L’allegoria della Divina Commedia [Nicolò Mineo]

Dati bibliografici

Autore: Nicolò Mineo

Tratto da: «Allegoria. Per uno studio materialistico della letteratura»

Numero: XIII

Anno di pubblicazione: 1993

Pagine: 7-36

La definizione del carattere dell'allegoria del poema dantesco è stata per gli studiosi del nostro secolo, sino a un decennio fa, l'obiettivo critico primario1 e tuttavia, ora che l'interesse all'argomento sembra essersi smorzato2, almeno sul piano teorico, si può affermare che non tutto è stato detto o, meglio, che non tutto è stato detto con sufficiente chiarezza,decisione e dottrina.
Si tratta in effetti di guadagnare anzitutto univocità di nozioni e di termini. L'allegoria, nella sua varia realizzazione testuale e dentro il più ampio quadro semiotico cui si riferisce3, è generalmente definibile come una struttura semantica a più livelli di significato. Ma escluderemmo l'uso del termine polisemico, che nella nostra cultura, dopo Galvano della Volpe, ha assunto una connotazione direttamente valutativa, mentre l'allegorico di per sé non è né poetico né non-poetico né antipoetico. Propongo di dire plurisignificante. Su ciò torneremo. Naturalmente dò al termine allegoria il significato suo storico4 Nel Medioevo essa si iscrive nel quadro di corrispondenze e di analogie tra le cose e le parole di un universo compattamente unificato e teleologico. Le parole mediano davvero le cose, poiché se è un'assenza che determina il bisogno di travalicare la prima forma della realtà, quell'assenza si riflette per suo conto in una miriade di specchi in cui, per analogia e allusione, si fa presenza, sino a trasparirvi come ombra. Altro problema è quello del rapporto tra i livelli di significato e della loro interna gerarchizzazione. E altro problema ancora è quello del loro relazionarsi all'orizzonte del reale, cioè della natura del loro significare. Un aspetto quest'ultimo che si lega, e spesso ne dipende, al momento dell'interpretazione. Bisogna distinguere infatti tra costruzione allegorica secondo l'intenzione dell'autore - allegoria appunto - e analisi del testo secondo la prospettiva dell'interprete5 - allegoresi -. A questa, e al suo arbitrio, appartengono sia la lettura allegorica dei testi classici sia quella dei libri del Vecchio Testamento.
In rapporto a quest'ultima nei decenni centrali del nostro secolo sono state introdotte risolutamente nel campo della dantistica due nozioni di decisiva importanza: quella di figuralità e quella di allegoria dei teologi., che viene distinta da quella dei poeti6. La tradizione ermeneutica pone che i testi biblici, vetero-testamentari soprattutto, possano esser letti secondo quattro livelli di senso (letterale, allegorico o tipologico, morale o tropologico, anagogico) e che anche il primo si riferisce a cose (persone, eventi, ecc.) reali7. Il secondo senso, il tipologi.co, consisteva nella significazione di eventi e figure che, preannunciati nel Vecchio Testamento nella forma del tipo (o figura), avrebbero avuto piena e più autentica realtà con l'avvento di Cristo. Tipologico infatti e figurale coincidono. Eventi e figure del Nuovo Testamento a loro volta, veri in sé, possono alludere ad eventi futuri della storia della cristianità. Meno chiara è invece la teoria riguardo all'allegorismo dei testi poetici8. In questi di solito si riconoscevano tre livelli di senso: letterale, allegorico e morale. Il letterale però veniva classificato come finzione e menzogna, sicché la legge costitutiva della costruzione è il rapporto di tipo metaforico tra figurante e figurato9. Ma può anche avvenire che a questa venga riferita anche l'allegoresi biblica. Si ammetteva infatti che testi biblici potessero essere in tutto o in parte poetici, cioè non rispondenti a verità a livello del letterale10. E si ammetteva anche che testi poetici potessero essere veritieri nella lettera, anzi che potessero essere ricondotti alla forma tipologica. Quella che è stata chiamata tipologia «semibiblica» ed «extrabiblica»11.
Per evitare equivoci e riduttivismi, bisogna però tener fermo che il termine allegoria conserva un uso estensivo e una valenza semantica assai più ampia, tanto da denotare, come si diceva, ogni forma di discorso plurisignificante.
Erich Auerbach e Charles S. Singleton (assieme a Bruno Nardi, di cui si dirà), sono gli instauratori di nuovi orientamenti della critica dantesca, e a loro si deve il deciso e coerente innesto in essa della problematica relativa alle nozioni di allegoria teologica e di figuralità. Queste in verità coincidono, poiché, come si è visto, la figuralità non è altro che il secondo livello di significato dell'allegoria dei teologi. Nel concreto dell'interpretazione però dalle loro impostazioni sono derivati diversi indirizzi di ricerca: l'uno soprattutto volto a definire su un piano valutativo il realismo del poema, l'altro alla ricognizione dei suoi supporti religioso-culturali in ordine alla struttura - non senza esiti aberranti presso molti degli allievi e seguaci -. È vero d'altra parte che l'Auerbach, nel solco degli interessi della tradizione culturale e critica cui apparteneva, guardava al Dante personaggio soggetto della visione, e quindi al viaggio nella sua specifica consistenza. All'opposto si collocano gli interessi del Singleton e della sua scuola, preoccupati soprattutto di capire la natura e il significato della visione e del viaggio in quanto esperienze conoscitive e religiose.
Di altre due nozioni impostesi nella critica dello stesso tempo, quelle di simbolismo, risalente al Gilson12, e quella di analogia, riproposta dallo stesso Singleton, la prima rientra anch'essa, come è stato detto dal Pépin13, nel campo dell'allegoria. Naturalmente si tratta di dare alla nozione di simbolismo non il significato postgoethiano, ma quello suo proprio medioevale, di oggetto o figura implicante allusione o evocazione di altre realtà. Invece non si vuol negare la distinzione - pur nell'interconnessione - tra una plurisignificanza delle cose e una plurisignificanza delle «scritture». Un modo di significare invece non propriamente allegorico ma allusivo, e interno a ogni dimensione espressiva dell'opera - quindi anche a quella allegorica - è quello dell'analogia14, di cui qui non occorrerà di occuparsi. Uno statuto relativamente diverso ha ancora un'altra nozione appartenente al campo del discorso plurisignificante, quella di parabolico, proposta estensivamente in riferimento al poema dantesco dal Barbi, il quale, sostenendo, sulla scia di san Tommaso - se ne dirà più giù - che vada riconosciuto come letterale proprio il secondo senso di tante rappresentazioni simboliche, credeva di ridurre drasticamente l'area dell'allegorico del poema, da lui per altro definito in termini non rigorosamente pertinenti15.

Solo in riferimento a uno schema univoco della realtà dell'allegorismo si potrà tentare di definire quello dantesco, distinguendo rigorosamente tra teorie e intenzioni del poeta e oggettiva realtà del testo prodotto. Le prime inoltre vanno fissate nel loro storico definirsi, arricchirsi e mutare.
