L’allegoria [Giorgio Barberi Squarotti]

Dati bibliografici

Autore: Giorgio Barberi Squarotti

Tratto da: Letture classensi

Editore: Longo, Ravenna

Numero: 8

Anno: 1979

Pagine: 135-160

I canti XXVII-XXXIII del Purgatorio racchiudono il sistema allegorico forse più compatto e anche più complesso dell'intera Commedia dantesca: che non tanto m'importa qui identificare nei significati particolari, quanto cercare di leggere appunto come sistema. Il luogo dei canti conclusivi del Purgatorio è il Paradiso terrestre: uno spazio, cioè, che già nel testo biblico è sede di una doppia «rappresentazione» ovvero di una doppia vicenda, che è compendio «allegorico», delle due modalità secondo cui si attua la storia, quella individuale nell'uomo (nel primo uomo) Adamo, che vi vive la sua vicenda di felicità naturale assoluta e di perfetta libertà, di tentazione, di scontro contro il divieto divino, di caduta, infine di cacciata e di perdita definitiva dello stato di innocenza e di purezza; e quella dell'intera umanità, non soltanto perché compendiata in Adamo, ma anche perché negli eventi e nei fatti che essa di tempo in tempo attraversa si ripropone lo schema esemplare, il modell0 iniziale di passaggio colpevole da perfezione a caduta che si fissa come struttura profonda della storia pubblica e generale. Il Paradiso terrestre è, insomma, uno spazio deputato all'accadimento di vicende esemplari, che coinvolgono tutta una serie ininterrotta di conseguenze fattuali, in quanto tali vicende si pongono come modello «allegorico» della storia di ciascun uomo e dall'umanità intera, ma, in più, è anche il luogo di una natura perfetta e intatta e libera da corruzione e da monte e anche dal divenire del tempo e dall'alternanza di nascita e corruzione, cioè offre l'esempio («allegorico») di una condizione d'origine di perfezione assoluta, che dà senso e valore e spiegazione all'opposto stato in cui, dopo la cacciata, l'uomo si trova come individuo e come partecipe dell'umanità, ovvero allo stato di corruzione, di malattia, di colpa, di morte, di drammatico trascorrere del tempo come moto di continua dissoluzione dell'esistente entro il «vivere ch'è un correre alla morte». E' uno spazio ormai vuoto, dove la natura continua a essere pura e intatta, ma dove appaiono i segni dell'avvenuta distruzione dell'innocenza primitiva (come la «pianta dispogliata / di foglie e d'altra fronda in ciascun ramo»): ma è pure uno spazio, in quanto vuoto, disponibile per una nuova rappresentazione esemplare, per una nuova allegoria (se è vero che quella di Adamo e dell'umanità in Adamo, se è sempre in qualche modo «attuale», tuttavia è anche superata e inverata dalla vicenda del nuovo Adamo, cioè di Cristo, che compie fino alla saldatura definitiva il cerchio esemplare della storia dell'uomo singolo e dell'intera umanità, redenti con il sacrificio della Croce e reintegrati nella condizione di libertà e affrancamento dalla morte e dalla corruzione).
Su tale spazio opera Dante: come nel luogo dell'esemplarità e dell'epifania delle allegorie, nel Paradiso terrestre si arresta il viaggio dantesco. Il Paradiso terrestre comprende una natura totalmente immobile, che non conosce trasformazioni, stagioni, vicende di fiori e di geli, di nascita e di corruzione: «Un'aura dolce, sanza mutamento / avere in sé, mi feria per la fronte / non di più colpo che soave vento; / per cui le fronde, tremolando, pronte / tutte quante piegavano a la parte / u' la prim'ombra gitta il santo monte; / non però dal loro esser dritto sparte / tanto che gli augelletti per le cime / lasciasser d'operare ogni lor arte; / ma con piena letizia l'òre prime, / cantando, ricevieno inrra le foglie, / che tenevan bordone a le sue rime, / tal qual di ramo in ramo si raccoglie / per la pineta in sul lito di Chiassi, / quand'Eolo Scirocco fuor discioglie». Il fatto è che, come spiegherà poi Matelda a Dante, la brezza che spira fra gli alberi non nasce da un vero e proprio moto di venti, che non potrebbe essere determinato che dalle esalazioni dell'acqua e della terra, cioè da una causa connessa con la vicenda di generazione e di corruzione che domina nell'universo sublunare, e le piante che vi verdeggiano non hanno avuto una nascita come quelle della terra, che comporterebbe inevitabilmente la successiva fase della corruzione, ma nascono per opera di quell'unico movimento che non è connesso con generazione e corruzione, quale è quello del Primo Mobile; e, allo stesso modo, le acque che scorrono nel Paradiso terreste non derivano da una sorgente la cui gittata derivi dalla quantità maggiore o minore delle precipitazioni atmosferiche, bensì si origina «di fontana salda e certa / che tanto dal voler di Dio riprende f/ quant’ella versa da due parti aperta».
Si comprende allora come al viaggio, che è vicenda e narrazione di un progresso preciso di esperienza e conoscenza attraverso l’inferno e il purgatorio, si sostituisca per Dante il muovere lento dei passi (si potrebbe dire il passeggiare), in cerchio, nel luogo deputato non più alle apparizioni e alle presentazioni dei personaggi dannati o purganti, ma alla rivelazione del senso autentico della storia passata e presente dell'umanità e della propria storia attraverso la rappresentazione, questa sì, invece, mutevole e variata e scandita in diversità di episodi e di situazioni, l'una con l'altra collegata attraverso non la logica narrativa del progresso nel viaggio, quanto piuttosto attraverso il processo per scenografie successive e per dibattiti serrati di carattere inquisitivo, spogli, quindi, di ogni carattere epico o narrativo, cioè attraverso modi tipicamente costruiti secondo le norme dello «spettacolo» esemplare (lo spettacolo come allegorica rappresentazione nel concreto di un'azione di fatti e di discorsi «da vedersi», appunto da contemplarsi, di spectare, per riceverne una lezione assoluta, definitivamente rivelatrice per sé e per le sorti del mondo). La posizione di Dante, insomma, s'inverte: non più colui che percorre l’inferno e sale il monte del purgatorio, cioè è soggetto di una catena continua di «visioni», in quanto è l'attivo visitatore dell'al di là, bensì l’oggetto immobile di uno spettacolo che è decisivo per la comprensione della sua storia personale così come della storia del mondo.
Se moto c'è nel Paradiso terrestre, questo, quindi, non può che essere estraneo e diverso dai moti mondani, determinanti da cause fisiche o seconde, e deve derivare direttamente da Dio, si tratti della brezza che muove le foglie degli alberi oppure delle acque che scorrono nel giardino dell'Eden; e, allo stesso modo, la nascita della piante nello stesso Eden non può avvenire secondo quelli che sono i modi consueti della terra, ma si compie per opera dei processi generativi dei semi innescati dal vento determinato dal moto del Primo Mobile che distribuisce per il Paradiso terrestre la virtù generativa delle varie piante (e, naturalmente, l'Eden è pieno di piante di ogni genere, ignote alla terra, secondo l’idea di una perfezione e di una completezza della natura nello stato di innocenza che è connesso con l'idea stessa del Paradiso terrestre). La lunga spiegazione di Matelda, data al dubbio di Dante di fronte ai fenomeni che egli crede appartenere allo stesso genere di quelli atmosferici, pur trovandosi la sommità del monte del Purgatorio con il Paradiso terrestre al di sopra delle regioni del cielo dove si hanno le perturbazioni, descrive, quindi, lo spazio di una condizione d'eccezione della natura, che proprio per questo può essere la cornice adeguata al quadro della vicenda esemplare nella quale si è consumato il destino dell'umanità e della rinnovata rappresentazione dell'opposta vicenda esemplare nella quale si appalesa la doppia storia di Dante come persona e dell'umanità fra caduta e redenzione. Si può allora dire che all'interno di tale rappresentazione il velo dell'allegoria ha anche un'altra funzione: appunto quella di «velo» che valga a rendere effettivamente rappresentabili nello «spettacolo» esemplare del Paradiso terrestre Cristo come Beatrice, che non sarebbero, altrimenti, contemplabili per le forze di Dante, non ancora raffinate dal progresso dell'ascesa attraverso i cieli, verso l'empireo: le forme che i santi e Beatrice e Cristo assumono per la rappresentazione allegorica valgono ad adeguarne la presenza agli strumenti conoscitivi di Dante, altrimenti del tutto impreparati e inadatti a sostenerne la visione.
