittone). Piuttosto, vorrei appuntarmi sulle ultime parole citate, circa l'uomo che nella sapienza «vede terminato ogni suo desiderio, e così è beato», tornando insieme all'inizio stesso del Convivio:

Sì come dice lo Filosofo nel principio della Prima Filosofia, tutti gli uomini naturalmente desiderano di sapere. La ragione di che puote essere ed è che ciascuna cosa, da providenza di prima natura impinta, è inclinabile alla sua propria perfezione; onde, acciò che la scienza è ultima perfezione della nostra anima, nella quale sta la nostra ultima felicitade, tutti naturalmente al suo desiderio semo subietti.

Il sillogismo, insomma, è quello che ha funzionato per secoli e secoli: se è vero che la felicità di qualsiasi creatura è riposta nella realizzazione la più perfetta possibile della sua propria natura, e se è vero che ciò che essenzialmente caratterizza la natura dell'uomo consiste nel suo essere dotato di ragione, ne deriva che la felicità propria della creatura umana sta appunto nel suo realizzarsi quale creatura ragionevole, e cioè nel massimo sviluppo delle sue qualità e capacità intellettuali. L'argomento, sviluppato in particolare da Aristotele nell'Etica nicomachea, X 7, nell'antichità non è mai stato messo veramente in discussione, ed è rimasto saldamente alla base del tratto spiccatamente eudemonistico dell'etica classica: l'uomo davvero felice sarà sempre e solo il sapiente, mentre il male e l'infelicità deriveranno sempre, in ultima analisi, da un uso insufficiente o difettoso della ragione. Si sa bene come queste posizioni, mediate dai commenti aristotelici di Averroè e almeno in parte fondate sulle personali posizioni di Alberto Magno, abbiano assunto un'inflessione particolare nel secolo XIII, quando il perfetto ideale umano, l'ultima perfectio hominis, viene ravvisato direttamente nel filosofo, mentre, se si scende lungo la scala del sapere, si arriva sino a coloro che sono tanto ignoranti da essere chiamati 'uomini' solo per convenzione linguistica, equivoce, non essendo essi, in verità, diversi dagli animali e restando dunque esclusi dal mondo delle scelte morali. In tutto questo, si delinea una concezione che pone la felicità, per quanto eccezionalmente ciò possa accadere, alla portata dell'uomo, e che ne fa lo scopo autonomo e autosufficiente della vita, culminando in una mistica dell'intelletto naturalmente raggiungibile, naturaliter adepta, che finisce per opporre un autentico contro-modello alla teoria cristiana delle virtù: onde la reazione della Chiesa, e la famosa condanna delle proposizioni relative da parte del collegio di teologi guidati da Stefano Tempier, nel 1277 . Che tutto ciò sia arrivato a sfiorare Dante, influenzato dall'aristotelismo radicale del secolo precedente, è, come è noto, una tesi sostenuta con forza da Maria Corti, che si fonda soprattutto sui primi tre libri del Convivio, mentre già nel quarto egli avrebbe moderato e corretto in senso cristiano il suo entusiasmo per quella «eccellentissima dilettazione» tutta mentale e filosofica «che non pate alcuna intermissione o vero difetto, cioè vera felicitade che per contemplazione della veritade s'acquista» (Conv. III XI 14). Come che sia (pur riconoscendo la forza degli argomenti della Corti, attenuerei alquanto la portata del contrasto interno al Convioio) , è qui opportuno spostare la questione sul diverso terreno delimitato da un dubbio che proprio Dante affronta di petto e rispetto al quale offre risposte diversamente orientate. Questo: considerato che molte cose, in primis l'essenza divina, sono destinate a restare precluse al nostro intelletto, impedito per i suoi limiti dal raggiungere una perfezione di conoscenza quanto meno intuita e desiderata, non se ne dovrà dedurre che la via del sapere non porta affatto alla felicità, ma semmai al suo contrario, all'infelicità e alla frustrazione, tanto più immedicabili in quanto radicate in quella che è l'aspirazione assolutamente costitutiva della natura umana stessa? Dante affronta due volte la questione, con lo scopo di conservare al sapere un valore sempre e comunque positivo. Dapprima, lo fa nel trattato terzo, xv 6-10, scrivendo:

Veramente può qui alcuno forte dubitare come ciò sia, che la sapienza possa fare l'uomo beato, non potendo a lui perfettamente certe cose mostrare; con ciò sia cosa che 'l naturale desiderio sia nell'uomo di sapere, e sanza compiere lo desiderio beato essere non possa. A ciò si può chiaramente rispondere che lo desiderio naturale in ciascuna cosa è misurato secondo la possibilitade della cosa desiderante: altrimenti anderebbe in contrario di se medesimo, che impossibile è; e la Natura l'averebbe fatto indarno, che è anche impossibile. In contrario anderebbe: ché, desiderando la sua perfezione, desiderrebbe la sua imperfezione; imperò che desiderrebbe sé sempre desiderare e non compiere mai suo desiderio (e in questo errore cade l'avaro maladetto, e non s'accorge che desidera sé sempre desiderare, andando dietro al numero impossibile a giugnere). Averebbelo anco la Natura fatto indarno, però che non sarebbe ad alcuno fine ordinato. E però l'umano desiderio è misurato in questa vita a quella scienza che qui avere si può, e quello punto non passa se non per errore, lo quale è di fuori di naturale intenzione ... Onde, con ciò sia cosa che conoscere di Dio, e di certe altre cose, quello esso è, non sia possibile alla nostra natura, quello da noi naturalmente non è desiderato di sapere.