La forma più frequente e tipica dell'allegoria dei poeti nelle strutturazioni testuali consapevolmente e intenzionalmente a più livelli di senso è la personificazione o, dantescamente, «prosopopeia»16. Verso di questa si orienta Dante sia, almeno in qualche caso, nella costruzione del testo sia nella teoria. A cominciare dalla Vita Nuova, in cui la figura di Amore è rappresentata in forma e comportamento proprio «de l'uomo»17. Il poeta sostiene la legittimità da parte dei poeti in volgare di usare «alcuna figura o colore rettorico»18. Potranno dunque fare come i poeti latini, che «hanno parlato a le cose inanimate, sì come se avessero senso e ragione, e fattele parlare insieme; e non solamente cose vere, ma cose non vere, cioè che detto hanno, di cose le quali non sono, che parlano, e detto che molti accidenti parlano, sì come se fossero sustanzie e uomini». Dovranno però, per non apparire stolti come certi rimatori contemporanei, che sappiano dare alle figure un loro significato al di là dell'invenzione, un «verace intendimento»19. Questo mette i poeti in volgare veramente alla pari coi poeti latini, e i modelli citati - una sorta di primo canone della poetica dantesca - sono Virgilio, Lucano, Orazio e Ovidio.
E tuttavia la teoria non copre e giustifica l'intero spazio della costruzione della Vita Nuova. Il simbolismo dell'opera, oggettivamente segnalato da una serie di elementi costruttivi e riconducibile a una sorta di allegoria dei teologi20 - il presente storico che si modella sul passato emblematico, sulla vicenda centrale della storia, l'avvento di Cristo -, non è assunto nell'ambito delle dichiarazioni di poetica.
Il gioco della personificazione, stando alle indicazioni del Convivio, sarebbe ancora alla base della successiva scrittura delle canzoni per la «donna gentile». Possiamo ritenere che la loro costruzione fosse originariamente allegorica. Così, col ricorso ancora una volta alla poesia d'amore - la veste letterale - Dante poteva superare la preclusione posta alla poesia in volgare, la sua asserita inidoneità a trattare temi non amorosi. Lo stabilisce lui stesso nella Vita Nuova21 e lo ribadisce nel Convivio: «de la donna di cu' io m'innamorava non era degna rima di volgare alcuna palesemente po[e]tare»22. La prima canzone a impianto allegorico, ma non in veste letterale amorosa, è la famosissima Tre donne intorno al cor mi son venute, forse del 1302. La forma dell'allegorizzazione è ancora la personificazione. Ma prima aveva già assunto a oggetto, in forma diretta, tematiche non amorose, dalle due canzoni della nobiltà (Le dolci rime d'amor ch'io solia) e della leggiadria (Poscia eh 'Amor del tutto m'ha lasciato) alle rime del tempo della crisi politica23. Fu una svolta, certo, ma su questo tema non si è mai fatta sufficiente luce.
In ogni modo è in rapporto alle canzoni allegoriche che Dante costruisce la sua più impegnata definizione - quella certamente sua cioè - della poesia allegorica. Sono i famosi passi del secondo trattato del Convivio dedicati alla teoria dei quattro sensi delle «scritture»24. Ma, prima di intraprendere l'analisi, è utile riscontrare nel trattato tutti gli altri luoghi significativi dedicati al tema. Che è posto sin dall’inizio: «E con ciò sia cosa che la vera intenzione mia fosse altra che quella che di fuori mostrano le canzoni predette, per allegorica esposizione quelle intendo mostrare, appresso la litterale istoria ragionata; sì che l'una ragione e l'altra darà sapore a coloro che a questa cena sono convitati»25. Dove è da notare che tra i due livelli di significato è certo stabilita una gerarchia, in quanto dotato di verità è solo quello nascosto - «esposizione allegorica e vera» ed «esposizione fittizia e litterale», dirà in altri luoghi della stessa opera26 -, ma non si esclude che il primo, definito litterale istoria, abbia una sua autonoma capacità di dilettare - il sapore -. Il livello letterale però, indubitabilmente, è quello della finzione sicché bisogna «volgere la parola fittizia di quello ch'ella suona in quello ch'ella 'ntende»27. Sorprendente l'affermazione che chiude le dichiarazioni d'apertura riguardo alla struttura allegorica delle canzoni: «Intendo anche mostrare la vera sentenza di quelle, che per alcuno vedere non si può s'io non la conto, perché è nascosa sotto figura d'allegoria: e questo non solo darà diletto buono a udire, ma sottile ammaestramento e a così parlare e a così intendere l'altrui scritture»28. Da una posizione siffatta discenderebbe un'aporia insolubile di ordine ermeneutico, l'impossibilità di penetrare oltre il livello del letterale, quando manchi la propedeutica delle delucidazioni dell'autore. L'«ammaestramento» dantesco sarebbe valido solo nella dimensione creativa, per l'invenzione, non per l'interpretazione. Più in là, al tempo della Divina Commedia, Dante avrebbe corretto un tale punto di vista, invitando il lettore a penetrare da sé il velo dell'allegoria29. Va considerata anche un'altra affermazione, a proposito della terza canzone, che non è allegorica, un'affermazione che, implicando la limitazione dell'efficacia persuasiva e informativa della scrittura allegorica, potrebbe metterne in crisi il senso e la pratica: «E però che in questa canzone s'intese a rimedio così necessario, non era buono sotto alcuna figura parlare, ma convennesi per via tostana questa medicina, acciò che fosse tostana la sanitade, [dare]; la quale corrotta, a così laida morte si correa»30. Anche per questa difficoltà bisognerà attendere il poema e le sue soluzioni.
Perentoria - ma non chiarissima - nel passo specifico del secondo trattato la definizione del compito ermeneutico: «[...] le scritture si possono intendere e deonsi esponere massimamente per quattro sensi». Questi sono il «litterale», che «[non si stende più oltre che la lettera de le parole fittizie, sì come sono le favole de li poeti]», l'«allegorico», che «si nasconde sotto 'l manto di queste favole, ed è una veritade ascosa sotto bella menzogna», il «morale», che «li lettori deono intentamente andare appostando per le scritture, ad utilitade di loro e di loro discenti», I' «anagogico» o «sovrasenso» che si ha «quando spiritualmente si pone una scrittura, la quale ancora [sia vera] eziandio nel senso litterale, per le cose significate significa de le superne cose de l'etternal gloria»31. A inizio di capitolo egli aveva parlato però soltanto di «sposizione [...] litterale e allegorica». È da ritenere che il termine allegorico sia usato sia nel valore specifico32, in riferimento al secondo senso, sia nel valore generale, in riferimento ai tre sensi nascosti33. Dante cita un testo esemplare per ognuno dei tre secondi sensi: Ovidio e l'episodio di Orfeo34, il Vangelo e l'episodio della trasfigurazione, il Vecchio Testamento, il salmo In exitu Israel, e l'episodio della fuga degli Ebrei dall'Egitto. Una tale schematizzazione propone non poche difficoltà, su cui da sempre i critici si sono ampiamente soffermati.