Tanto è vero che la stessa epifania di Beatrice e di tutte le altre figure sacre è preparata, appunto, da Matelda, che dà le spiegazioni a Dante sulla condizione e sui caratteri del Paradiso terrestre: da una figura, cioè, che non appartiene ad altro spazio più alto, non si riferisce come proprio luogo al paradiso, che, invece, racchiude come proprio luogo Beatrice e i santi e Cristo nella loro realtà che, nell'Eden, si riveste di apparenze sensibili, di vesti allegoriche. In questa prospettiva, Matelda non può essere altro che una sorta di genius loci, che partecipa della rappresentazione allegorica non in funzione rivelativa ed esplicativa della storia personale di Dante o della storia universale dell'umanità, ma soltanto secondo un compito che si ripete per Dante come per ogni altra anima purgante che abbia concluso il suo tempo di purgazione e si accinga a salire al cielo. Del resto, la presentazione di Matelda corrisponde all'idea di una figura a cui è dato il possesso del luogo e della sua purezza e innocenza e piena felicità naturale: «Coi piè ristetti, e con gli occhi passai / di là dal fiumicello, per mirare / la gran variazion d'i freschi mai; / è là m'apparve, si com'egli appare / subitamente cosa che disvia / per maraviglia tutto altro pensare, / una donna soletta che si gìa / cantando e scegliendo fior da fiore / ond'era pinta tutta la sua via»; e sono altrettanto coerenti con tale carattere di Matelda sia la posizione subordinata rispetto a Beatrice, sia il fatto che ella appare a Dante al di là del Letè, cioè nello spazio raggiungibile soltanto da chi si sia totalmente purificato dal peccato e dalla memoria di esso, quindi nel luogo della natura integra e perfetta, in quanto governata direttamente da Dio nell'esplicazione di tutte le sue virtù, ma anche il fatto che Matelda non ha alcuna parte reale nello spettacolo esemplare dell'allegoria della stona personale e universale.
Matelda, insomma, rappresenta l'allegoria della natura nella condizione di suprema perfezione e innocenza: e bene, quindi, si adatta a lei la similitudine con Venere («Tanto che fu là dove l'erbe sono / bagnate già da l'onde del bel fiume, / di levar gli occhi suoi mi fece dono. / Non credo che splendesse tanto lume / sotto le ciglia a Venere; trafitta / dal figlio fuor di tutto suo costume»), così come rappresentano una storia di allegoria dell'allegoria le due citazioni, storica e letterario-mitologica, che vengono richiamate a significare il desiderio di Dante di superare il Letè e di raggiungere il luogo dell’innocenza naturale di cui è raffigurazione Matelda e, al tempo stesso, custode, e che rappresentano i due momenti, storico universale e stanco personale, secondo cui si articola tutta la rappresentazione che si compie nel Paradiso terrestre: « Tre passi ci facea il fiume lontani; / ma Ellesponto, là 've passò Serse, / ancora freno a tutti orgogli umani, / più odio da Leandro non sofferse, / per mareggiare intra Sesto ed Abido, / che quel da me perché allor non s'aperse». Ed è 'ugualmente naturale che tocchi a Matelda il compito di dare tutte le indicazioni opportune perché Dante comprenda bene le condizioni eccezionali del «paesaggio» naturale del Paradiso terrestre, nonché anche di ripetere per scorcio quelle informazioni su ciò che vi avvenne di assolutamente esemplare e decisivo, cioè la creazione dell'uomo da parte di Dio in stato di perfezione naturale e la colpa d'origine, la caduta, la cacciata di Adamo: «Lo sommo ben, che solo esso a sé piace, / fece l'uom buono e a bene, e questo loco / diede per arra a lui d'eterna pace. / Per sua difalta qui dimorò poco; / per sua difalta in pianto ed in affanno / cambiò onesto riso e dolce gioco. / Perché 'l turbar che sotto da sé fanno / l'esalazion de l'acqua e de la terra, / che quanto posson dietro al calor vanno, / a l'uomo non facesse alcuna guerra, / questo monte salìo ver lo ciel tanto / e libero n'è da indi ove si serra».
In più, Matelda offre a Dante, insieme con la definizione storica, allegorica, scientifica e, al tempo stesso, significativa e allusiva, della condizione del Paradiso terrestre e della vicenda dell'uomo che vi si consumò all'inizio dei tempi, anche un'altra, più pallida e scialba, ma pure indicativa allegoria che ella interpreta per Dante in quanto poeta, cioè partecipe di un mondo di favole e di exempla che è, per lui come per tutti i poeti, un metalinguaggio capace di significare la verità sotto il velo dell'invenzione e del sogno: «Quelli che anticamente poetato / l'età de l'oro e suo stato felice, / forse in Parnaso esto loco sognare». Quella poesia antica, che Dante, attraverso Virgilio e Stazio, che gli sono compagni ancora fino alla soglia (e Stazio oltre) del Paradiso terrestre. ha come maestra del proprio poetare, autorizza, in un certo modo, essa stessa il procedimento allegorico nel poetare in quanto è «sogno» ovvero allegoria della verità dell'Eden attraverso l'«invenzione» dell'età dell'oro. Nelle immagini e nelle strutture che Matelda evoca e descrive come proprie dell'Eden dove l'uomo fu innocente e felice, si invera il sogno dei poeti antichi sognato in Parnaso. Matelda, infatti, ancora chiosa la sua indicazione di storia ideologica della poesia: «Qui fu innocente l'umana radice, / qui primavera sempre ed ogni frutto: / nettare è questo, di che ciascun dice». C'è una radice di verità, insomma, nella poesia antica, ed è situata nell'allegoria, che essa è, di una verità che prima di Cristo può apparire soltanto in sogno, per speculum in aenigmate. Matelda spiega punto per punto l'allegoria che il sogno poetico dell'età dell'oro è: ed è spiegazione necessaria perché si tratta di un «sogno» quanto mai lontano, in apparenza, come tutto il mondo pagano, dalla verità cristiana. là dove l'allegoria cristiana del carro e della processione e delle vicende a cui il carro è sottocosto non ha bisogno di chiosa, dal momento che i materiali da cui è costituita appartengono all'ambito della cultura comune dell'autore e dei lettori, cioè alla cultura cristiana, e tutte le esplicazioni sono interne a un sistema di segni allegorici perfettamente agibili e trasparenti. La discontinuità di cultura può esserci fra il mondo dei poeti antichi e quello dei lettori moderni, onde l'allegoria dell'età dell'oro ha da essere esplicata, anzitutto come allegoria, poi come allegoria del1a condizione d'origine dell'uomo, innocente e felice: la continuità di cultura, invece, fra autore cristiano e pubblico giustifica i segni allegorici che il poeta usa senza necessità di spiegazione, essendo patrimonio culturale comune (iconografico oltre che poetico, ma, soprattutto, fondato sui testi sacri, in particolare sull'Apocalissi).
Se mai, la chiosa dantesca è all'interno del sistema: ovvero la costruzione allegorica del Paradiso terrestre è un'interpretazione della profezia dell'Apocalissi, una lettura del libro neotestamentario, cioè è anche un'allegoria che cresce su un'al1egoria, nel senso che Dante interpreta il testo giovanneo come un sistema di segni allegorici da riutilizzare per una rappresentazione della storia universale in chiave di messaggio politico-religioso. Che, poi, i poeti antichi, in quanto poeti, accettino la prospettiva secondo cui li interpreta Matelda, appare chiaro dall'approvazione che alle parole di lei dànno Virgilio e Stazio: «Io mi rivolsi a dietro allora tutto / a' miei poeti, e vidi che con riso / udito avean l'ultimo costrutto». La poesia antica è, in altre parole, verità sotto forma di sogno (di allegoria), che si esplica e si chiarisce nel momento in cui la dimensione escatologica chiosa ciò che è soltanto immagine inconscia, figura intuita al di qua della ragione e dell'intenzione, messaggio che attraversa parole e visioni diverse e difformi per rivelarsi, alla fine, nella verità che in ultima analisi contiene: là dove la Poesia cristiana è cosciente allegoria ovvero profezia del divino. L'allegoria, insomma, appare giustificata anche in rapporto con i modelli supremi di poesia dati dai poeti antichi come intrinseco strumento della poesia: la visione-rappresentazione che si offre a Dante nel luogo deputato agli accadimenti esemplari e decisivi della storia personale dell'uomo e universale dell'umanità è giusto tema poetico, autorizzato, anche dalle forme di poesia della classicità (tanto è vero che Dante invoca le Muse proprio in apertura della rappresentazione allegorica, rinforzando così la dichiarazione, prima affidata a Matelda, del carattere poetico dell'allegoria, si tratti dell'inconscio allegorizzare dei poeti antichi ovvero di quello cosciente di Dante in quanto poeta cristiano e fruitore della lunga tradizione allegorica dell'esegesi biblica dei Padri: «O sacrosasante Vergini, se fami, / freddi e vigilie mai per voi soffersi, / cagion mi sprona ch'io mercé vi chiami. / Or convien che Elicona per me versi, / e Urania m'aiuti col suo coro / forti cose a pensar mettere in versi»). Ma l'allegoricità è intrinseca a tutto ciò che accade nel Paradiso terrestre, in quanto, appunto, spazio dell'esempio è l'Eden, e tutto ciò che vi accade ha un senso decisivo nella storia dell'individuo come in quella del mondo (e basta ricordare, allora, il volgersi verso oriente di Dante, che si accompagna a Matelda risalendo il fiume che è fra di loro: «Non eran cento tra' suoi passi e' miei, / quando le ripe igualmente dier volta / per modo ch'a levante mi rendei»).