La coraggiosa incongruenza del discorso è evidente : data la premessa generale, infatti, è sufficiente che la domanda sia posta - ogni possibile domanda, anche quella relativa alla conoscenza di Dio - perché essa viva ipso facto, proprio in quanto domanda insoddisfatta, nel luogo del desiderio (senza dire poi che si insinua la possibilità di un desiderio 'innaturale', sorto, non si sa come, 'per errore'...). Ciò è tanto vero che Dante, consapevole che la sua soluzione non chiude affatto la questione, la riprende nel trattato successivo, il quarto, XIII 1-9, sviluppando le premesse già poste e però intervenendo più sottilmente tanto sul concetto di desiderio quanto su quello di conoscenza. Ecco il passo, che è bene citare per intero:

Alla questione rispondendo, dico che propiamente crescere lo desiderio della scienza dire non si può, avegna che, come detto è, per alcuno modo si dilati. Ché quello che propiamente cresce, sempre è uno: lo desiderio della scienza non è sempre uno ma è molti, e finito l'uno, viene l'altro; sì che, propiamente parlando, non è crescere lo suo dilatare, ma successione di picciola cosa in grande cosa. Ché se io desidero di sapere li principii delle cose naturali, incontamente che io so questi, è compiuto e terminato questo desiderio. E se poi io desidero di sapere che cosa e com'è ciascuno di questi principii, questo è un altro desiderio nuovo, né per l'avenimento di questo non mi si toglie la perfezione alla quale mi condusse l'altro; e questo cotale dilatare non è cagione d'imperfezione, ma di perfezione maggiore. Quello veramente della ricchezza è propriamente crescere, ché è sempre pur uno, sì che nulla successione quivi si vede, e per nullo termine e per nulla perfezione. E se l'avversario vuole dire che, sì come è altro desiderio quello di sapere li principii delle cose naturali, e altro di sapere che elli sono; così altro desiderio è quello delle cento marche, e altro è quello delle mille; rispondo che non è vero: ché 'l cento si è parte del mille, e ha ordine ad esso come parte d'una linea a tutta la linea, su per la quale si procede per un moto solo, e nulla successione quivi è né perfezione di moto in parte alcuna. Ma conoscere che siano li principii delle cose naturali, e conoscere quello che sia ciascheduno, non è parte l'uno del1' altro, e hanno ordine insieme come diverse linee, per le quali non si procede per uno moto, ma, perfetto lo moto dell'una, succede lo moto dell'altra. E così appare che dal desiderio della scienza, la scienza non è da dire imperfetta sì come le ricchezze sono da dire per lo loro, come la questione ponea: ché nel desiderare della scienza successivamente finiscono li desiderii e vienesi a perfezione, e in quello della ricchezza no. Sì che la questione è soluta, e non ha luogo. Ben puote ancora calunniare l'aversario dicendo che, avegna che molti desiderii si compiano nello acquisto della scienza, mai non si viene all'ultimo: che è quasi simile alla imperfezione di quello che non si termina e che è pur uno. Ancora qui si risponde che non è vero ciò che si oppone, cioè che mai non si viene all'ultimo: ché li nostri desiderii naturali, sì come nel terzo trattato è mostrato, sono a certo termine discendenti; e quello della scienza è naturale, sì che certo termine quello· compie, avegna che pochi, per male camminare, compiano la giornata. E chi intende lo Comentatore nel terzo dell'Anima, questo intende da lui [Comm. De an. III 4, t. c. 5, p. 408 ed. Crawford, e III 7, t. c. 36, pp. 494- 95 ed. Crawford]. E però dice Aristotile nel decimo dell'Etica, contra Simonide poeta parlando, che «l'uomo si dee traere alle divine cose quanto può» [Eth. X 7, 1177b, 31-34: ma la menzione di Simonide è in san Tommaso, Exp. Eth. X lect. 11,2107 e 2109; Summa contra Gentiles l 5]: in che mostra che a certo fine bada la nostra potenza. E nel primo dell'Etica dice che «'l disciplinato chiede di sapere certezza nelle cose, secondo che la loro natura di certezza si riceva» [Eth. I 1, 1094b, 23-25): in che mostra che non solamente dalla parte dell'uomo desiderante, ma deesi fine attendere dalla parte dello scibile desiderato. E però Paulo dice: «Non più sapere che sapere si convegna, ma sapere a misura» [Rom. 12, 3]. Sì che, per qualunque modo lo desiderare della scienza si prende, o generalmente o particularmente, a perfezione viene. E però la scienza ha perfetta e nobile perfezione, e per suo desiderio perfezione non perde come le maladette ricchezze.