Indiscutibile è che la definizione del primo e del secondo senso vada riferita ai testi poetici, in cui la lettera è solo una «favola», una «menzogna». E vanno sottolineati certi termini tecnici, come «manto» e «nascondimento» 35, corrispondenti agli usatissimi velamen e integumentum. Dante sicuramente aveva in mente la sua stessa produzione lirica (ma non certo la Vita Nuova!). Tuttavia non ignora che i due sensi in altri testi possano avere diversa natura. Infatti aggiunge, dopo aver definito il secondo livello: «Veramente li teologi questo senso prendono altrimenti che li poeti; ma però che mia intenzione è qui lo modo de li poeti seguitare, prendo lo senso allegorico secondo che per li poeti è usato»36. La differenza a cui l'autore fa riferimento riguarda, stando alle indicazioni del testo e diversamente da quanto di solito si è detto, il secondo senso, non il primo. Il che vuole dire che Dante non pensa a contrapporre, in ordine al senso letterale, verità, quelle delle scritture testamentarie, a menzogna, quella delle scritture poetiche. La differenza a cui pensa sta altrove. Ma si possono solo fare delle ipotesi. In questione, ritengo, è il tipo di «veritade» consegnato al secondo senso: una verità di ordine sapienziale e dottrinale in genere quella voluta dai poeti, una verità d1 ordine figurale o tipologico quella cercata dai teologi37. L'idea della contrapposizione verità/menzogna a livello della lettera, propria dei due approcci interpretativi, se mai è solo deducibile come riferimento implicito. E bisogna anche tener in conto un altro dato. Dante - è chiaro nel testo - ritiene favola e menzogna che Orfeo «facea con la cetera mansueta le fiere, e li arbori e le pietre a sé muovere». Ma non si deve dimenticare, come molti hanno osservato, che, almeno al tempo dell'Inferno38, ritiene storicamente reale l'esistenza del mitico poeta. È evidente che egli giudicava possibile, a fini di significazione simbolica, l'attribuzione di azioni non vere a personaggi reali.
Difficoltà pone anche la definizione del terzo senso. Dante ha appena dichiarato, parlando del secondo senso, di voler seguire il modo dei poeti, ed ecco che per il terzo trae l'esempio dal Vangelo. Vero è che al terzo e quarto senso si mostra assai poco interessato: alla fine del capitolo, egli dichiarerà che «talvolta de li altri sensi toccherà incidentemente» e, in un caso in cui parla del terzo senso, lo fa senza grande impegno - «qui si vuole bene attendere ad alcuna moralitade, la quale in queste parole si può notare» -39. E' probabile che nei testi poetici egli non trovasse un terzo senso nettamente distinguibile dal primo.
Che invece l'esempio del senso anagogico fosse tratto dal Vecchio Testamento non stupisce di sicuro, essendo questo di gran lunga più pertinente per una tale significazione. Ma non mancano ragioni di perplessità! In effetti, nel definire il senso anagogico, si introduce la nozione di verità storica degli eventi riferiti dal senso letterale, vale a dire si introduce la definizione teologica del senso letterale, che ci si sarebbe aspettato invece di veder posta esplicitamente come condizione generale di differenziazione tra i due processi interpretativi. Va preso atto però della ricorrenza di un termine tecnico nella forma avverbiale: «spiritualmente»40. E poi - cosa più sorprendente -, il significato anagogico riconosciuto nell'evento storico è: «ne l'uscita de l'anima dal peccato, essa sia fatta santa e libera in sua potestate». Ma queste è piuttosto un significato tropologico41!
Le difficoltà evidenziate non credo che vadano spiegate, almeno non soltanto, in termini di ambiguità o di ingenuità o di insufficienza di informazione, ma sono correlative all'eccezionalità dell'impresa tentata42. Dante quasi sicuramente volle provarsi - come aveva sempre fatto e avrebbe fatto - in qualcosa di intentato: la sistemazione in uno schema unitario dell'intero campo dell'esegesi allegorica. Perciò mette insieme esempi tratti dai tre tipi di «scritture» di esemplarità universale. Egli però era soprattutto impegnato a dimostrare l'eccellenza del discorso poetico, potenzialmente significante, come il testo sacro, a quattro livelli. E per questo la sua teoria generale è primariamente orientata nella prospettiva del discorso dei poeti. E forse anche cominciava a farsi strada l'idea di un poema apocalittico-profetico, e ciò significava pensare ad un'allegoria che non fosse solo personificazione.
Può venire conferma dal confronto con la teorizzazione tomistica, a cui Dante certo guardava con la massima attenzione43. Non si escludono naturalmente altri riferimenti, tra cui senza dubbio Agostino; ma il confronto coll'Aquinate doveva essere per lui l'impegno più coinvolgente. Egli sembra singolarmente vicino alle formulazioni del grande teologo quando parla del quarto senso. Penso a espressioni come «res significatae per voces iterum res alias significant», «prout vero significant ea quae sunt in aeterna gloria est sensus anagogicus»44. Tommaso però chiama, come vuole la tradizione, sensus spiritualis l'insieme dei tre sensi mediati da quello letterale ( «hic autem sensus spiritualis trifarium dividitur»45). Dante invece usa il termine, nella sua forma avverbiale, solo a proposito del quarto senso. Non si può certo pensare che ignorasse la possibilità di un uso più esteso della nozione. Piuttosto è da pensare che egli non potesse applicarla anche agli altri due sensi nascosti, poiché, dato l'assunto di trattare insieme i quattro sensi di ogni genere di scrittura, non avrebbe potuto estendere la concessione la quale ancora [sia vera] eziandio nel senso letterale al senso letterale di tutte le scritture. Da Tommaso d'altra parte forse derivava la scelta del testo da cui trarre l'esempio per il terzo senso. Ricordo la cristallina chiarezza con cui, nel luogo citato della Summa, il teologo cristiano definisce il significato morale: «secundum vero quod ea quae in Christo sunt facta vel in his quae Christum significant sunt signa eorum quae nos agere debemus est sensus moralis».
Evidente invece è il suo dissenso da Tommaso quanto alla posizione assunta in ordine al senso letterale dei poeti46. A questi egli negava la possibilità di una vera scrittura allegorica - «in nulla scientia, humana industria inventa, proprie loquendo potest inveniri nisi litteralis sensus; sed solum in ista Scriptura, cuius Spiritus sanctus est auctor, homo vero instrumentum»47 -, equiparando in sostanza alla forma parabolica, propria di certi luoghi del testo sacro a costruzione metaforica, i due primi livelli delle loro scritture e quindi appiattendo il primo senso sul secondo. Il vero senso letterale dei poeti insomma per Tommaso era il secondo livello, poiché il primo si costituisce totalmente ed esclusivamente in funzione di questo48. Il che era esatto all'interno della sua logica, che distingueva tra testo divinamente ispirato e quindi depositario di significati nascosti non previsti e non compresi dallo scrivente e testi costruiti totalmente secondo l'intenzione dell'autore. E aveva ragione a ritenere che il vero significato di questi sia quello nascosto. Se mai gli si può rimproverare di non aver tenuto conto della vera natura della metafora. Ma di ciò più avanti. Il dissenso di Dante è in re, nel fatto stesso che egli abbia fornito una teoria dell'interpretazione allegorica dei testi poetici. Per lui però non era tanto in giuoco il problema di garantire l'importanza del letterale - e perciò la sua insistita dimostrazione del carattere di fondamento di questo per il costituirsi degli altri sensi49 -, perché non è il suo ruolo di significante primario ad essere messo in discussione dalla impostazione tomistica - che non lo nega -, quanto quello di assicurare della pari dignità statutaria - e un giorno avrebbe pensato a una sorta di coincidenza50-, tra discorso poetico e discorso biblico.