La scomparsa di Virgilio non è esattamente fissata a un punto preciso della rappresentazione allegorica che si compie davanti a Dante: conosciamo lo stupore comune ai due poeti all'iniziale apparizione dei sette candelabri d'oro, ma non è indicato il momento quando Virgilio lascia Dante. Il fatto è che non si tratta soltanto della sostituzione di Beatrice a Virgilio, ovvero, se vogliamo, della grazia alla ragione, ma anche di un modo di intendere e di fare poesia a un altro: l'ammirazione che prende Virgilio di fronte all'inizio della rappresentazione allegorica è il segno che la dimensione e la prospettiva delle strutture e delle forme poetiche mutano e il modello, allora, non potrà più essere l'Eneide (e la poesia classica in genere), ma la Bibbia, tanto è vero che Ezechiele e Giovanni sono espressamente citati come le auctoritates della visione-rappresentazione (là dove il richiamo mitologico ad Argo, che subito precede, non è che mia similitudine esplicativa, puramente funzionale e, in qualche misura, «realistica» rispetto alla struttura compositiva e al messaggio ideologico del testo): «A descriver lor forme più non spargo / rime, lettor, ch'altra spesa mi strigne, / tanto ch'a questa non posso esser Iargo: / ma leggi Ezechiel, che li dipigne / come li vide de la fredda parte / venir con vento e con nube e con igne; / e quali i troverai ne le sue carte / tali eran quivi, salvo ch'a le penne / Giovanni è meco e da lui si diparte».
Le «autorità» sacre della visione allegorica valgono anche a rendere autorevole e autentica (esemplare) la poesia di Dante, che ha, fin dal Paradiso terrestre, necessità di altri modelli da quelli dei poeti antichi, che non poterono fare più che «sognare» in Parnaso l'età dell'oro come allegoria poetica della felicità e dell'innocenza della natura umana. La Commedia si colloca fra Ezechiele e Giovanni, fra l'Antico e il Nuovo Testamento, d'accordo con l'uno e con l'altro in parte, per una specie di commistione fra i testi biblici che viene a collocare il testo dantesco come una terza auctoritas e, al tempo stesso, come un'interpretazione autorevole delle visioni cli Ezechiele e di Giovanni. La gara della poesia di Dante, nel momento su-premo della rappresentazione allegorica, è con i testi sacri: nella loro diversità, la dichiarazione dantesca viene a fornire un'indicazione dirimente. «Divina» in questo senso è, allora, davvero la Commedia: ma senza attentare al carattere ispirato della Bibbia, nel senso che si colloca come chiosa autentica che risolve le apparenti diversità o contraddizioni di Ezechiele e di Giovanni. Inutile è soffermarsi tanto sulla descrizione dei «quattro animali», in quanto già Ezechiele (un autore ispirato, quindi un'autorità garantita da Dio stesso) li ha già esaurientemente descritti: ciò che importa, invece, è indicare la maggiore vicinanza, nei particolari delle ali, della visione allegorica di Dante con quella dell'Apocalissi, perché su questo elemento si appunta la novità della Commedia, quella capace di risolvere le diversità fra Antico e Nuovo Testamento a favore di quest'ultimo, in quanto, anche nel particolare figurativo e allegorico, più preciso dell'Antico, onde della sua più sicura e integrante verità l'opera dantesca partecipa.
La rappresentazione allegorica della storia universale e, insieme, della vicenda di peccato e salvezza, di alleanza e di distacco, di aiuto soprannaturale e di generosità divina nei confronti dell'umanità precede, naturalmente, la rappresentazione allegorica della storia individuale, omologa tuttavia in ogni suo aspetto e modo di quella universale che, appunto come modello, si propone per prima. C'è un'estrema e sottolineata lentezza nello svolgersi della rappresentazione stessa, tutti i particolari essendo, nel sistema allegorico, significativi; ma tale lentezza del movimento della rappresentazione, sia nella parte in cui si propone come una ieratica processione, sia nella parte in cui appare come un'azione vera e propria, che comporta trasfigurazioni e metamorfosi anche traumatiche degli elementi che la costituiscono e dei personaggi che vi partecipano, viene a definire più precisamente il carattere di figurazione sacra (di sacra rappresentazione) che ha tutto ciò che si presenta agli occhi di Dante, ma anche un di più di intenzionalità pedagogica ed esemplare, onde ogni elemento particolare si imprima esattamente, e ne possa essere data puntuale descrizione, Mentre il viaggio di Dante si arresta, il diverso e allegorico viaggio dell'umanità nella prospettiva di Dio si sviluppa di fronte a lui, scandendosi con una cura estrema nel precisare ogni elemento o aspetto particolare, nell'ambito di un'allegoria che ha senso, in rapporto con i modelli biblici, proprio in quanto fornisce partitamente e minuziosamente, con un'analiticità insistita, l'autentica e compiuta interpretazione figurativa del messaggio storico-religioso e del progetto generale di storia dell'umanità dal punto di vista di Dio. Dante punta alla completezza dei dati, tale da integrare ed eventualmente correggere ciò che nei testi biblici appare diviso o ripetuto in forme diverse: è, appunto, un'interpretazione, un'esegesi al tempo stesso di Ezechiele e dell'Apocalissi e della storia dell'umanità, nonché delle manifestazioni di Dio e della Sua grazia e dei Suoi doni lungo tale storia.
Si comprende in questa prospettiva il procedimento di progressivo avvicinamento all'esattezza che è legato alle descrizioni dantesche della rappresentazione allegorica, fin dall'inizio: «Ed ecco un lustro subito trascorse / da tutte parti per la gran foresta, / tal che di balenar mi mise in forse. / Ma perché 'l balenar, come vien, resta, / e quel, durando, più e più splendeva, / nel mio pensar dicea: 'Che cosa è questa?' / E una melodia dolce correva / per l'aere luminoso ... / ... / Mentr'io m'andava tra tante primizie / de l'eterno piacer tutto sospeso / e disioso ancora a più letizie, / dinanzi a noi tal quale un foco acceso / ci si fé l'aere sotto i verdi rami, / e 'l suon per dolce canto era già inteso. / Poco più oltre, sette alberi d'oro / falsava nel parere il lungo tratto / del mezzo ch'era ancor tra noi e loro; / ma quand'io fui si presso di lor fatto / che l'obietto comun, che 'l senso inganna, / non perdea per distanza alcun suo atto, / la virtù ch'a ragion discorso ammanna / si com'elli eran candelabri apprese, / e ne le voci del cantare 'Osanna'».
Poiché è l'inizio di tutta la rappresentazione allegorica, la lentezza della presentazione è molto maggiore: luce e canto, che sono gli elementi allegorici della perfezione e della bellezza del divino in quanto rappresentano il culmine della sublimazione delle cose della terra, e possono, quindi, divenire il metalinguaggio di una rappresentazione del divino stesso che è sempre per approssimazione. Ecco: anche questo aspetto va considerato nella lettura della rappresentazione allegorica del Paradiso terrestre. Ci troviamo, cioè, di fronte alla necessità che ha Dante (e l'invocazione alle Muse va letta anche in questa prospettiva, che è poi quella del cambiamento di modelli poetici, da Virgilio a Ezechiele e Giovanni, dall'Eneide alla Bibbia) di tradurre in termini adeguati una visione che deve cercarsi un linguaggio d'eccezione per il carattere eccezionalmente rivelativo ed esplicativo che essa ha: e allora luce e canto che a poco a poco si precisano nei sette candelabri e nell'Osanna vengono a essere anche le prefazioni di un modo nuovo di usare il linguaggio e la poesia, dove il vedere è «visione» ovvero apparizione ed è rivelazione assoluta, e non sigla soltanto le tappe di un viaggio e gli incontri che lo scandiscono nell'ambito di un sempre esemplare, ma più comune vedere. Siamo al di là dell'inganno dei sensi, entro una verità di visione che si imprime a poco a poco, lentamente, proprio per farsi più certa in ciò che la costituisce agli occhi di chi ne è lo spettatore, prescelto per assistere all'intera storia dell'umanità compendiata per lui nello spazio deputato del Paradiso terrestre; e la deprecazione di Eva, che, come l'invocazione alle Muse, è premessa al precisarsi e al chiarirsi del primo elemento della rappresentazione allegorica, in funzione di questa e del metalinguaggio di cui Dante deve servirsi per raffigurarla a causa dello stato degradato, di indebolita capacità intellettuale, dell'umanità dopo la caduta, vale a dare ragione della lentezza con cui tutta la rappresentazione si chiarisce alla comprensione di Dante e anche di tutti i «veli» con cui l'essenza profonda della vita dell'uomo e della storia dell'umanità si cela per offrire a Dante l'interpretazione autentica di sé. Quei «veli», invece, Eva «non sofferse», giungendo cosi non alla conoscenza, quanto alla perdita del bene, ed è una perdita che è ridondata su tutti gli uomini, quindi anche su Dante: che avrà bisogno, di conseguenza, nella rappresentazione allegorica della sua vicenda individuale come figura della vicenda di ciascun uomo, dell'intervento di Beatrice come anti-Eva per uscire dalla colpa discesa da quella di Eva (e colpa di conoscenza indebita, quale è allegorizzata nella «donna gentile» o, comunque, nelle «imagini di ben ... false», che, appunto, a differenza della conoscenza autentica di sé, della propria storia personale, della storia universale dell'umanità, quale Dante riceve nel Paradiso terrestre, «nulla promission rendono intera», come ben sa Eva), e, dalla coscienza acquisita del senso vero della vicenda di ciascun uomo e dell'umanità intera, potrà essere fatto «puro e disposto a salire a le stelle».