Tutto ciò ha naturalmente sollecitato l'attenzione degli studiosi, in particolare il Nardi e la Corti, interessato l'uno ai tratti decisamente non tomistici di questo razionalismo dantesco, e l'altra allo stacco che divide l'ultimo libro del Convivio dai precedenti . Non toccano invece il più circoscritto argomento che qui intendo esplorare, convinto come sono che questo secondo passo offra una completa e fondata copertura di tipo filosofico alla pratica dell'auto-esegesi nella quale Dante è impegnato. In effetti, non conta tanto l'argomentazione in sé (a ben vedere, la si potrebbe anche rovesciare), quanto il modo affatto particolare tenuto da Dante nel tornare a difendere la sua concezione compiutamente positiva del sapere. Si cominci con l'osservare quanto sia significativo l'uso del verbo dilatarsi, contrapposto com'è a crescere. Esso è esplicitamente riferito al desiderio di sapere, e implicitamente al sapere stesso: Dante vuol dire, infatti, che quel desiderio di tanto si dilata, quanto si dilatano i confini del sapere, secondo un doppio movimento che non conosce sfasature e che ogni volta realizza una sorta di equilibrio dinamico. Presupposto di quel dilatarsi, insomma, è l'idea che l'orizzonte del sapere è sempre e solo dato dal sapere stesso, che via via definisce da sé i suoi limiti e le sue possibilità di sviluppo, e per questa via crea ogni volta, per dir così, in perfetta sintonia, sia se stesso che il corrispondente e adeguato desiderio di sé. Di là da questo doppio movimento, nel quale la 'perfezione seconda' dell'uomo percorre la via della propria indefinita realizzazione, non c'è propriamente nulla: nulla per quanto attiene al desiderio, che non può desiderare ciò che ignora, e nulla per quanto attiene al sapere, che non può essere un 'sapere del nulla'. Così, non è contraddittoria l'idea di una perfezione relativa, destinata a porre da sé le condizioni del proprio superamento verso una perfezione ulteriore che la comprenda: il sapere non-saputo non esiste, e il sapere-saputo è, volta per volta, la totalità di tutto-ciò-che-si-sa... Ma appunto, tutto-ciò-che-si-sa, ossia la forza del saputo, genera dal proprio seno il non-saputo-ancora, oggetto immediato di nuovo desiderio di sapere. A questo passo giustamente Nardi ha ripetutamente allegato Paradiso IV 124-32, ove è ribadito lo stesso fondamentale concetto della piena e autonoma positività di ogni progressiva acquisizione di sapere, nel quale, se è sapere vero, la luce della verità brilla tutt'intera; della sua natura di 'possesso per sempre', una volta che sia stato acquisito; del necessario equilibrio o proporzione tra il desiderio di sapere e la sua soddisfazione:

Io veggio ben che già mai non si sazia
nostro intelletto, se 'l ver non lo illustra
di fuor dal qual nessun vero si spazia.

Posasi in esso, come fera in lustra,
tosto che giunto l'ha; e giugner puollo:
se non, ciascun disio sarebbe frustra.

Nasce per quello, a guisa di rampollo,
a piè del vero il dubbio; ed è natura
ch'al sommo pinge noi di collo in collo.

C'è, rispetto al Convivio, qualcosa in più. All'inizio, vv. 125-26, un'opportuna e indubbia, a parer mio, eco agostiniana (non mi risulta che sia stata sin qui notata), in quella nozione totalizzante di una verità che fa sì che ogni vero sia tale (per es. Soliloquio I 15, 27: «si quid verum est, veritate utique verum est»; ivi 29: «Nihil autem verum in quo veritas non est»; II 2, 2: «Verum autem non potest esse, si veritas non sit», ecc.), e alla fine, v. 132, la presenza esplicita di una meta finale, il sommo, rispetto alla quale le diverse linee di cui si compone il percorso del sapere sono ordinate. Ma ciò non tocca, ed anzi rafforza l'argomento centrale del Convivio, con il quale Dante respinge l'idea che proprio l'accrescimento del sapere manchi il suo bersaglio finale e volga il desiderio in frustrazione: argomento che dice, appunto, come in ogni singolo atto di conoscenza ci sia tutta la conoscenza che ci può essere, anche se esistono altre conoscenze, così come in ogni singola verità c'è tutta la verità che ci può essere, visto che l'esistenza di altre verità non la fa meno vera, se lo è, di quanto già sia. L'importanza davvero grande del passo sta dunque, per quanto qui ci riguarda, nella straordinaria esaltazione non solo del cammino attraverso il quale l'uomo s'appressa a quella sua 'perfezione seconda' nella quale propriamente consiste il suo fine in quanto uomo, ma soprattutto - questo è il punto decisivo - nell' esaltazione dell'autonoma compiutezza di valore di ogni sua tappa, di ogni suo momento, che illumina di nuova luce e fa vivere in sé ogni precedente acquisizione. Questo è il fondamento teorico e pratico dell'autoesegesi dantesca, la sua giustificazione profonda. Il difficile, remoto risultato finale non opprime, non svuota di senso il risultato parziale, non svilisce la sua verità e dignità, ché la vita procede come il sapere e con il sapere, piena in ogni istante di sé, perfetta, padrona dei suoi significati... E però anche in movimento, in continua dilatazione, per usare proprio la parola che Dante ha scelto, per far meglio capire quello che intendeva. Sì che il momento strutturale della compiutezza acquisita e quello dinamico della trasformazione si compenetrano, e definiscono una linea di sviluppo che ben potremmo definire organica. Ed è precisamente l'esperienza intima, personale, di questo movimento, che porta in sé tanto le ragioni della sua perfezione presente quanto quelle della sua perfezione futura, che è oggetto dell'auto-esegesi di Dante, fondata sul fatto che egli si pone insieme sia come protagonista che come spettatore del proprio iter di conoscenza.