E tuttavia la sua teorizzazione teneva in poco o, per quanto riguarda i testi poetici, in nessun conto le costruzioni allegoriche in cui il primo livello di senso tratta di cose realmente accadute e di persone realmente esistite, è fondato cioè sulla realtà storica. Ma ben presto, nel quarto trattato della stessa opera, Dante avrebbe dovuto prendere atto, senza però tentare integrazioni dello schema proposto nel secondo, della possibilità di un testo poetico anch'esso fondato sulla verità storica e insieme dotato di significati secondi. Era l'imporsi nella sua prospettiva dei modelli costituiti dall'Eneide e dalla Farsaglia51. Sappiamo che l'ultimo trattato del Convivio registra delle sensibili variazioni rispetto ai precedenti, anche in dipendenza dal carattere non allegorico della canzone commentata52. E poi è quello dell’«incontro» decisivo con Virgilio53. Le proposizioni relative all'allegorismo, non tipologico però, dei due testi classici si concentrano negli ultimi sette capitoli. Dante dà per scontata, nella digressione sulle «etadi» della vita, la significazione allegorica dell'Eneide: «[...] lasciando lo figurato che di questo diverso processo de l'etadi tiene Virgilio ne lo Eneida»54. Un capitolo è in gran parte dedicato a dimostrare nello storico Enea l'esemplarità allegorica delle virtù necessarie alla «gioventute»55. È quindi Lucano a fornire un esempio di significato allegorico fondato su una lettera storica. È il clamoroso episodio dei rapporti tra Catone e Marzia, in cui il poeta «figura» in Catone Dio e in Marzia la «nobile anima», e Dante si impegna sul terreno interpretativo a ritrarre la figura «a veritade»56.
Nelle altre opere dantesche non si danno sistematiche indicazioni di ordine teorico. Si hanno solo riferimenti alla realtà dell'allegorismo col ricorrente impiego dei significanti figura e figurare. A proposito delle gazze ovidiane, il De vulgari eloquentia dice che Ovidio «hoc figurate dicit»57. Poi la Monarchia - in cui naturalmente ricorre anche il termine generico allegoria, precisamente «allegorice»58 - ci pone dinanzi a un interessante uso dei termini: «[...] de femore Iacob fluxit figura horum duorum regiminum»; «Levi et ludas, filii Iacob, figurant ista regimina»59. Si conferma lo spostamento semantico dei significanti - già in atto nel IV trattato del Convivio - dal campo della referenza retorica a quella dell'ermeneutica allegorica, il figurale-tipologico60 appunto. Fanno la loro apparizione anche i sinonimi dell'area del tipologico: «dicunt illa duo luminaria typice importare duo hec regimina»; «si verba illa Cristi et Petri typice sunt accipienda»61. Ai fini della datazione del trattato, diciamo di passata, può forse avere importanza il fatto che questi termini appaiono tutti nel terzo libro. In questo altresì incontriamo un importante passo in cui l'autore, seguendo Agostino62, mette in guardia nell'applicazione dell'interpretazione allegorica contro l'eccesso iperallegorizzante e contro le distorsioni del senso: «circa sensum misticum dupliciter errare contingit: aut querendo ipsum ubi non est, aut accipiendo aliter quam accipi debeat»63.
Nello stesso significato è adoperato il verbo figurare all'altezza della terza cantica, in uno degli ultimi canti, e in un contesto di particolare solennità e tensione visionaria e profetistica64. Con questo termine, nel cielo delle stelle fisse, nel canto dell'esame sulla speranza, Beatrice, rivolgendosi a san Giacomo, ne dichiara esplicitamente la sua relazione simbolica con la seconda virtù teologale: «Inclita vita per cui la larghezza / De la nostra basilica si scrisse, // Fa risonar la spene in questa altezza: / Tu sai, che tante fiate la figuri, / Quante Iesù ai tre fe' più carezza»65. Nel riferimento alla predilezione di cui il santo fu oggetto da parte di Cristo ritorna il motivo già toccato nel Convivio, nell'esempio addotto a spiegare la natura del terzo senso. Siamo già interni a un simbolico riconducibile per analogia alla tipologia66.
Ma la Commedia contiene anche altri riferimenti al campo dell'allegoria, utilizzabili per un primo approccio al problema della costruzione del poema. Si ha una precisa definizione del senso parabolico, che viene chiamato in causa, in termini tomistici67, addirittura per spiegare come mai al personaggio Dante le anime dei beati appaiano nei singoli cieli: «Qui si mostraro, non perché sortita / Sia questa spera lor, ma per far segno / De la spiritual c'ha men salita. // Così parlar conviensi al vostro ingegno, / Però che solo da sensato apprende / Ciò che fa poscia d'intelletto degno. // Per questo la Scrittura condescende / A vostra facultate, e piedi e mano / Attribuisce a Dio, e altro intende; / E Santa Chiesa con aspetto umano / Gabriele Michel vi rappresenta, / E l'altro che Tobia rifece sano»68. Ben a ragione si potrebbe parlare per la struttura cui alludono i versi di verità parabolica. E così si allargherebbe ancora di più l'ambito del parabolico definito dal Barbi. Con la consapevolezza però che non si tratta di una metafora o di una similitudine implicita, che può prescindere dalla verità della cosa narrata, ma appunto di una verità, di qualcosa che avviene davvero, di una parabola storica. Siamo nel campo dei preannunci o meglio delle ombre della realtà vera e ultima69. Un procedimento che investe il poema a partire dalla seconda cantica, e rispecchia - è evidente - la concezione medievale della realtà fisica e metafisica. Si dovrebbe parlare di verità parziale e preparatoria: una sorta di tipologia. Ma non è l'allegoria fondamentale del poema; se mai è un'allegoria interna al poema.
All'allegoria si riferiscono ancora altri luoghi della Commedia, di controversa interpretazione. Nel nono canto dell'Inferno, tra la scena dell'opposizione dei diavoli all'ingresso di Dante e Virgilio nella città di Dite e l'intervento dell'angelo, si legge un appello al lettore, volto a richiamare l'attenzione sul significato nascosto: «O voi ch'avete li 'ntelletti sani, / Mirate la dottrina che s'asconde/ Sotto 'l velame de li versi strani»70. Un altro affine appello al lettore appartiene al Purgatorio, in un canto in qualche modo corrispondente, l'ottavo (la corrispondenza è piena, se si esclude dal computo il canto proemiale del poema), e in un contesto per più riguardi similare, quello della notte nella valletta dei principi. Anche qui si svolge uno dei momenti della lotta tra il bene e il male; anche qui da una parte il diavolo, dall'altra gli angeli: «Aguzza qui, lettor, ben li occhi al vero, / Ché 'l velo è ora ben tanto sottile / Certo che 'l trapassar dentro è leggero»71. I termini tecnici, velame e velo (= velamen), farebbero pensare al campo dell'allegoria poetica. Ma nulla esclude che nella struttura della visione, i due episodi e i suoi attori siano pensati come reali, pur nell'antropomorfizzazione degli uni e nel travestimento mitologico degli altri72. Dante insomma potrebbe aver voluto avvertire il lettore che nella scena reale debba saper vedere la simbolicità, sia questa mediata da «versi strani» o sia appena occultata da un «velo [...] sottile». Anche per questa via veniamo avvertiti del simbolismo allegorico di fatti ed eventi di cui il protagonista è attore o spettatore o l'uno e l'altro insieme.