La processione che lentissimamente si muove davanti a Dante come all'unico spettatore utilizza ampiamente la Bibbia e soprattutto l'Apocalissi come repertorio di immagini, in rapporto con i nuovi modelli espressamente citati da Dante stesso in Ezechiele e in Giovanni: l’Apocalissi, appunto, in quanto interpretazione e rivelazione delle cose ultime e, al tempo stesso, dell'intera storia dell'umanità, ma anche dell' Apocalissi stessa chiosa ed esplicazione e presentazione ripetuta in termini che intendono darne una «traduzione» illustrativa. Ma I' Apocalissi sarà pure da indicare come modello in due funzioni complementari rispetto al progetto poetico e ideologico di Dante, nel senso, eroe, del tempo di crisi e di degradazione estrema che Dante ritiene di vivere, quindi dell'attesa di un'inevitabile mutazione di tendenza ovvero di un necessario risarcimento della corruzione della Chiesa, come appare dalla rappresentazione delle vicende allegoriche a cui sottostà il carro, nel senso di una necessità urgente di recuperare, ai fini della resistenza della fede, uno strumento di interpretazione dell'intera storia dell'umanità, da riapplicare autorevolmente, per la condizione stessa del Paradiso terrestre quale spazio della rivelazione esemplare e della ripetizione rituale dei fatti fondamentali della storia umana non in quanto eventi determinati e realistici, ma in quanto sistema di significati assoluti, alle vicende contemporanee di persecuzione e di corruzione della Chiesa da un lato, con lo schiaffo di Anagni, la cattività avignonese, ecc., e di prevaricazione delle potenze terrene l'una sull'altra e contro la Chiesa stessa, in una vicenda di disequilibrio e di confusione di poteri e delle funzioni fra il regno di Francia e l'Impero: secondo un intento che è, insieme, compensativo, dal punto di vista escatologico, del disordine e della degradazione della realtà ecclesiale e politica, e inteso a fornire un conforto profetico - nel senso della profezia come interpretazione autenticata della storia e di ciò che in essa accade - per le contraddizioni- e le degradazioni del passato come del presente.
La parte più significativa della visione della processione allegorica si apre con l'invocazione dei ««ventiquattro seniori»: «Benedicta tue / ne le figlie d'Adamo, e benedette / sieno in eterno le bellezze tue!». Maria appare, cioè, in funzione primaria di anti-Eva nella struttura dell'episodio, in quanto i beni del Paradiso terrestre sono rivendicati e concessi a Dante per opera della redenzione che passa attraverso Maria, cosi come Eva era stata deprecata, alla prima apparizione dei candelabri d'oro, come colei che aveva sottratto a Dante le «ineffabili delizie» dell'Eden (e le bellezze benedette di Mana sono omologhe delle ineffabili dolcezze che Eva ha sottratto agli uomini). Non credo che tutto il sistema allegorico descritto nel Paradiso terrestre possa essere esattamente valutato, se non se ne comprende il carattere di rappresentazione, non di visione. La visione è già avvenuta, ed è stata quella di Ezechiele e quella, complementare e correttiva, come sempre accade nel Nuovo Testamento rispetto al Vecchio, di Giovanni. Ciò che importa a Dante è di raffigurare la ritualità della ripetizione della visione in funzione dell'interpretazione di essa nel tempo diverso di cui partecipa Dante. La rappresentazione dei ventiquattro seniori, dei «quattro animali / coronati ciascun di verde fronda» con le sei ali, del carro trionfale, del grifone-Cristo, delle tre e quattro donne, dei «due vecchi in abiti dispàri», dei «quattro in umile paruta», del «vegliò solo» che viene «dormendo con la faccia arguta», si svolge come compendio figurato dell'intera storia e realtà religiosa del cristianesimo: riassunto di fede, quindi, sistematico nell'ordine e nell'incastro dei particolari, in rapporto con un'idea tomista della dottrina cristiana come sistema di dogmi e di verità. Il sistema della fede è, però, incarnato in persone, abiti, colori, luci, aspetti, forme: al di là di ogni realisticità verosimiglianza, naturalmente, anzi concentrando e tendendo al massimo la contraddizione fra l'oggetto della fede e la razionalità, proprio nel momento, del resto, in cui Virgilio, significativamente, abbandona Dante e Beatrice diventa la guida del poeta. Gli Atti degli Apostoli ovvero le Lettere di san Paolo e le altre Epistole di Pietro, Giovanni, Giacomo e Giuda, l'Apocalissi si incarnano nelle figure che procedono nella lentissima processione che deve offrire al «lettore» Dante, conscio dei testi sacri che autorizzano i moduli figurativi dei vari personaggi della processione stessa, il canone della fede cristiana, che sarà la via perché poi possa essere compresa la vera e propria rappresentazione come interpretazione della storia dell'umanità e della propria, di Dante, personale storia.
Ogni criterio di convenienza viene meno, dico di convenienza verosimile, realistica, ovvero di «decoro»: siamo in una situazione allegorica proprio perché siamo nell'ambito di una «profezia» come «rivelazione», dove i singoli elementi e termini sono in funzione del significato e del sistema ermeneutico in cui sono inseriti, mentre il significante risulta totalmente svuotato di autonomia, tutto in funzione com'è della «verità» di cui è la pura manifestazione sensibile (del resto, secondo una concezione biblica del «profeta» e dell'«eletto», che è tutto riempito di Dio, fino a perdere totalmente la propria personalità, idea che ha sviluppi e riferimenti anche nell'ambito della mistica medievale). Il veglio che viene «dormendo con la faccia arguta», cosi come tanti altri elementi e particolari della processione, e la stessa raffigurazione di Cristo nella forma del grifone («Esso tendeva in su l'una e l'altra ale / tra la mezzana e le tre e tre liste, / si ch'a nulla, fendendo, facea male, / Tanto salivan che non eran viste; / le membra d'oro avea quant'era uccello, / e bianche l'altre, di vermiglio miste») sono al di là, in quanto rappresentazioni sensibili delle verità della fede, dalla misura della realtà puramente razionale e fenomenica: sono la forma della verità, che non può manifestarsi agli uomini (quindi, neppure a Dante) che assumendo abiti e figure che siano attingibili. dai sensi i quali sono il necessario e indispensabile tramite per la comprensione della ragione, secondo la significativa precisione con cui il processo conoscitivo delle immagini e delle prime figure della processione avviene: «Poco più oltre, sette alberi d'oro / falsava nel parere il lungo tratto / del mezzo ch'era ancor tra noi e loro; / ma quand'io fui si presso di lor fatto / che l'obietto comun, che ‘l senso inganna / non perdea per distanza alcun suo atto, / la virtù ch’a ragion discorso ammanna / si com'elli eran candelabri apprese, / e ne le voci del cantare 'Osanna'».