7. Sezione 7

Nel primo libro del Convivio Dante spiega quale siano le due ragioni principali per le quali è concesso contravvenire al principio per cui non è lecito parlare di sé: la prima ragione, egli dice, si presenta «quando sanza ragionare di sé grande infamia o pericolo non si può cessare... E questa neccessitate mosse Boezio di se medesimo a parlare, acciò che sotto pretesto di consolazione escusasse la perpetuale infamia del suo essilio, mostrando quello essere ingiusto, poi che altro escusatore non si levava». L'altra ragione si ha quando ragionando di sé «grandissima utilitade ne segue altrui per via di dottrina; e questa ragione mosse Agustino nelle sue Confessioni a parlare di sé, ché per lo processo della sua vita, lo quale fu di meno buono in buono, e di buono in migliore, e di migliore in ottimo, ne diede essemplo e dottrina, la quale per altro sì vero testimonio ricevere non si potea» (Conv. I II 13-14) . Naturalmente, Dante rivendica a sé sia la prima che la seconda ragione, seguitando: «Movemi timore d'infamia, e movemi disiderio di dottrina dare, la quale altri veramente dare non può», ecc. Queste e le parole che seguono sono ben note. Io vorrei dare gran peso alla corrispondenza tra la considerazione fatta a proposito di Agostino: «...dottrina, la quale per altro sì vero testimonio ricevere non si potea», e quella fatta a proposito di se stesso: «movemi disiderio di dottrina dare, la quale altri veramente dare non può». Come notava Busnelli, e come ripete ora Vasoli, ad loc., l'antica regula iuris relativa ai testimoni stabiliva che nessuno poteva far fede come testimone in faccende sue: «Nullus idoneus testis in re sua intelligitur» (Pomponio X 22, 5): ma non è questo il caso di Agostino, davvero testis idoneus in re sua, perché della sua vicenda spirituale e dell'insegnamento che essa contiene è l'unico vero e autorizzato testimone. Ma i commentatori avrebbero anche dovuto sottolineare, credo, come Dante si attribuisca qui la stessa funzione di testis idoneus in re sua già riconosciuta ad Agostino, dichiarando di essere nella posizione di chi vuole e deve dare dottrina, come quello che unico è in grado di farlo. È vero - e la cosa va detta - che c'è poi una calcolata ambiguità, quasi uno slittamento del discorso, perché Dante, quasi fosse timoroso di assomigliarsi pienamente ad Agostino, procura di attenuare il parallelismo nascondendosi dietro il ruolo di legittimo depositario della verità nascosta nei propri testi, altrimenti inconoscibile, e sembra ridurre alla pratica e alla decifrazione del 'metodo' dell'allegoria la portata della dottrina che egli solo è in grado di impartire. Conclude, infatti, così: «Intendo anche mostrare la vera sentenza di quelle [canzoni], che per alcuno vedere non si può s'io non lo conto, perché è nascosa sotto figura d'allegoria: e questo non solamente darà diletto buono a udire, ma sottile amaestramenro e a così parlare e a così intendere l'altrui scritture» (Conv. I II 17). Detto questo, e osservato, cioè, che Dante in qualche modo occulta il suo rapporto con Agostino subito dopo averlo evocato con tanta precisione , non ne segue però che noi dobbiamo seguirlo su questa strada meramente formale, perché è assolutamente chiaro che egli fonda il suo buon diritto a parlare di sé su una esperienza personale analoga a quella di Agostino, garantita come vera, da un lato, dalla sua stessa unica e irripetibile verità esistenziale; e garantita come buona, dall'altro, dal fatto di presentarsi oggettivamente, agli occhi di tutti, come un incontrovertibile esempio di un percorso di perfezione che percorre le stesse tappe essenziali di quello già percorso da Agostino, in quel suo trasformarsi «di meno buono in buono, e di buono in migliore, e di migliore in ottimo». Ma come fa Dante ad essene certo? Da dove trae tanta sicurezza? Ecco, cominciamo a stringere il cerchio delle osservazioni via via fatte: io credo che proprio quel lungo discorso sul valore positivo e in sé compiuto di ogni progressiva acquisizione di sapere costituisca una delle chiavi per intendere appieno la posizione di Dante. Egli, al tempo del Convivio è ancora relativamente giovane, e lontano da bilanci conclusivi, né ha da esibire il discrimine forte di una conversione come quella di Agostino. Ha dalla sua una sublime esperienza d'amore giovanile, sulla quale s'innesta senza soluzione di continuità l'esperienza altrettanto folgorante di una totale dedizione al sapere, alla Filosofia, che non riesce ad esprimere i suoi incanti, i suoi tremori e le sue promesse se non attraverso il linguaggio amoroso (questo, almeno per i primi tre libri del Convivio, ché nel quarto già è avvenuto il nuovo passaggio che provvisoriamente esclude l'allegoria d'amore in nome della «rima aspra e sottile» del discorso speculativo). Dove porti questo 'amore' per la Filosofia ancora non si sa bene, ma una cosa è assolutamente certa: esso costituisce a suo modo una 'conversione' che non sarà quella stessa di Agostino ma che costituisce comunque uno snodo indispensabile, quasi un 'bivio pitagorico' (è il momento definito soprattutto dalla canzone Voi che 'ntendendo) lungo il cammino che porta alla perfezione, e racchiude in sé la misura piena e compiuta di una novità e verità che non può e non deve restare celata.