E sono questi gli unici segnali che esplicitamente attestino la presenza dell'allegoria nel poema. Sono dichiarazioni interne, ma che solo implicitamente possono essere estese a significare un’allegoricità complessiva. Mancano indicazioni esterne sicuramente d'autore, cioè teorizzazioni e interpretazioni sull'allegoria del poema indubbiamente fornite dallo stesso autore, come nel caso delle canzoni commentate nel Convivio. Certo quelle del trattato non possono servire immediatamente per la lettura del poema, perché pensate soprattutto per le canzoni. Non vanno dimenticate però come quadro generale di riferimento.
Il discorso sul poema dell'Epistola XIII, malgrado gli sforzi di quanti hanno cercato di dimostrarne la paternità dantesca, allo stato degli studi, non può essere ritenuto sicuramente e tutto autentico73. Il problema vero però non è tanto di natura filologica (che non vuol dire che l'attribuzione sia senza importanza) quanto di natura squisitamente ermeneutica. Intendo dire che si è sostenuta l'autenticità o la non autenticità (o la parziale autenticità) della lettera in dipendenza dalla convinzione ("pregiudizio", potremmo dire in termini gadameriani) della pertinenza o non pertinenza del suo schema interpretativo a quella che nella prospettiva dello studioso di turno è la realtà del poema. E questo è quasi inevitabile. Quel che andrebbe evitato è l'effetto di ritorno del meccanismo così costruito: il circolo vizioso, per cui prima una certa prospettiva critica determina il giudizio sulla attendibilità di una interpretazione e poi da un giudizio così ottenuto si deduce trionfalmente la correttezza e pertinenza della prospettiva di partenza. In ogni caso la questione va posta su un altro terreno. Intanto occorre procedere secondo due vie, e senza reciproche contaminazioni. Anzitutto muovere ad una lettura per quanto possibile non pregiudicata del testo interpretante, per coglierne il significato in coerenza e nel quadro della sua complessiva costruzione. È quello che chiamo «rafforzamento» del testo. L'altra via, concomitante, ma da seguire con chiara consapevolezza del tipo di procedimento, è opporre al testo interpretante una definita idea del testo interpretato. Bisogna tener fermo un principio irrinunciabile: che le interpretazioni, anche quelle eventualmente d'autore, servono e vanno prese in considerazione solo se costituiscono un contributo reale alla comprensione del testo secondo la prospettiva assunta. Non si esclude pertanto la condizione dialogica. Non è comunque il discorso dell'altro, qualunque sia la sua ascendenza, a dover imporre un giudizio, ma al contrario è la nostra idea del testo a dover fornire indicazioni rispetto a quello. Altre forme di ricezione del discorso dell'altro non provocherebbero che confusione all'interno di un corretto circolo comunicativo. Nel nostro caso, qualunque dimostrazione dell'autenticità o no dell'Epistola, comunque ottenuta, non obbliga a nessuna deduzione che appaia difforme rispetto alla nostra idea del testo. Ne discende che si potrà decidere sul suo valore interpretativo solo dopo essersi resi conto del suo complessivo significato e dopo aver fissato un quadro di riferimento sulla natura del poema, sulla realtà di un suo allegorismo e sulla qualità di esso. Un terreno questo tutt'altro che definito.
Sulla base di queste avvertenze - ovvie per altro -, possiamo riprendere la linea dell'analisi: la ricognizione delle oggettive indicazioni della lettera a Cangrande sul piano dell'esegesi allegorica. Queste intanto non vogliono essere uno schema generale dell'allegoria, come è la teorizzazione del Convivio, ma una definizione dell'allegoria del poema. L'autore vuol fornire un'introduzione - accessus - alla lettura del poema. Fondamento è la definizione della sua struttura semantica: «istius operis non est simplex sensus, ymo dici potest polisemos, hoc est plurium sensuum». Una polisemia che si costituisce nella distinzione tra un significato che si ricava dalla lettera - «qui habetur per litteram» - un altro significato che si fonda sulla semantizzazione delle cose contenute nel senso letterale - «qui habetur per significata per litteram» -74. È la classica formula già adoperata nel Convivio per il senso anagogico e codificata da Tommaso. Sembra dunque che l'interprete faccia proprie le nozioni e il linguaggio della tradizionale esegesi teologica dell'allegoria. L'analogia sarà piena quando, poco più giù, egli userà per designare il senso letterale anche il termine storico «litterali sive historiali»75. Altrettanto tradizionalmente e come era nel Convivio, divide il secondo senso in tre livelli: allegorico, morale, anagogico, ma poi spiega che questi tre sensi mistici possono essere chiamati tutti m generale allegorici, in quanto la contrapposizione reale è con quello letterale. Anche ora abbiamo un'esemplificazione. Tutta basata però su un unico testo, il salmo che nel Convivio serve a definire il senso anagogico, In exitu Israel de Egipto, riferito a un evento che da san Paolo in poi - «haec autem omnia in figura contingebant illis» - fu luogo privilegiato di interpretazioni allegoriche76: «Nam si ad litteram solam inspiciamus, significatur nobis exitus filiorum Israel de Egipto, tempore Moysis; si ad allegoriam, nobis significatur nostra redemptio facta per Christum; si ad moralem sensum, significatur nobis conversio amme de luctu et miseria peccati ad statum gratie; si ad anagogicum, significatur exitus anime sancte ab huius corruptionis servitute ad eterne glorie libertatem»77. Della maggior precisione della definizione del senso anagogico rispetto a quella del Convivio si è già detto78. Più importa sottolineare come il senso allegorico, nella definizione che qui se ne dà, è esattamente il significato tipologico, in quanto nella vicenda storica vetero-testamentaria si legge la prefigurazione di eventi che si sarebbero verificati con l'incarnazione.
L'interprete utilizza quindi lo schema così apprestato per la decodificazione dei significati del poema, e ne individua i temi generali dei due livelli di senso: «Est ergo subiectum totius operis, litteraliter tantum accepti, status animarum post mortem simpliciter sumptus; nam de illo et circa illum totius operis versatur processus. Si vero accipiatur opus allegorice, subiectum est homo prout merenda et dernerendo per arbitrii libertate iustitiae premiandi et puniendi obnoxius est»79.