La lentezza stessa con cui si sviluppa la processione è in funzione della lettura che Dante ne fa, con gli ostacoli e le difficoltà. degli strumenti umani di conoscenza di fronte alle nozioni della fede. Le figurazioni appaiono difformi e contraddittorie rispetto al senso comune per precisa autorizzazione non soltanto di Ezechiele e di Giovanni, ma anche per rispondenza alla follia paolina della fede, se rapportata al «mondo». La coerenza e la convenienza delle raffigurazioni dei personaggi della processione, come, in seguito, le varie vicende della rappresentazione riassuntiva della storia dell'umanità e, dopo ancora, il dramma allegorico del pentimento, della confessione e della liberazione dalla colpa, quale recitano Beatrice e Dante, sono interamente nel sistema dei significati che le raffigurazioni sceneggiano e rendono sensibili, in più dando a tutto ciò che si vede e appare la sigla della verità e dell'assoluta autenticità (attraverso la citazione diretta dei testi sacri, ma, in quanto profetici, cioè essi stessi cifrati allegoricamente, passibili di reinterpretazione e di illustrazione attraverso la ripetizione della sostanza della visione, ma integrata, esplicata, rifigurata in funzione del rinnovamento del messaggio profetico che essa contiene, e che è divino in quanto applicabile secondo verità a ogni punto e momento della storia dell'umanità e alla storia individuale di ogni uomo). Nell'allegoria dantesca il sistema dei significati sostituisce interamente la coerenza e la natura stessa dei significanti, onde la stessa logica della verosimiglianza viene portata a non valere assolutamente più, e le varie figure vengono a comporsi secondo tutto ll1: sistema di intenzioni seconde che costituisce interamente il senso dei singoli elementi che le compongono e può, in più, chiarirsi attraverso l'assunzione di particolari di origine (naturalisticamente e concettualmente intesa) anche opposta. Biblicamente, l’allegoria viene a essere un significato autentico che si fa sensibile attraverso l'assunzione degli elementi che la configurano dopo che questi sono stati svuotati. di ogni senso proprio e specifico: nella processione, infatti, del Paradiso terrestre non c'è proprio nulla di storico, di reale, di appartenere allo spazio della comune esperienza, in quanto è un'estrinsecazione di verità assoluta, di sensi divini, che si fanno sensibili attraverso forme non sostitutive della loro sublimità, ma riempite di essa, con tutte le conseguenze di enigmaticità, di complessità di indicazioni e di intenzioni, di sistematicità ermeneutica a riguardo della dottrina e della storia della redenzione, in questa prospettiva costituendo una nuova «apocalissi», cioè una nuova rivelazione che del linguaggio giovanneo si serve come dello strumento più adatto, in quanto partecipato, al tempo stesso, da Dante e dai suoi lettori per omologia di cultura. Quando l'allegoria investe, invece, l'interpretazione della storia dell'umanità in quanto storia politica, allora gli strumenti figurativi subiscono un mutamento: «'Qui sarai tu poco tempo silvano; / e sarai meco sanza fine cive / di quella Roma onde Cristo è romano. / Però, in pro del mondo che malvive, / al carro tieni or gli occhi, e quel che vedi, / ritornato di là, fà che tu scrive'. / Così Beatrice: e io, che tutto ai piedi / de' suoi comandamenti era divoro, / la mente e gli occhi ov'ella volle diedi. / Non scese mai con si veloce moto / foco di spessa nube, quando piove / da quel confine che più va remoto / com'io vidi calar I'uccel di Giove / per l'alber giù, rompendo de la scorza, / non che de' fiori e de le foglie nove; / e ferì il carro di tutta sua forza, / ond'el piegò come nave in fortuna, / vinta da l'onda, or da poggia or da orza. / Poscia vidi avventarsi ne la cuna / del triunfal veiculo una volpe, / che d'ogni pasto buon parea digiuna; / ma riprendendo lei di laide colpe, / la donna mia la volse in tanta futa / quanto sofferser l'ossa sanza polpe. / Poscia, per indi ond'era pria venuta, / l'aquila vidi scender giu ne l'arca / del carro e lasciar lei di sé pennuta; / e qual esce di cor che si rammarca, / tal voce usci del cielo, e cotal disse: / 'O navicella mia, com mal sei carca!'. / Poi parve a me che la terra s'aprisse/ tr'ambo le ruote," e vidi uscirne un drago / che per lo carro su la coda fisse; / e, come vespa che ritragge l'ago, / a sé traendo la coda maligna, / trasse del fondo, e gissen vago vago. / Quel che rimase, come da gramigna / vivace terra, da la piuma, offerta/ forse con intenzion sana e benigna, / si ricoperse, e funne ricoperta / e l'una e l'altra rota e 'l temo, in tanto / che più tiene un sospir la bocca aperta». Con l'uguale uso dei termini figurativi indipendentemente dalla logica della verosimiglianza realistica e, invece, ordinato all'intrinseca necessità del messaggio allegorico, si ricapitola l'intera storia della Chiesa, cosi come prima, nella conclusione della processione con il grifone-Cristo che giunge a «una pianta dispogliata / di foglie e d'altra fronda in ciascun ramo» e vi lega il carro e l'albero mette foglie e fiori, si era configurato il rinnovamento dell'uomo caduto in Adamo a opera del sacrificio di Gesù e la reintegrazione, per mezzo della dottrina della Croce, della natura offesa dalla colpa d'origine intesa come tentativo di raggiungere una conoscenza indebita e vietata.
Si noti l'insistere di Dante sui termini del «vedere», che sottolinea a il carattere di rappresentazione esemplare che tutta la varia e complessa vicenda di metamorfosi e di violenze subita dal carro ha; e, parallelamente, l'insistenza sugli avverbi di tempo, che designano il percorso progressivo e precisamente significato di una storia, della storia, appunto, della Chiesa che è anche la storia politica, oltre che religiosa, del mondo, in quanto vicenda del rapporto della Chiesa stessa con i poteri politici, e soprattutto con l'interlocutore privilegiato della Chiesa nell'ambito della storia dell'umanità, che è l'impero.
È un'esplicazione grandiosa del senso della storia, sul modello; allora, non soltanto dell'Apocalissi, ma anche dell'agostiniano De civitate Dei o delle Historiae di Paolo Orosio. L'allegoria è soprattutto rivelazione, perché essa, assumendo i termini di una rappresentazione allegorica già consacrata dalla sacralità ispirata del testo giovanneo, in questo modo viene ad autorizzarsi indubitabilmente, rivelandosi come vicenda di eventi giudicata dal punto di vista di Dio, nella prospettiva di una dimensione escatologica nella quale errori e colpe e vittorie e persecuzioni e corruzione hanno un significato diverso da quello che possa cogliere ogni analisi di carattere immanentemente storico o politico. L'allegoria è il segno dell'autorità della linea e dell'interpretazione della storia della Chiesa che viene rappresentata nella forma accentuatamente visiva di uno spettacolo che deve colpire anche per la straordinarietà degli elementi di cui si compone e secondo cui si scandisce. È una rappresentazione che compendia nell'enorme insignificanza realistica degli elementi di cui è costituita e nell'enorme significanza delle figure allegoriche che via via prendono movimento e vita e azione e vicenda davanti allo spettatore Dante (e, attraverso lui, a tutti i lettori a cui espressamente la rappresentazione è indirizzata, come dice Beatrice all'inizio della fase «storica» dell'allegoria) tutta una serie di figure allegoriche che vengono via via riassunte e reinterpretate in funzione del progetto di interpretazione totale della storia che qui si esprime: l'uccel di Giove, la volpe, il drago. Sono elementi che, singolarmente, già si sono incontrati o ancora si incontreranno nella Commedia: a cominciare dal primo canto, dalla volpe del prologo del poema. Ma ciascuna allegoria ha una sistematicità di significati diversa, in rapporto con il fatto che ciascun elemento non ha rilevanza e senso una volta per tutte, non ha più alcun valore autonomo, ma ogni volta assume significato a seconda del rapporto con gli altri elementi contigui dell'allegoria e in relazione con il progetto complessivo, onde la volpe « morale » del primo canto del poema può avere significato etico nel sistema della storia morale e ideologica di Dante, là dove ha senso storico-teologico nella rappresentazione del Paradiso terrestre, in conseguenza del fatto che non è altro che un segno di negatività, che via via si può riempire di applicazioni e di significati diversi, avendo perso ogni concreto e definito contenuto semantico per acquisire la possibilità di entrare, invece, in diversi sistemi allegorici diversamente rivestendo interpretazioni, intenzioni, concetti.
Dopo che Dante ha assistito alla raffigurazione spettacolare dell'allegoria della storia della Chiesa, ecco che l'ultima parte della rappresentazione è dedicata a fissare in termini d'interpretazione assoluta la storia presente: «Trasformato cosi, il dificio santo / mise fuor teste per le parti sue, / tre sovra 'I temo e una in ciascun canto. / Le prime eran cornute come bue, / ma le quattro un sol corno avean per fronte: / simile mostro visto ancor non fue. / Sicura quasi rocca in alto monte, / seder sovr'esso una puttana sciolta / m'apparve, con le ciglia intorno pronte. / E come perché non li fosse tolta, / vidi di costa a lei dritto un gigante; / e baciavansi insieme alcuna volta. / Ma perché l'occhio cupido e vagante / a me rivolse, quel feroce drudo / la flagellò dal capo infin le piante. / Poi, di sospetto pieno e d'ira crudo, / disciolse il mostro e trasse! per la selva, / tanto che sol di lei mi fece scudo / a la puttana ed a la nuova belva». Ciò che Dante vuole significare è l'interpretazione autentica della storia recente della Chiesa e dell'Europa: la corruzione della Chiesa, la degradazione politica della curia romana, che accetta di farsi («puttana» del re di Francia, e anche di cedergli il dominio del «carro» in una selva che è di colpe e di peccati (e che è il segno allegorico della cattività avignonese); e anche lo « schiaffo di Anagni » che si traduce nell'allegoria della flagellazione « del capo infin le piante » della « puttana », in seguito al rivolgersi di lei verso Dante ( che è allusione che, molto probabilmente, coinvolge l'esperienza biografica della missione romana con l'allegoria dell'ultimo tentativo opposto alla sudditanza al re di Francia a opera di Bonifacio VIII).
Con gli elementi figurativi autorizzati dall'Apocalissi (ma, naturalmente, spostati non soltanto quanto ad applicazione a eventi della storia, bensì anche quanto a significato, come nel caso del mostro con sette teste e dieci corna) Dante intende avvalorare l'interpretazione, che è qui sceneggiata, della storia più recente, anzi degli eventi contemporanei, nei quali Dante stesso è implicato. In questo modo si compie una doppia ermeneutica: quella della situazione storica del tempo di Dante, che può essere rappresentata nelle stesse forme allegoriche con cui l'Apocalissi ha «rivelato» il senso della storia a esse contemporanea dei primi tempi del cristianesimo in quanto ripetizione di una vicenda di oppressioni, di prevaricazioni, di persecuzioni, di violenze; e quella dell'Apocalissi, in quanto rilettura attualizzata del testo giovanneo, che è indicato come valido e rivelativo anche nel tempo, lungo i secoli, fino al momento in cui la nuova Babilonia si è incarnata nella storia.