8. Sezione 8

A questo punto, la questione dell'allegoria (alla quale è ben giunto il momento di tornare) si pone da sé. Abbiamo detto che la legittimità morale e speculativa dell'auto-esegesi ha la sua radice nella perfezione relativa, ma non per questo meno perfetta, come Dante spiega, di ogni successivo acquisto di sapere. Dall'altezza via via raggiunta, in questo continuo procedere per sommità, «di collo in collo», essa rappresenta il momento in cui lo sguardo si volge indietro, considera il cammino sin lì percorso e ne valuta il risultato, in funzione del cammino che ancora resta e del quale già si intravvede la direzione. E il momento irrinunciabile e fondante, insomma, in cui il passato si determina e si comprende a partire dal presente, e in cui l'esperienza del vissuto si trasforma in possesso per sempre e acquista la propria definitiva pienezza di senso. Potremmo aiutarci, qui, con suggestioni forti e diverse, magari ricordando la frase di Marx, nell'introduzione ai Grundrisse, secondo la quale è l'anatomia dell'uomo che ci dà la chiave per spiegare quella della scimmia. O ricordando l'angelo della storia di Benjamin, fatto a immagine dell'Angelus nouus di Klee, che avanza con lo sguardo volto all'indietro. Certo, ricordando ancora Benjamin, per nessuno è vero come per Dante che solo all'uomo redento appartiene interamente il suo passato, e che solo per tale uomo il passato è citabile in ognuno dei suoi momenti. E le redenzioni, così come le 'perfezioni', che ogni volta salvano il passato nel presente e per il presente, sono molte, come insegna prima la Vita nova e poi il Convivio, che nell'autoesegetica costruzione di sé e del proprio iter hanno il loro segreto motore (ma tale dialettica vale anche per tanta parte delle Rime posteriori alla Vita nova). Ne consegue, necessariamente, che molte siano anche le 'allegorie'. Se infatti intendiamo con la parola 'allegoria', generalissimamente, un qualsiasi incremento di significato applicato a un sistema acquisito di dati, sarà evidente che ogni pensiero di sé commisurato alla propria esperienza consisterà essenzialmente in una attribuzione di significato al passato, giudicato e promosso all'altezza del presente e infine arricchito dai rampolli, per usare ancora la parola di Dante, in cui già si racchiude il senso possibile degli sviluppi futuri. In altri termini, Dante parla di sé non come l'uomo che è, ma come l'uomo che è diventato quello che è. L'auto-esegesi è allora una auto-esegesi della differenza; il pensiero non è altro, propriamente, che il pensiero della differenza, e la differenza, infine, è l'allegoria, cioè a dire l'incremento di significato che la perfezione raggiunta impone di per sé, retrospettivamente, per il solo fatto di volgersi indietro e di conoscersi come tale. Torniamo ancora un momento ai testi, per correggere qualche rischio d'astrazione. Nel quarto trattato del Convivio Dante, commentando i vv. 101-4 della canzone Le dolci rime, spiega come il concetto di nobiltà (gentilezza) sia più vasto del concetto di virtù, mediante la «bella e convenevole comparazione» che assomiglia la nobiltà al cielo, e le virtù alle stelle (IV XIX 5-10). Nel passo, non possiamo tuttavia non osservare come l'immagine del cielo stellato ceda via via a un'immagine tutt'affatto diversa: quella interamente pregna di vita terrestre del fruttificare («non è da maravigliare se molti e diversi frutti fanno»; «sì come in diversi rami fruttifica diversamente»; «dalla parte di molti suoi frutti»; «in tanti e tali frutti fruttificava»...). A un campo d'immagini se ne sostituisce dunque un altro, essenzialmente fondato sulle parabole del seminatore, del seme e soprattutto del granello di senapa in Marco 4, 1-32, e più corrispondente a ciò che Dante era interessato a rappresentare. Da una parte, infatti, egli esalta il principio originario d'identità, cioè l'anima individuale nella sua piena determinazione e responsabilità, e dall'altra coglie la permanenza di questo principio indiviso ed essenziale nel movimento che lo trasforma e l'arricchisce: in una parola, nel suo divenire. Ecco perché la metafora vegetale - il seme, la pianta e il frutto - gli si presenta come quella più diretta e suggestiva per tradurre in immagini il nucleo dialettico costitutivo dell'essere umano, la vis interna che lo anima, nella quale egli cerca di cogliere le leggi di movimento della vita intellettuale e morale dell'uomo. Nell'esempio appena fatto si passa perciò dal cielo e dalle stelle alla terra e ai suoi frutti, proprio perché questo è il campo d'immagini che possiede ora le motivazioni più profonde. Restando a questo quarto trattato, nelle ultime righe del cap. I Dante scrive che per la sua donna egli intende sempre la Filosofia, «li cui raggi fanno dalli fiori rifronzire e fruttificare la verace delli uomini nobilitade». E nel cap. II 7: «Ché altrimenti è disposta la terra nel principio della primavera a ricevere in sé la informazione dell'erbe e delli fiori, e altrimenti lo verno; e altrimenti è disposta una stagione a ricevere lo seme che un'altra...». E ancora (senza la pretesa di dare un elenco completo), ecco l'incipit del cap. VIII: «Lo più bello ramo che della radice razionale consurga si è la discrezione ... Uno de' più belli e dolci frutti di questo ramo è la reverenza...». E XVII 2: «è da sapere che propiissimi nostri frutti sono le morali vertudi…», e ancora, in chiusura dello stesso capitolo, è sulle virtù come frutti, come prodotti dell’uomo che si insiste. E in XVIII 5 il concetto che la nobiltà è il principio comprensivo di ogni singola virtù è reso con l’immagine non già del cielo e delle stelle, ma dell’albero: «Ché lo piè dell’albero, che tutti li altri rami comprende, si dee principio dire e cagione di quelli…». Rispetto alle partitura della canzone, tutta percorsa da un più canonico repertorio di immagini di pura visibilità, da luci e raggi dagli effetti nobilitanti, il commento scelti perciò una strada diversa, accentuando non tanto ciò che scende dall’alto «per li raggi» della stella, ma ciò che dentro la realtà ha la forza di crescere e produrre frutti suoi, e cioè di vivere secondo le proprie organiche leggi di sviluppo. Questo senso del ritmo e della fecondità e ricchezza proprie delle delle forme naturali di vita è dunque intimamente associato a quello dello sviluppo delle qualità umane, dal seme al frutto, a cominciare dal vero e proprio seme umano: «E però dico che quando l'umano seme cade nel suo recettaculo, cioè nella matrice...» (IV XXI 4), che diventa, nella parte conclusiva dello stesso capitolo, il «seme di felicitade» largito da Dio all'uomo perché cresca e faccia frutto:

Oh buone biade, e buona e amirabile sementa! E o amirabile e benigno seminatore, che non attende se non che la natura umana li apparecchi la terra a seminare! E beati quelli che tal sementa coltivano come si conviene! Ove è da sapere che ‘l primo e lo più nobile rampollo che germogli di questo seme, per essere fruttifero, si è l’appetito dell’animo, lo quale in greco è chiamato ‘hormen’. E se questo non è bene culto e sostenuto diritto per buona consuetudine, poco vale la sementa, e meglio sarebbe non essere seminato. E però vuole santo Augustina, e ancora Aristotile nel secondo dell'Etica, che l'uomo s'ausi a ben fare e a rifrenare le sue passioni, acciò che questo tallo che detto è, per buona consuetudine ioduri e rifermisi nella sua rettitudine, sì che possa fruttificare, e del suo frutto uscire la dolcezza dell'umana felicitade (IV XXI 12-14).