In rapporto a queste definizioni si sono scontrati e si scontrano opposti punti di vista, soprattutto per quanto riguarda l'individuazione del senso allegorico. È ben nota la posizione del Nardi, che negava la pertinenza della definizione del tema letterale, essendo questo per lui non lo stato delle anime dopo la morte ma il viaggio. E contestava il criterio di distinzione tra i due sensi, affermando che l'autore della lettera non stabilisce una vera differenza e «ripete, senz'accorgersene la stessa cosa»80. Ma in precedenti interventi egli aveva anche sostenuto, fondandosi anche sulla impostazione tomistica, che la teoria teologica dei quattro sensi non fosse applicabile alla Divina Commedia e che appunto il senso allegorico del poema come è riconosciuto dall'autore dell'epistola non appartiene all'allegoria teologica, ma a quella poetica81. Sono osservazioni di grande peso e che nessuno sinora ha seriamente confutato. Piuttosto ingenue, quando non forzate, in effetti appaiono le argomentazioni del Mazzoni e ora del Paolazzi82. Il Nardi pensava forse a una sorta di forma parabolica, quando parlava dell'identità dei due sensi individuati dall'epistola. Incontestabile mi sembra, in ogni caso, che il senso allegorico stabilito dall'epistola non possa essere assimilato a quello definito in sede di schema generale, in quanto per nessun lato assimilabile al significato tipologico, e che piuttosto sia da ricondurre all'area del terzo livello, quello morale o tropologico83. Lo confermano le successive definizioni relative al fine dell'opera e al genere di filosofia a cui si riconduce: «[...] dicendum est breviter quod finis totius et partis est removere viventes in hac vita de statu miserie et perducere ad statum felicitatis. Genus vero phylosophie sub quo hic in toto et parte proceditur, est morale negotium, sive ethica; quia non ad speculandum, sed ad opus inventum est totum et pars»84. Non voglio dedurre nulla quanto alla paternità; certo è da dire che si tratta di vistose incoerenze e di scarti rispetto alla norma ermeneutica, che fanno dubitare molto della competenza dell'autore. Lo schema del Convivio, pur con le sue difficoltà, era molto più rigoroso. Evidente è però che un'interpretazione dell'allegoria del poema così intrinsecamente debole possa fornire ben fragile supporto alla tesi dei sostenitori del suo carattere teologico, ed è poco comprensibile che proprio in questa essi credano di trovare autorizzazione e conferma di sicuro fondamento85.
Il Nardi per di più è convinto che il senso letterale individuato dall'epistola subisca poi l'ulteriore depotenziamento di una attribuzione di statuto di finzione. E sarebbe tutta una strategia critica tendente ad annullare la forza di denuncia e di proposta politico-religiosa del poema86. Ma che l'autore pensasse alla verità della lettera non mi pare da dubitare, se si pensa all'impostazione dello schema generale che egli premette all'analisi. E non credo che l'attribuire verità ad un senso letterale riguardante la condizione d'oltretomba possa essere cosa di poco rilievo. Lo studioso in effetti attribuiva un peso forse eccessivo alle ulteriori distinzioni dell'epistola. La definizione cioè della «forma» del poema: la «forma tractatus» e la «forma tractandi». La seconda è per un verso poetica, fittiva, descrittiva, digressiva, transuntiva, per l'altro definitiva, divisiva, probativa, improbativa ed esemplificativa87. Con l'attribuzione al poema del carattere «poeticus» e «fictivus» il Nardi riteneva che si reintroducesse l'idea della natura poetica e quindi del carattere di menzogna della sua lettera. Il viaggio finiva con l'essere tutta una invenzione da poeta, e finivano con l'esserlo, secondo lui, anche le realtà oggetto della visione di cui parla la stessa epistola88. In verità nella serie di attributi possiamo solo riconoscere un'elencazione, magari poco sistematica, delle caratteristiche formali dell'opera89, e i due primi attributi non hanno vero riferimento al campo dell'allegoria. Ciò non vuol dire però che l'insieme dell'epistola non faccia per certi riguardi sospettare che l'autore abbia pensato al poema soprattutto come a un'opera poetica90.
Corretto, credo, è ammettere che nella prospettiva di questo autore non manchino incertezze e, forse, vere e proprie contraddizioni. Non mi pare infatti che vada sottovalutata la sua riflessione relativamente alla visione paradisiaca. Per spiegare l'impossibilità dichiarata da Dante nel prologo della terza cantica di riferire quanto ha visto, egli aduna testimonianze relative a sublimi visioni - dall'epistola paolina ai Corinzi, dal Vangelo di Matteo, da Ezechiele - e cita trattati classici sull'esperienza visionaria, come il De gratia contemplationis di Riccardo di San Vittore, il De consideratione di san Bernardo, il De quantitate anime di sant'Agostino. Poi, per giustificare che Dante abbia ardito di ritenersi degno di una tale visione, adduce l'esempio, tratto da Daniele, della visione di Nabucodonosor: «Si vero in dispositionem elevationis tante propter peccatum loquentis oblatrarent, legant Danielem, ubi et Nabucodonosor invenient contra peccatores aliqua vidisse divinitus, oblivionique mandasse»91. Chi ritiene col Nardi che l'autore sottintendesse il carattere poetico della visione dovrebbe chiedersi se non sarebbe stato molto più semplice per l'interprete addurre proprio la natura ftttiva del poema per giustificare le dichiarazioni del «prologo». Egli invece si è posto su un terreno di ardui e impegnativi riferimenti, che non possono non dimostrare l'intenzione di avallare come reale la visione92. Il che non fa che confermare l'assunto implicito iniziale, la verità di quello che per l'epistola è il senso letterale e quindi la verità dell'oggetto della visione. E nel passo giustificativo appunto la verità del viaggio viene dimostrata non in riferimento all'esperienza soggettiva del protagonista, ma in funzione di conferma della verità delle cose viste. Dalla lettera a Cangrande dunque verrebbe conferma a una lettura del poema come opera seriamente e coerentemente imperniata intorno a un'esperienza visionaria, ma, in rapporto alle nostre conoscenze e convinzioni, di una strutturazione formale - se allegorica o di che tipo di allegoria - tutta da definire93.
Dante autore davvero dell'epistola? Rimane difficile - ripeto - sostenerlo con piena sicurezza, ma che l'autore sia stato non il pio eremitano difensore dell'ortodossia del poeta, cui pensava il Nardi94, ma un qualche ipotetico "lettore", di media cultura, della cerchia dello stesso Dante non è inverosimile.

Le costruzioni allegoriche, al di là delle teorizzazioni, hanno in sé oggettivamente, nella loro stessa forma, i segni rivelatori della loro condizione95. Malgrado certe certezze, il problema della costruzione della Commedia è aperto. E certamente non si risolve chiudendosi in analisi particolari.