La terza parte della rappresentazione allegorica della storia è nelle parole di Beatrice: non più, ormai, spettacolo agli occhi di Dante (e dei lettori), bensì esplicazione assolutamente autorevole del significato futuro della rappresentazione ripetuta una seconda volta per Dante, cosi come una volta era stato dato a Giovanni di contemplarla e di narrarla nell'Apocalissi ( e, del resto, è significativo il fatto che l'Apocalissi sia raffigurata, nella processione, come «un veglio solo» che si avanza «dormendo con la faccia arguta», e che il sonno sia preludio, per Dante, della vista della rappresentazione più direttamente significativa della storia contemporanea e degli sviluppi futuri che essa deve avere): «Sappi che 'I vaso che 'l serpente ruppe/ fu e non è, ma chi n'ha colpa creda / che vendetta di Dio non teme suppe. / Non sarà tutto tempo sanza reda / l'aquila che lasciò le penne al carro, / per che divenne mostro e poscia preda; / ch'io veggio certamente, e però il narro, / a darne tempo già stelle propinque, / secure d'ogni intoppo e d'ogni sbarro, / nel quale un cinquecento diece e cinque, / messo di Dio, anciderà la foia / con quel gigante che con lei delinque. / E forse che la mia narrazion, buia / qual Temi o Sfinge, men ti persuade, / perchè a lor modo lo intelletto attuia; / ma tosto fier li fatti le Naiade / che salveranno quest'enigma forte, / sanza danno di pecore e di biade. / Tu nota; e sì come da me son porte, / così queste parole segna ai vivi/ del vivere ch'è un correre alla morte. / E aggi a mente, quando tu le scrivi, / di non celar qual hai vista la pianta / ch'è or due volte dirubata quivi. / Qualunque ruba quella o quella schianta, / con bestemmia di fatto offende a Dio, / che solo a l'uso suo la creò santa. / Per morder quella, in pena ed in disio, / cinquemila anni e più l'anima prima / bramò colui che 'l morso in sé punio. / Dorme lo ingegno tuo se non estima / per singular cagione esser eccelsa / lei tanto, e sì travolta ne la cima. / E se stati non fossero acqua d'Elsa / li pensier vani intorno a la tua mente, / e 'l piacer loro un Piramo a la gelsa, / per tante circumstanzie solamente / la giustizia di Dio ne l'interdetto / conosceresti a l'arbor moralmente. / Ma perch'io veggio te ne l'intelletto / fatto di pietra e, impetrato, tinto, / sì che t'abbaglia il lume del mio detto, / voglio anco, e, se non scritto, almen dipinto! / che 'l te ne porti dentro a te, per quello / che si reca il bordon di palina cinto».
La «rivelazione» profetica della storia dell'umanità nelle sue istituzioni autentiche, civili ed ecclesiastiche, Impero e Chiesa, e nelle loro vicende di progressiva corruzione e degradazione sbocca nella forma allegorica della reintegrazione universale dei Valori. Anche la storia futura viene, quindi, a essere coinvolta nella rappresentazione à cui Dante assiste nelle varie scansioni di cui consta, fino all'ultima, che è interamente affidata alla parola di Beatrice in quanto, appunto, luogo del futuro, che Beatrice può vedere in Dio, ma non Dante, che può soltanto assistere all'interpretazione della storia passata e del presente da un punto di vista assolutamente autenticato, ma che non può discernere e comprendere appieno nella fonte di conoscenza che è Dio guelfo che, invece, Beatrice può contemplare e, quindi, tradurgli in . termini tali che possano restargli nella memoria ed essere poi comunicati agli uomini. La profezia del «cinquecento diece e cinque, / messo da Dio» va legata strettamente alla solenne dichiarazione di Beatrice intorno alla giustizia di Dio e all'albero due volte «dirubato», quindi due volte fatto oggetto di un'offesa che attenta direttamente a Dio: l'oscurità della parola in cui, allegoricamente, si traduce la storia futura nel discorso di Beatrice si deve chiarire attraverso i «fatti», e questi sono in rapporto strettissimo con il carattere della nuova offesa fatta, dopo quella di Adamo, alla pianta del Paradiso terrestre, quella che ha forma assolutamente eccezionale e opposta a quella naturale in quanto allegoria della giustizia imperscrutabile di Dio, a cui gli uomini non possono che rendere l'omaggio dell'accettazione senza tentare di spiegarla e di comprenderla.
Beatrice rievoca il peccato di Adamo, in funzione dell'esplicazione che, da tale evento, può venire alla rivelazione della storia futura che ella ha concesso a Dante: anche perché a Dante, che non vede e non può leggere la profezia in Dio, non può che restare una traccia, non di più, di quello che la profezia stessa intende annunciare. In questa prospettiva, come per la reintegrazione dell'umanità è stata necessaria l'incarnazione del Verbo, così anche per l'uccisione del gigante e della puttana (uccisione, appunto, non conversione o riforma) deve essere necessario un nuovo intervento diretto di Cristo. Ogni interpretazione di carattere «storico», cioè ogni attribuzione del «cinquecento diece e cinque » a personaggi che rientrino nei termini dell'esperienza della pura storia umana, di imperatori o di papi si tratti o di altri più o meno identificabili personaggi del mondo contemporaneo a Dante, è completamente priva di senso: l'allegoria è tanto oscura e tanto sottolineatamente enigmatica, in quanto si tratta della distruzione non soltanto del «gigante» che «delinque» con «la foia», ma della «foia» stessa, cioè della Chiesa come istituzione politica e mondana, in quanto tale corruttibile e degradata.
In questo senso l'allegoria di Dante si ripropone quale lettura e interpretazione rinnovata dell'Apocalissi come autentico e fondamentale modello di tutti questi ultimi canti del Purgatorio: è la nuova venuta di Cristo a siglare la storia dell'umanità e delle sue due istituzioni fondamentali, la Chiesa e l'Impero, degradatesi e corrottesi nel tempo. La chiesa «fu e non è», «sanza reda» è l'aquila: le due affermazioni vengono a coincidere come dichiarazione della degradazione delle due istituzioni che Dio ha dato agli uomini per la loro felicità terrena ed escatologica. La rivelazione di Beatrice è intorno ai misteri più profondi della: giustizia di Dio, ne è una traccia, secondo quanto può comportare la mente di Dante, «impetrata» e «tinta» da concezioni erronee, che non valgono assolutamente a capire la verità dell'albero e della doppia offesa di cui è stato oggetto durante la stona dell'umanità, tanto è vero che, chiedendo Dante il perché di forme tanto oscure per manifestare il messaggio sulla futura reintegrazione dell'albero stesso e della storia umana, Beatrice risponde: «Perché conoschi... quella scola / c'hai seguitata, e veggi sua dottrina / come può seguitar la mia parola; / e veggi vostra via da la divina / distar cotanto, quanto si discorda / da terra il ciel che più alto festina». Cioè, il segreto della giustizia di Dio, che la teologia può in qualche modo segnare nell'intelletto del privilegiato Dante, a cui è stato concesso di ripercorrere il viaggio di Enea, di Paolo, di Cristo, è celato alla filosofia puramente umana, alla ragione laica, ma è anche celato alla previsione politica e a ogni «via» che non sia quella di Cristo. Le figure, allora, in cui si concreta l'allegoria della storia dell'umanità nel risvolto della fede autentica di Cristo e in quello delle istituzioni che le sono state date per condursi verso la salvezza, motivatamente sono oscure: sono il linguaggio stesso di Dio, illustrato da quel discorso di Dio che è la teologia, e ciò che esse significano non può essere appieno inteso da chi segue il linguaggio puramente umano della ragione (e della poesia), né può in tale linguaggio mondano essere tradotto se non come impressione ovvero traccia, che faccia da un lato intendere quella che deve essere la vera interpretazione degli eventi passati e presenti e consacrare la condanna della curia romana e del regno di Francia come artefici della suprema degradazione e corruzione della realtà religiosa e politica (strettissimamente legate l'una all'altra), e che, dall'altro lato, valga a offrire, proprio in quello che appare essere il culmine della corruzione (con il carro della Chiesa, già interamente occupato dalle penne dell'aquila imperiale, che viene trascinato nella selva dell'onta e del peccato), l'immagine, sì inattingibile nel suo senso preciso, ma confortatoria tuttavia e capace di indicare il futuro di riscatto e di reintegrazione, della «vendetta di Dio».
Le profezie di Beatrice hanno sempre questo carattere di conforto per un presente di corruzione e di degradazione, soprattutto della Chiesa che è l'istituzione fondamentale nel mondo del cristiano Dante (tanto è vero che con parole non molto dissimili da quelle pronunciate qui Beatrice si congeda da Dante al culmine del Paradiso). È la grande compensazione cristiana del male del mondo visto dal punto di vista di Dio: l'allegoria non è, allora, che il necessario linguaggio di tale compensazione, nel senso che la sua oscurità, le sue figure araldiche e moralizzate, le sue composizioni complesse ed enigmatiche, valgono anche come forme del linguaggio di Dio nell'attimo in cui offre l'immagine del riscatto delle istituzioni in mezzo alla corruzione, quella della consolazione e della salvezza nel cuore delle persecuzioni e delle violenze, quella dell'autenticità della fede fra le confusioni e i contrasti e le discussioni dei filosofi, quella del vero senso degli eventi nel mezzo delle incertezze, dei dubbi, del1e ambiguità degli accadimenti e delle parole d'ordine.