E ancora Dante si ripete, incidendo la metafora con un linguaggio sempre più realistico, nel capitolo successivo:

Sì come detto è di sopra, della divina bontade, in noi seminata e infusa dal principio della nostra generazione, nasce uno rampollo che li Greci chiamano 'hormen', cioè appetito d'animo naturale. E sì come nelle biade che, quando nascono, dal principio hanno quasi una similitudine nell'erba essendo, e poi si vengono per processo di tempo dissimigliando; così questo naturale appetito, che della divina grazia surge, dal principio quasi si mostra non dissimile a quello che pur da natura nudamente viene, ma con esso, sì come l'erbate quasi di diversi biadi, si simiglia (IV XXII 4-5).

Ed ecco, in questo stesso cap. 22, l'immagine tecnica dell'innesto:

...ed è uno modo quasi d'insetare l'altrui natura sopra diversa radice. E però nullo è che possa essere scusato; ché se da sua naturale radice uomo non ha questa sementa, ben la puote avere per via d'insetazione. Così fossero tanti quelli di fatto che s'insetassero, quanti sono quelli che dalla buona radice si lasciano disviare!

E, per finire, ecco la splendida immagine riassuntiva della trama sin qui intessuta:

...è da sapere che questo seme divino di cui parlato è di sopra, nella nostra anima incontamente germoglia, mettendo e diversificando per ciascuna potenza dell'anima secondo la essigenza di quella. Germoglia dunque per la vegetativa, per la sensitiva e per la razionale; e dibrancasi per le vertuti di quelle tutte, dirizzando quelle tutte alle loro perfezioni, e in quelle sostenendosi sempre infine al punto che, con quella parte della nostra anima che mai non muore, all'altissimo e gloriosissimo seminadore al cielo ritorna (IV xxiii 3).

Questa divagazione vegetale serve a riportare il discorso alla natura dei problemi che Dante si trovava ad affrontare con l'allegoria. Uno soprattutto: quello di andare oltre gli strumenti logici che la cultura del suo tempo gli offriva, tutti basati sul principio d'identità: a = b; b = e; a = c, e perciò, in definitiva, a = a, dal momento che proprio il suo caso dimostrava che non sempre a = a: che l'uomo Dante, insomma, nella realtà della sua storia era e insieme non era uguale a se stesso, così come il seme non è la pianta, e la pianta non è il frutto... (e del resto, Conv. IV XXIV 8: «la nostra buona e diritta natura ragionevolmente procede in noi, sì come vedemo procedere la natura delle piante in quelle»). Dante si riconosce con passione e partecipazione nella sua esperienza (ecco forse un'altra potente ragione della ripresa della 'donna gentile' quale immagine della Filosofia): ma mentre si conosce come indubitabilmente uguale a se stesso - lo stesso Dante che ha amato e dunque non può non 'conoscere' ancora l'amore per Beatrice - egli è pure diverso, è mutato rispetto al Dante di prima. E dall'uno all'altro non ci sono salti, rotture, ma un principio unico di sviluppo, un crescere e un maturare per forza interna, un dilatare, per tornare ancora una volta alla parola di Dante. C'è il tempo vivo dell'esperienza, e il suo dilatarsi in nuove dimensioni. Ecco allora che l'allegoria non serve già, come nei suoi modelli, a fare a meno del tempo, a negarlo all'esperienza per irrigidire quest'ultima in figure assolute e assolutamente contrapposte una all'altra, ma diventa invece strumento per una presa più forte sulla complessità della propria auto-rappresentazione: la trascrizione statica e atemporale dell'allegoria diventa in Dante trascrizione dinamica, compresenza di piani diversi, nodo temporale.

Rileggiamo in questa luce (l'ultima frase è già stata citata) le importanti parole che sono proprio all'inizio del Convivio, nel primo capitolo del primo trattato:

E se nella presente opera, la quale è Convivio nominata e vo' che sia, più virilmente si trattasse che nella Vita Nova, non intendo però a quella in parte alcuna derogare, ma maggiormente giovare per questa quella; veggendo sì come ragionevolmente quella fervida e passionata, questa temperata e virile essere conviene. Ché altro si conviene e dire e operare ad una etade che ad altra; per che certi costumi sono idonei e laudabili ad una etade che sono sconci e biasimevoli ad altra, sì come di sotto, nel quarto trattato di questo libro, sarà propria ragione mostrata. E io in quella dinanzi, all'entrata della mia gioventute parlai, e in questa dipoi, quella già trapassata. E con ciò sia cosa che la vera intenzione mia fosse altra che quella che di fuori mostrano le canzoni predette, per allegorica esposizione quelle intendo mostrare, appresso la litterale istoria ragionata... (Conv. I I 16-18)