Non importa impegnarsi in una preliminare dimostrazione della sua natura allegorica. Ne è segno, a non dir altro, l'impostazione del primo canto dell'Inferno, e non mancano al riguardo analisi di grande penetrazione. Il problema vero è stabilire di che forma di allegoria si tratti. Le risultanze dell'analisi fin qui condotta evidenziano in Dante, tanto più se a posizioni sue si può far risalire l'Epistola XIII, una prevalente attenzione alle potenzialità significanti della realtà, delle res. Un lavoro poetico fondato sulla plurisignificanza delle cose si registra sin dalla Vita Nuova. Io sono convinto che la più seria istanza nella critica dantesca del nostro tempo sia l'impegno a leggere il poema come opera densa di una sua verità non soltanto morale e religiosa universale e metastorica, ma anche precisamente e letteralmente storica ed esistenziale. Un'istanza impersonata prima e più di ogni altro da Bruno Nardi e dalla sua tesi del profetismo dantesco. Questa istanza non può non confrontarsi però con le posizioni dei teologisti, dei sostenitori della verità del senso letterale della Divina Commedia. Nessuno certo è disposto a credere alla realtà oggettiva del viaggio dantesco così come è letteralmente riferito. I teologisti appunto riconoscono la volontà di Dante di convincere della verità di esso, intenzione rivelantesi nella struttura dell'opera. Ricordo per tutte la famosa definizione del Singleton: «Un poeta non ha il potere di Dio e non potrà presumere di scrivere come lui. Potrà però imitarne il modo di scrivere»; «La fictio della Divina Commedia è che essa non sia una fictio»96.
Non sono mancate le critiche a questa impostazione che finisce in sostanza col riaffermare la poeticità della veste allegorica in quanto fictio97. In verità la contraddittorietà delle formule - una fictio non può mai essere qualcosa di diverso da una fictio e una scrittura di cui non ci si può appropriare non può mai essere imitata - riflette la contraddittorietà fondamentale d1 tutta l'impostazione. Intanto bisogna uscire dall'equivoco: o si afferma che Dante abbia realmente pensato di aver fatto il viaggio in corpo e anima98 oppure si ammette senza ambiguità che la lettera del poema non rappresenta una verità esattamente così come è racconto di fatti veramente avvenuti la lettera di quasi tutti i libri biblici. Attribuire a Dante l'intenzione di far apparire come reale - e di che genere di realtà! - quel che sapeva che non era tale, sia pure a fini didascalici e parenetici nei confronti del lettore non colto, equivarrebbe ad attribuirgli un atteggiamento non so quanto ammissibile sul piano dello zelo religioso. Relativamente poi al primo punto del dilemma, non voglio entrare nell'incerto e opinabile campo delle ipotesi sulle reali attitudini e pratiche visionarie del poeta. Nulla d'altra parte indica in modo esplicito cosa Dante per suo conto abbia creduto in merito alla verità del viaggio in corpo e anima - in caso, ovviamente, verità per lui, non per noi -. Diversa cosa è affermare, sulla base delle inequivoche indicazioni del testo, che egli abbia avuto la certezza di essere stato soggetto di una visione soprannaturale (qualunque ne sia stata la natura). Questo è il punto fondamentale. E in relazione ad esso va definita la forma di strutturazione - l'allegoria - del poema. Se Dante non ha creduto alla verità del viaggio in corpo e anima, l'allegoria da lui voluta non può che essere di tipo poetico. A me, come discende da quanto già osservato, sembra ragionevole assumere che egli non potesse credere alla verità storica del viaggio in quanto esperienza reale. Ma è chiaro che questa è una decisione interpretativa fondata su criteri di probabilità e verisimiglianza, non su procedimenti dimostrativi di statuto scientifico. E non credo comunque che sia possibile andare oltre.
In secondo luogo, è la stessa nozione di allegoria teologica come forma del poema che produce difficoltà, incoerenze e veri e propri errori. La polisemia dell'opera non può essere analoga a quella dei libri vetero-testamentari, poiché (è fin troppo ovvio) il suo secondo livello, l'allegorico vero e proprio o tipologico, non prefigura, e non potrebbe essere diversamente, fatti destinati a realizzarsi con l'incarnazione. Non può neanche essere analoga a quella dei libri neo-testamentari, poiché nessun elemento del poema può essere ritenuto vero in sé e contemporaneamente allusivo ad eventi che dovranno realizzarsi nel corso della storia dell'umanità cristiana. Insomma, se il secondo livello di senso dell'allegoria dei teologi coincide col tipologico, si può sicuramente dire che nulla di tipologico sia nella Commedia.
A questa rigorosa legge non si sottrae neppure la nozione di figuralità applicata dall'Auerbach al rapporto tra terreno e sovraterreno a proposito delle anime. Il rapporto di figura e compimento tra l'essere terreno dell'anima e la sua realtà d'oltretomba appartiene più al nesso aristotelico di potenza e atto che a quello di figura e sua realizzazione e potenziamento storici. L'uso che egli fa della terminologia figurale non si innesta, bisogna dirlo francamente, in modo pertinente entro la forma tipologica del pensare medievale, che è sempre in prospettiva storica e di storia generale, ma è piuttosto l'estensione metaforica di un sistema di idee.
Tutto ciò porta a riconoscere la poeticità - in ordine alla struttura allegorica - della lettera del poema. E tuttavia, se si ammette tale poeticità, bisognerà anche riconoscerne il particolare carattere, tutelandosi così dal pericolo di svuotare la costruzione dantesca, facendo di quella stessa lettera una semplice veste poetica, da recepire come fatto puramente formale, letterario, tecnico, entro cui si possa ritrovare una generica verità di ordine sapienziale e/o morale. Non va dimenticata la lezione di Nardi, che, del resto, è alla confluenza di una lettura inaugurata dal Foscolo. Si tratterà di definire la specificità di un'allegoria poetica fatta nella sua reale complessità di significati in sé veri - e non è un paradosso -. Il poema dantesco infatti, anche sul terreno della plurisignificanza, è un unicum. Perciò, come si vedrà, la consistenza poetica dell'allegoria non minaccia per nulla la verità dell'insieme. E la dilemmaticità della scelta così alla fine si sdrammatizza.
Bisogna preliminarmente acquisire la nozione della dialettica duplicità della costruzione del poema99. Vanno tenuti rigorosamente distinti in prima approssimazione i due momenti, quello oggettivo e quello soggettivo, per dir così; vale a dire, quello costituito dai dati che sono «oggetto di apprendimento»100, e quello costituito dall'esperienza d'eccezione di Dante, il viaggio. Il primo, che è la condizione del mondo di là, può essere vero anche nella lettera, rispondendo ad un'esperienza visionaria, comunque vissuta. Il secondo, per quello che si è detto sinora, può esserlo solo nel senso riposto. La confusione dei due momenti ha determinato le ambiguità e le incertezze nella definizione della natura del poema. I due momenti sono però dialetticamente connessi. E poiché è il secondo momento quello che costituisce l'intreccio del poema e ne è il tema primario, la qualità complessiva dell'opera deve dedursi da questo. Si dovrà concludere che il poema, come organismo, è costruito secondo l'allegoria dei poeti, e che non possono essere considerati veri tutti quei luoghi che hanno diretto rapporto col motivo del viaggio e non sono pensabili indipendentemente da esso. Per questa componente mitico-allegorica del poema, Dante può essere annoverato tra i poeti "filomiti" e "teologi", inventori di miti significanti le massime verità filosofico-teologiche101.