È una forma linguistica assolutamente necessaria: l'altra faccia, vera, di ciò che appare, la lezione suprema, avvalorata dalle omologie con i testi sacri di Ezechiele e Giovanni, di fronte a cui le lezioni dei poeti sono infinitamente inadeguate: sogno dell'età dell'oro da parte dei poeti antichi di fronte al .Paradiso terrestre o «mentre ingombra» di coloro che si fecero pallidi sotto l'ombra di Parnaso o bevvero delle acque del monte sacro alla poesia («O isplendor di viva luce eterna, / chi palido si fece sotto l'ombra / si di Parnaso o bevve in sua cisterna, / che non paresse aver la mente ingombra / tentando a render te qual tu paresti, / là dove armonizzando il ciel t'adombra, / quando ne l'aere aperto ti solvesti? »). Non c'è altro linguaggio per compensare, rivelandone modi, ragioni, conseguenze, la corruzione della storia, né altre forme per annunciare l'inevitabile intervento di Dio per correggerla. Ritualmente si ripete nello spazio deputato del Paradiso terrestre la «rappresentazione» dell'Apocalissi: i tempi di Dante sono omologhi di quelli del testo giovanneo e, al tempo stesso, dei tempi ultimi di persecuzione, di distruzione, di morte, a fronte dei quali l'allegoria della processione e della storia rivelata nella sua significazione autentica vale come indicazione della fiducia nel resistere della fede e delle istituzioni come valori in Dio e nella sua giustizia.
L'altra parte dell'allegoria degli ultimi canti del Purgatorio esprime la rivelazione della verità della storia individuale di Dante, interpretata come exemplum della vicenda di ciascun uomo di fede nell'infanzia, di allontanamento successivo per seguire «imagini di ben... false», di riscatto nel pentimento e nella confessione del peccato. Ogni lettura della scena dell'incontro di Dante e Beatrice e degli atteggiamenti che via via sono assunti dai due protagonisti deve tenere anzitutto conto del significato che essa ha di momento (fondamentale) all'interno della complessiva rappresentazione allegorica dell'intera storia dell'umanità nei due aspetti della vicenda di caduta e riscatto e del susseguirsi degli eventi mondani nell'ottica delle istituzioni significative e istituite da Dio per la vita terrena degli uomini. I riferimenti alla Vita Nuova e gli elementi autobiografici, di quella straordinaria autobiografia che è il libello giovanile, che è allegoria di una storia poetica e di una visione salvifica, non fanno altro che riproporre il carattere di rivelazione che l'operetta giovanile ha nei confronti di Beatrice come ipostasi di Dio, cioè valgono soltanto in funzione di quel di più di precisazioni che, nel Purgatorio, possono essere date sulla vera natura di Beatrice, per le rivelazioni che, nella dimensione escatologica, si possono avere di lei e che si traducono in termini di allegoria adeguata alla processione che incarna i principi della fede cristiana in termini visivi: «Quali i beati al novissimo bando / surgeran presti ognun di sua caverna, / la revestita voce alleluiando, / cotali in su la divina basterna / si levar cento, ad vocero tanti senis, / ministri e messaggier di vita eterna. / Tutti diceano: Benedictus qui venis!' / e, fior gittando di sopra e dintorno, 'Manibus, oh, date lilia plenis' / Io vidi già nel cominciar del giorno / la parte orienta} tutta rosata / e l'altro ciel di bel sereno adorno: / e la faccia del sol nascere ombrata, / sì che, per temperanza d1 vapori, / l'occhio la sostenea lunga fiata: / così, dentro una nuvola di fiori / che da le mani angeliche saliva / e ricadeva in giù, dentro e di fuori, / sovra candido vel cinta d'oliva / donna m'apparve, sotto verde manto / vestita di color di fiamma viva».
I colori di cui è vestita Beatrice interpretano quelli delle apparizione della Vita Nuova: il libretto è avvalorato dall'esperienza autentica della visione e della rappresentazione del Paradiso terrestre, ma con uno spostamento decisivo, perché la ripresa dei termini dell’esperienza della giovinezza è esclusivamente in funzione della raffigurazione allegorica della vicenda tipica di ogni uomo, e soltanto nel riconoscimento delle colpe e nella confessione della fede e della verità può trovare il compimento della vera salvezza (quella che la Beatrice della Vita Nuova portava con sé, ma che era visibile soltanto per speculum in aenigmate, tanto da potersi avere l'allontanamento successivo alla morte della donna, e il traviamento, e il seguire le false immagini di bene). Il nome di Dante «di necessità qui si registra» anche nel senso che ai troviamo di fronte a un exemplum che solo per accidens riguarda l'autore del poema che si dispiega davanti al lettore, ma che va letto al di là dell'indicazione personale e privata, nel suo valore di allegoria di ogni storia umana di salvezza dopo il disviamento del peccato. Il fatto che gli angeli pronuncino, insieme col saluto della folla a Cesti all'ingresso in Gerusalemme, anche l'emistichio virgiliano, che tanto ha dato a pensare e biasimare d'inconvenienza ai commentatori, non significa altro che il carattere totale della rappresentazione allegorie: per Beatrice vale il saluto del popolo di Gerusalemme a Cristo, e in questo si conferma il valore di ipostasi del divino che è Beatrice già nella Vita Nuova, che va allora richiamata proprio per tale significato, e non già per un avvaloramento dell'autobiografia, ma vale anche il saluto virgiliano, cioè essa è compendio di ogni tipo di discorso, si tratti di quello sacro oppure di quello della poesia profana, della quale, in ogni caso, più non c'è bisogno, e l'abbandono di Dante da parte di Virgilio ha anche questo senso, da vedersi in rapporto con il mutamento dei modelli poetici per una realtà che non può che essere sconosciuta ( quindi, inattingibile) alla poesia pagana, quale è l'allegoria della storia universale dell'umanità o della storia particolare di ogni uomo. Beatrice compendia in sé la realtà sacra e 'quella profana, e quest'ultima interpreta autenticamente come ombra o traccia o allusione di quella, che essa incarna.
La lettura della Vita Nuova che viene allora compiuta in questi canti è, allo stesso modo, una lettura autentica, che vede nel libello giovanile un preannuncio ovvero un'allegoria ancora inconclusa e imprecisa di quella vicenda di chiamata divina, di fruizione del divino, di perdita e di conseguente sviamento fino al ritorno conclusivo a opera della «mirabile visione», che «realmente» si compie e si chiarisce definitivamente nel Paradiso terrestre, ripetendosi ma in forma esemplare, come esplicazione evidente e autorizzata ovvero «rivelazione» del passato (individuale), rappresentazione del rito di confessione e dolore del peccato e del conseguente perdono, disvelato anche del futuro inviduale (che è, poi, quello di Dante, ma altresì quello di ogni uomo che abbia attraversato l'esperienza della vocazione alla grazia, della colpa, della contrizione del peccato, del perdono). Nel Paradiso terrestre è data a Dante l'interpretazione del suo passato come exemplum della vicenda individuale di ogni uomo: cioè, la rivelazione dell'allegoricità di quel passato rispetto, appunto, a tale sorte individuale, e l'allegoricità, quindi, della presente rappresentazione del rito della confessione, della contrizione e del perdono, che riguarda, appunto, ciascun uomo attraverso il caso esemplare di Dante: «E lo spirito mio, che già cotanto / tempo era stato ch'a la sua presenza / non era di stupor tremando affranto, / sanza de gli occhi aver più conoscenza, / per occulta virtù che da lei mosse, / d'antico amor senti la gran potenza. / Tosto che ne la vista mi percosse / l'alta virtù che già m'avea trafitto / prima ch'io fuor di puerizia fosse...». Non stupisce più lo straordinario effetto di Beatrice su Dante, quale è descritto nella Vita Nuova: L'essere «di stupor tremando affranto» risponde pienamente all'epifania di Beatrice nel Paradiso terrestre, alla conclusione del corteo e «l'alta virtù» non è, quindi, soltanto quella della quasi coetanea del «libello», ma è quella che pertiene alla donna «sovra candido vel cinta d'oliva» e «sotto verde manto / vestita di color di fiamma viva», coperta dal lancio dei fiori da parte degli angeli, e di questa virtù, anzi, quella intravista nell'esperienza puerile e giovanile viene ad apparire un preannuncio, un’allegoria, così come quella Beatrice finisce a rivelarsi qui come il preannuncio della donna celebrata dagli angeli con il saluto di Cristo e con l’inno virgiliano.
Beatrice rivela a Dante, allora, il significato autentico della sua esperienza, di prescelto dal Cielo nella giovinezza attraverso l'amore per Beatrice, poi di disviato, fino al momento dell'estrinsecazione esemplare nelle lacrime del dolore per la colpa commessa: «Non pur per ovra de le rote magne / che drizzan ciascun seme ad alcun fine / secondo che le stelle son compagne, / ma per larghezza di grazie divme, / che si alti vapori hanno a lor piova / che nostre viste là non van vicine, / questi fu tal ne la sua vita nova / virtualmente, eh' ogni abito destro / fatto averebbe in lui mirabil prova. / Ma tanto più maligno e più silvestro / si fa 'I terreo col mal seme e non colto, / quant'egli ha più di buon vigor terrestro. / Alcun tempo il sostenni col mio volto: / mostrando gli occhi giovanetti a lui, / meco il menava in dritta parte volto. / Sì tosto come in su la soglia fui / di mia seconda etade e mutai vita, / questi si tolse a me e diesi altrui. / Quando di carne a spirto era salita / e bellezza e virni cresciuta m'era, / fu' io a lui men cara e men gradita; / e volse i passi suoi per via non vera, / imagini di ben seguendo false, / che nulla prcmission rendono intera. / Né l'impetrare ispirazion mi valse, / con le quali, ed in sogno ed altrimenti, / lo rivocai: si poco a lui ne calse: / Tanto giù cadde che tutti argomenti / a la salute sua eran già corti, / fuor de mostrarli le perdute genti. / Per questo visitai l'uscio de' morti, / e a colui che l'ha qua su condotto / li preghi miei, piangendo, furon porti. / Alto fato di Dio sarebbe rotto, / se Letè si passasse e tal vivanda / fosse gustata, sanza alcuno scotto / di pentimento che lagrime spanda». La «storia» esemplare di Dante è disegnata da Beatrice rivelandone il significato autentico nel complesso e ripetendone i particolari anch'essi forniti di interpretazione attraverso l'ottica escatologica che ha Beatrice: ma interpretati autenticamente risultano anche oli eventi più recenti dell'esperienza di Dante, come lo smarrimento nella «selva oscura» e il racconto di Virgilio sulla visita ricevuta da Beatrice al limbo e sull'invito a trarre a salvezza Dante attraverso l'esperienza dell'inferno.