Dante non intende derogare in nulla rispetto alla sua opera giovanile, ma si propone di giovarle, cioè di incrementarne il significato attraverso la lettura delle canzoni che egli farà nel Convivio. Ignoro se nel gran mare della bibliografia dantesca qualcuno ha già richiamato al proposito le parole di Cristo, nel sermone della montagna, in Matteo 5, 17: «Noli te putare quoniam veni sol vere legem et prophetas: non veni sol vere, sed adimplere»: certo, l'analogia tra il rapporto così istituito tra il Vecchio e il Nuovo Testamento, da una parte, e la Vita nova e il Convivio dall'altra, è forte, e quanto Friedrich Ohly scrive circa il criterio esegetico applicabile ai testi sacri funziona altrettanto bene, con pochi adattamenti, anche per i testi di Dante . Quanto nella Vita nova e nelle canzoni è prefigurato, trova ora il proprio completamento, quasi un rispecchiamento potenziato nel quale s'intrecciano momenti comuni e momenti di differenziazione. Ciò è possibile perché là, dentro il loro involucro, già c'è l'abbozzo di quei contenuti profondi che ora si tratta di portare compiutamente alla luce: ora che egli è più maturo e consapevole, ed è dunque finalmente in grado di capire il proprio passato e di sviluppare tutta la feconda ricchezza dei suoi sogni con la forza adulta della ragione. E questo un punto che Dante cura ancora di sottolineare, là dove spiega di essere stato aiutato a superare le difficoltà dello studio della filosofia dalla sua buona disposizione naturale, dal suo ingegno, «per lo quale ingegno molte cose, quasi come sognando, già vedea, sì come nella Vita Nova si può vedere» (Conv. II XII 4). Il 'metodo' dell'allegoria è perciò chiaramente presentato come il linguaggio necessario dell'auto-interpretazione, e l'auto-interpretazione, a sua volta, è legittima proprio in quanto disvela la continuità sostanziale dell'esperienza, la maturità di un processo che è in grado di volgersi su di sé e di conoscersi. Se si pone ben mente alle parole di Dante, risulta chiaro che la sfasatura che corre tra il piano di lettura letterale e quello allegorico contiene in sé un preciso e caratterizzante elemento temporale: schematicamente, prima, nella giovinezza, erano il sogno e le sue immagini cariche di una loro vaga aura di profezia; poi, nella maturità, in virtù dello studio che porta nel tempo della vita il lume divino della Ragione, si dispiega e s'afferma nella pienezza dei suoi significati il nucleo di verità che il sogno già faceva vivere in sé. La doppia lettura è il frutto di un percorso: il suo fondamento e la sua possibilità stessa stanno, in ultima analisi, nell'esperienza che il soggetto fa di se stesso, o meglio, nell'esperienza della 'differenza' attraverso la quale il pensiero di sé può porsi come tale.