La rilettura della Vita Nuova e delle vicende connesse con quel tempo e quelle esperienze, mentre dimostra il carattere allegorico del libretto, cosi vale a formare i termini precisi dell'allegoria della sorte individuale di ciascun uomo di fronte alla vocazione del Cielo e alla grazia e di fronte all'opposta tentazione del disviamento e del peccato. Tutto ciò che Beatrice dice, ricostruendo. la storia di Dante, è in funzione di tale rappresentazione esemplare dell'esperienza dell'uomo, fra grazia e tentazione intellettuale: e, allora, il fatto che la rappresentazione si svolga nel Paradiso terrestre e che cosi di frequente sia richiamata la colpa di Eva, che ha condotto l'umanità nello stato di degradazione e di corruzione rispetto all'innocenza e alla purezza originarie, risponde all'esemplare accusa a Dante e, attraverso Dante, a ciascun uomo, di aver riproposto i termini della colpa di origine, cercando la verità al di fuori della sola via che la garantisce che è, come è noto dalla formula evangelica, Cristo. Lo sviamento di Dante ripete, in qualche misura, quello di Eva e di Adamo, cosi come Beatrice è funzione della grazia divina: ma per Dante come per ogni uomo dopo la venuta e la morte e la resurrezione di Gesù, la salvezza è un evento che è continuamente e attualmente possibile, e allora tutta la vicenda di lacrime, dolore, confessione della colpa, pentimento, che Dante attraversa, non è che l'allegoria del rito che ogni uomo deve compiere per evitare quella condanna che, invece, ha colpito Adamo («Per morder quella, in pena ed in disio / cinquemila anni e più l'anima prima / bramò colui che 'l morso in sé punio»), tanto che lo ha costretto ad attendere così lungo tempo per poter ottenere, attraverso Cristo, il riscatto.
Dopo la rappresentazione della vicenda di Dante come allegoria di ogni vicenda di salvezza individuale per la grazia di Cristo significativamente l'allegoria presenta il riprendere foglie e fronde e fiori dell'albero del Paradiso terrestre quando il grifone-Cristo vi lega il carro: cioè, Gesù offre la figura della vera conoscenza e della giustizia che reintegra ciò che Adamo ha offeso, e rende possibile, al tempo stesso, la vicenda di perdono e di riscatto dell'uomo che ha offeso la grazia di Dio, in quanto si è sviato dalla verità, pur avendo ricevuto doni eccezionali dal Cielo, e si è volto a false immagini di bene, cioè a esperienze intellettuali omologiche di quella compiuta da Adamo con il «mordere» il frutto dell'albero vietato.
Qui si saldano l'allegoria della storia dell'umanità e l'allegoria della storia di ciascun uomo: nell'uguale riferimento alla tentazione dell'albero e nell'uguale salvezza dalle conseguenze della colpa. Che è colpa intellettuale, pretesa di conoscere con strumenti inadeguati ovvero ciò che non è conoscibile sulla terra, in vita. Il biasimo di Beatrice è rivolto a una sfida intellettuale rispetto a quella conoscenza autentica che era data a Dante dalla presenza di Beatrice stessa, superiore a qualsiasi bellezza e a qualsiasi piacere che la natura e l'arte possano mai presentare all'uomo («Mai non t'appresentò natura o arte / piacer, quanto le belle membra in ch'io / rinchiusa fui, e sono in terra sparte»: con riferimento all'incarnazione di Beatrice nel corpo, capace, tuttavia, di conservare quel carattere divino che è proprio di lei). Come Beatrice richiama Dante dal disviamento intellettuale, così Dio richiama l’umanità dalla colpa d'origine e la riscatta attraverso l’incarnazione e il sacrificio di Cristo, e propone anche il risarcimento della degradazione e della corruzione della Chiesa e dell'Impero nell’invio di un nuovo «messo» a punirne le colpe. L'allegoria offre appunto l'interpretazione autentica dei fatti individuali come di quelli storici generali. In questa prospettiva i due ordini di rivelazioni sono perfettamente omologhi e si corrispondono, onde anche a Dante è data la rivelazione su quello che sarà il suo futuro, che è, nell'ottica di Beatrice e in quella di una vicenda eminentemente spirituale, il futuro di salvezza: «Qui sarai tu poco tempo silvano; / e sarai meco sanza fine cive / di quella Roma onde Cristo è romano». La storia di Dante come storia di ciascun uomo ha un senso soltanto in tale prospettiva conclusiva di salvezza eterna: la rappresentazione inverante e rivelante delle sue vicende contiene sì l'accusa della colpa, la confessione, le lacrime di pentimento, ma anche l'immersione in Letè come allegoria del perdono e, soprattutto, l'indicazione di quel punto finale che è costituito dal destino di salute eterna, in «quella Roma onde Cristo è romano».
La vera colpa, insomma, è quella dell'intelletto, come testimonia anche l'ammonizione che viene data a Dante che contempla con troppa intensità Beatrice: «Tant'eran gli occhi miei fissi e attenti / a disbramarsi la decenne sete, / che gli altri sensi m'eran tutti spenti. / Ed essi quinci e quindi avean parete / di non cale - così lo santo riso / a sé traéli con l'antica rete! -, / quando per forza mi fu volto il viso / ver la sinistra mia da quelle dee, / perch'io udi' da lor un 'Troppo fiso!'; / e la disposizion ch'a veder èe / ne gli occhi pur testé dal sol percossi, / sanza la vista alquanto esser mi fée». Linguaggio della rivelazione del senso autentico della storia di ciascun uomo e della storia del mondo, l'allegoria è la forma delle due rappresentazioni che si svolgono nel Paradiso terrestre, e le unifica non soltanto nel termine unico di riferimento, ma anche nel modo della raffigurazione. Che il Paradiso terrestre sia la sede deputata della rappresentazione allegorica è in conseguenza del carattere del luogo, non soltanto, allora, perché in esso si è svolta, all'inizio dei tempi, la vicenda esemplare di Adamo, destinata a ripetersi per tutti gli uomini e a determinare i modi di svolgimento dell'intera storia dell'umanità, che è sempre storia di colpa e di punizione ovvero di redenzione, anche nei termini della politica, ma perché, in più, è lo spazio sospeso fra cielo e terra, partecipe della terra e alto fino a raggiungere le regioni dove non esiste più il movimento di generazione e di corruzione dove quindi si attua l'atto esemplarmente rivelativo dell'allegoria profetica del significativo reale e autentico di ogni storia, di ciascun uomo come nell'umanità, nel cospetto della giustizia di Dio rappresentata dall'albero. Le forze allegoriche rendono leggibile ciò che è misterioso e superiore alla conoscenza umana, come la doppia natura di Cristo, e manifestano l'unico vero linguaggio di conoscenza 'che 'l'uomo può avere; in opposizione alle tensioni e alle tentazioni verso alari tipi e modi di: conoscenza che sono colpevoli ma anche inutili, generatori di false immagini di bene. Del resto, l'allegoria non è affatto una sostituzione di significati su una costanza di significanti: piuttosto, è, nei canti conclusivi del Purgatorio e in relazione con il modello dell’Apocalissi, la costruzione di un sistema di messaggi (di rivelazioni), che riempie, al di fuori di ogni ragione di coerenza logica « normale », basata sulla verosimiglianza, elementi puramente figurativi, termini, espressioni, composizioni, forme diverse, ovvero che ripete, trasferendoli in termini autenticati e garantiti dall'iconografia sacra, onde ricavarne la verità profonda, gli eventi della storia universale. dell'umanità ovvero quelli della storia particolare di ciascun uomo, di quell'«ognuno» che è, qui, Dante. Forma sensibile e soprattutto visibile (rappresentazione, appunto) di ciò che è oggetto di rivelazione, in quanto di per sé non forniste significati completi e autentici oppure non è direttamente comprensibile nelle ragioni profonde, nella portata, nei valori, l'allegoria negli ultimi canti del Purgatorio vale a dare una chiave di lettura e di comprensione alle due dimensioni pubblica e privata del «poema sacro», offerta proprio al centro della Commedia e, quindi, più equilibratamente ed efficacemente rivolta a ciò che già vi è stato scritto e a ciò che vi sarà detto. L'ambizione alla sacralità di Dante vi si dimostra appieno: quella sacralità, tuttavia, che chi scrive per rima non altrimenti può manifestare che attraverso il velo dell'allegoria.

Date: 2021-12-25