9. Sezione 9

A questo punto, si può trarre qualche ipotesi conclusiva. Non mi fermerò su quella che più mi occupa la mente e che mi propongo di approfondire altrove m maniera adeguata, secondo la quale tutta l'argomentazione di Dante costituirebbe una fondamentale difesa e propriamente esaltazione del linguaggio della poesia al quale, solo tra tutti, il tempo aggiunge significato (con Borges, La ricerca di Averroè: «il tempo, che dirocca i castelli, aggiunge forza ai versi»), e nella sua apertura polisemica, tendenzialmente infinita e infinitamente interpretabile, custodisce il segreto della stessa mobile e 'progressiva' verità della vita. Quasi che, paradossalmente, proprio la 'falsità' dell'alieniloquium poetico permetta un'ipotesi ermeneutica intesa come approssimazione continua e dinamica all'irraggiungibile verità del testo... Aggiungerei, invece, che se quanto detto sin qui è vero, se ne deve dedurre senza ombra di dubbio che la dimensione generale entro la quale opera l'autoesegesi dantesca (qui e ovunque, direi) è quella della 'allegoria in factis'. Tutto il discorso sulla 'perfezione seconda' dell'uomo e sulla compiuta felicità del sapere e tutto l'impianto autoesegetico finiscono di mostrare come Dante abbia voluto porre al centro del Convivio, così come ci è giunto, un nucleo d'esperienza reale, conosciuto ed esaltato come tale a partire dal suo (provvisorio) punto d'arrivo. Là, nelle parole che Matteo attribuisce a Cristo, delle quali è davvero difficile sopravvalutare l'importanza: «...non veni solvere, sed adimplere», è racchiuso l'essenziale del rapporto allegorico che lega, in factis, l'antico e il nuovo Testamento; qui, nelle parole di Dante che non intende derogare rispetto a quanto già ha vissuto e scritto, ma piuttosto giovare, è racchiuso l'essenziale del rapporto che lo lega in factis al suo proprio passato: m fatti che già «son di lor vero umbriferi prefazi», secondo la stupenda formula che sarà poi in Par. XXX 78. S'aggiunga ancora che nel Convivio opera uno degli elementi fondamentali della 'allegoria in factis': l'orientamento temporale, il prima e il dopo, che per contro alla 'allegoria in verbis' sono completamente estranei. Ciò che avviene prima è reale, certo, e dunque a suo modo autosufficiente, ma acquista tutto il suo valore di premonizione e la propria compiutezza di senso alla luce del dopo, perché e solo allora che risulta chiara e incontrovertibile la direzione del suo movimento. Ma una volta detto che la dimensione fondamentale che permea di sé la prosa del Convivio è quella della 'allegoria in factis', e cioè la tensione autoesegetica portata sui nodi significativi della propria esperienza, occorre ripetere ancora che entro questa dimensione è vistosamente sottolineata e praticata la 'allegoria in verbis', nell'interpretazione delle due canzoni Voi che 'ntendendo e Amor che nella mente. Il che sta a dire che la duplicità di piani che caratterizza l'opera intera precipita in quella sorta di schizofrenia che rompe il passo sui quattro sensi. Le ragioni di tutto questo immagino siano nascoste in una circostanza affatto eccezionale: Dante non intendeva in alcun modo avallare l'idea che quelle due canzoni fossero nate come liriche d'amore per una donna reale diversa da Beatrice, e doveva perciò fornirne l'interpretazione «allegorica e vera» svelandone l'artificio verbale. Ma questa opera di disvelamento, nel momento stesso in cui comincia a operare, illumina la realtà di una speciale stagione della propria vita, ne mette in risalto i nessi, ne coglie il senso e i possibili sviluppi ... In una parola, nel Convivio il primato della 'allegoria in verbis' è apparente, diversamente da come pensava Singleton, perché conquista il suo orizzonte di significato solo all'interno della 'allegoria in factis'.
Ci sarebbero molte altre cose da spiegare, ma il discorso è già stato troppo lungo. Un'ultima cosa vorrei però aggiungerla, in coda, tornando all’analogia che la situazione tracciata da Dante ha con alcuni tratti esemplari dell'esegesi dei testi sacri. Una delle conseguenze della loro divina e inesauribile pienezza di senso era stata quella di ancorare, per dir così, diversi livelli di interpretazione alle diverse capacità dell'interprete, e per questa via, più concretamente, alla sua esperienza di vita e infine alla sua età. Un cenno l'offre già Agostino, quando nelle Confessioni scrive che la Bibbia è un libro avvolto di misteri e destinato a 'crescere' insieme ai suoi giovani lettori: «Verum tamen illa erat, quae cresceret cum parvulis» (III 5, 9), e ripete nel De Trinitate, I 1, 2: «sancta Scriptura parvulis congruens nullius generis rerum verba vitavit ex quibus quasi gradatim ad divina atque sublimia noster intellectus velut nutritus assurgeret». Ma è Gregorio Magno che dà forma definitiva al concetto scrivendo senza mezzi termini che «divina eloquia cum legente crescunt» , fondando così un'ermeneutica dell'interpretazione infinita nei confronti di un testo 'infinito' perennemente mobile e vivo nel suo rapporto con tutti i suoi diversi lettori, ma soprattutto con il medesimo lettore colto in momenti diversi del suo percorso intellettuale ed esistenziale. Dante muove dunque da una concezione simile, legata allo sviluppo della persona e alla sua accresciuta capacità di intendere, ma il suo caso è ancora diverso, ché egli si pone come il 'nuovo' Dante che interpreta ciò che il Dante 'passato' ha scritto: ma di fatto è proprio la sua interpretazione che s'incarica di definirlo come 'nuovo'. Questo fitto gioco delle parti è continuo entro il Convivio, ed ha la sua base oggettiva nel linguaggio allegorico che dieci anni prima era servito a Dante per rendere percepibile e rappresentabile ciò che in termini di consapevolezza speculativa ancora non era tale né poteva esserlo: la complessa dialettica dell'esperienza con le sue lacerazioni e le sue scelte, e i contenuti che via via la occupano, ma soprattutto con la sua unità di fondo, con la permanenza in essa del suo proprio e indiviso centro cosciente, lui, l'uomo Dante, il futuro personaggio-poeta della Commedia. Allora, l'allegoria aveva preso corpo nelle due canzoni, Voi che 'ntendendo e Amor che nella mente, nella ballata Voi che savete e nei due sonetti Parole mie e O dolci rime, là dove Dante aveva fissato i motivi fondamentali che stavano alla base del suo distacco dall'esperienza giovanile, compendiata nella Vita nova, e della sua entrata in un'età e in un orizzonte di relazioni culturali e sociali nuove. Ma è solo ora, nel commento, che egli propriamente costruisce o inventa, come si preferisce, il suo passato attraverso le parole che spiegano il passaggio da un 'amore' a un altro come passaggio da una stagione fervida di scoperte sentimentali e di entusiasmi lirici agli impegni richiesti dagli studi filosofici e da un rapporto adulto col mondo. In altre parole, nel Convivio Dante apre la forma chiusa della scrittura allegorica perché solo ora egli può descrivere il momento fondamentale di svolta e di crescita a partire dal quale la sua vicenda non è più definita da una privilegiata e segreta educazione sentimentale, ma da ciò che tale educazione ha prodotto, con la sua ricchezza di fermenti e di implicazioni culturali. Sì che la nuova immagine di donna, la Filosofia, non sopraggiunge semplicemente a cacciare l'amore per Beatrice, a cancellarlo, ma piuttosto risolve positivamente un momento di crisi, una transizione, e il doppio livello della spiegazione letterale e di quella allegorica collabora a quello che direi il carattere introduttivo dei trattati secondo e terzo, evidente nel fatto che Dante parla soprattutto di sé, del suo passato, e racconta secondo quel doppio registro come il programma educativo che egli propone agli uomini del suo tempo sia stato prima di tutto un programma che, agostinianamente, è maturato attraverso la sua viva esperienza di uomo, in un momento decisivo del suo sviluppo. In questa vicenda va ancora sottolineato, se ce ne fosse bisogno, come il nucleo profondo del discorso di Dante sia per sua natura un nucleo dinamico. Egli ferma alcuni punti generali di riferimento, dà alcune larghe coordinate: ma quello che in realtà vuole descrivere, interpretare, orientare, è un movimento, un percorso ... prima di tutto un percorso suo, strettamente personale, eppure proponibile come un modello in cui tutti avrebbero potuto riconoscersi. In tutto ciò, il passaggio dal linguaggio poetico dell'allegoria a quello prosastico dell'interpretazione già fornisce una struttura dinamica: è di per sé un vettore d'esperienza. Ed è proprio questa tensione così compenetrata di passato e così piena di futuro che comincia sùbito a far vivere la grande promessa che è alla fine della Vita nova e dona all'allegoria dantesca la sua forza, la sua novità e il suo fascino.

Date: 2021-12-25