Occorre che venga approfondita la qualità del primo senso della Commedia, quello letterale nel suo momento soggettivo, il motivo del viaggio cioè, intendendone anche gli altri sensi che esso contiene, che costituiscono il significato spirituale e mistico del poema. E si dovrà comprendere come sono costruiti i personaggi più strettamente legati al motivo del viaggio, cioè lo stesso Dante e le sue guide. Questi sensi debbono essere colti, come prescriveva lo stesso autore, dopo un sicuro accertamento della lettera e senza forzature esegetiche. Il secondo senso, l'allegoria, è pertinentemente suggerito appunto dalla lettera sia attraverso la rappresentazione del progressivo apprendimento del personaggio Dante e dell'innalzarsi delle sue capacità di conoscenza sia dagli snodi fondamentali dell'intreccio: l'iniziale invito ed autorizzazione al viaggio, la spiegazione fornita a Catone del senso del viaggio, il riconoscimento di Virgilio, alla soglia del paradiso terrestre, della raggiunta libertà, giustizia, sanità da parte del pellegrino, la scena di pentimento, confessione e assoluzione, nel paradiso terrestre, e la finale visione di Dio. Siamo facilmente indotti a capire che il viaggio non è che il figurante, la lettera, di un figurato, la verità allegorica. E questa è un itinerario interiore102, un itinerario appunto che si è svolto in una dimensione interiore, nella mente e nella volontà del protagonista, ed è consistito in una serie di atti intellettuali, etici ed affettivi in stretta interazione: la presa di coscienza di una situazione di errore, la decisione di riscattarsi, la riflessione sul male e sul bene, la riconquista del libero arbitrio, la riconciliazione con Dio, la conoscenza dei massimi veri e la contemplazione finale di Dio. È il classico itinerario contemplativo e ascetico fatto di conoscenza e di volizioni. E la forma nel suo insieme è riconducibile, ma con fondamentali avvertenze di cui si dirà, alla struttura della parabola.
L'itinerarium in Deum di Dante, che costituisce dunque il secondo senso, è però eccezionale, se non unico, e lo suggerisce, anche questo, la lettera del poema. Questa rappresenta il protagonista in una situazione del tutto straordinaria, la visione in corpo e anima della realtà ultraterrena103. È un'indicazione che non solo non deve essere trascurata, ma deve essere posta in assoluta evidenza, altrimenti tutto il senso del poema risulterebbe alterato. Se è finzione la condizione di visione corporale del mondo di là, non può essere finzione - nel contesto spirituale e culturale del Medioevo - l'indicazione in sé di una eccezionalità di situazione. Si deve dunque dedurre che l'itinerario interiore si è svolto in condizioni di divina illuminazione, quando non anche di visione divinamente ispirata, e insieme di pieno possesso delle facoltà percettive e razionali. E questa stessa condizione ha un'ulteriore specificazione, che è l'assunzione e la preparazione al compito profetico. Anche di questo momento del sistema dell'opera sono proposti nei luoghi deputati gli snodi essenziali, che si dialettizzano con gli altri già indicati dell'itinerario del Dante personaggio104.
È per questo che il viaggio di Dante non può essere in nessun modo considerato diretta allegoria del viaggio di tutti i cristiani. È invece analogo al viaggio di quanti furono o saranno dotati di grazia per una particolare missione, il viaggio di Mosè, di Enea, di Paolo. Soggetto dell'itinerario non è infatti l'uomo cristiano in astratto, ma un individuo esistenzialmente determinato. Era questa l'istanza interpretativa che determinò tutta la costruzione critica dell’Auerbach. Se fosse diversamente, non avrebbe senso né la destinazione profetistica, emergente dal racconto letterale, né la serie di relazioni in questo stabilite con le anime in un certo modo sol perché l'eroe è un certo uomo (un fiorentino del Due-Trecento, un guelfo bianco, un uomo di dottrina e un poeta, ecc.). Così il personaggio Dante è un individuo determinato sia nel figurante che nel figurato. Un tipo di personaggio che sembra discendere dal virgiliano Enea, medievalmente e dantescamente interpretato. Una realtà del personaggio espressa unitariamente dal duplice livello di significato, letterale e allegorico. È solo per un'ulteriore mediazione che in essa s'innesta un'altra, certo implicita e connaturata, dimensione di significato. L’eccezionalità infatti non esclude che in lui, in quanto uomo e per quel che di universale è nella sua particolare vicenda, si rispecchi e ripeta ancora la vicenda di pentimento e santificazione cui ogni cristiano deve tendere. E contemporaneamente, egli può simboleggiare anche la cristianità senza guida e smarrita in terra. Sono tutti significati ottenuti per analogia e insieme operanti ad ispessire di ulteriori valori semantici e dimensioni espressive il grande tema del viaggio.
Riduttiva perciò risulta essere l'operazione critica di Singleton, che fondava certo il suo discorso sulla condizione di eccezionalità del viaggio, ma per connetterla a quella lettera che egli dichiarava ambiguamente reale e appoggiare a questa quello che egli riconosceva come secondo senso del poema: proprio e soltanto la vicenda generale del pellegrinaggio terreno di ogni uomo105. Troppe cose rimangono fuori da questo schema, e tra queste, per passare ad altro terreno, anche l'umanità e la poesia106. Il significato individuato dal critico per di più può essere mediato anche da una lettera poetica, come una tradizionale esegesi aveva visto. Non era necessario riguadagnare la nozione di allegoria teologica e di tipologia, e forse neanche la lezione, per di più incerta e contraddittoria, dell'Epistola XIII.
A partire dal riconoscimento della verità del poema nell'itinerario si possono dedurre gli altri due significati mistici. Nel terzo, quello morale, risiede il finalismo del messaggio. L'esperienza interiore del protagonista, cioè il suo itinerario contemplativo-ascetico, pur nel1' eccezionalità, è inscrivibile in schemi universali. I momenti di esso quindi possono essere validi come modelli o esempi di comportamento per ogni cristiano: vi è implicito tutto un sistema di indicazioni di ordine disciplinare e morale. Il quarto senso, l'anagogico, può essere dedotto dalla vicenda di Dante e nella forma letterale e in quella allegorica, visto che attraverso queste si rappresenta anche il tendere dell'anima verso i destini ultimi, che, anzi, nella loro esplicazione conoscitiva e visionaria, profetistica cioè, esse si riferiscono immediatamente alla realtà ultima. Assomigliano a Dante personaggio, dal punto di vista della costruzione letterario-allegorica, le figure delle guide. Anche la loro realtà ricorda quella dei personaggi di Virgilio e Lucano. Esse non sono rappresentate appunto come astrazioni personificate, ma come persone storicamente e biograficamente individuate. Proprio in quanto tali, per quel che esse hanno fatto ed operato in vita, per quel che è stato il senso della loro vita terrena e che rimane il senso della loro vita oltremondana, possono incarnare un significato che in un certo senso le trascende. Senza perdere nulla della propria individualità, anzi attuandone il senso più autentico, esse possono simboleggiare, oggettivamente, i diversi tipi di divino intervento predisposti per l'attuazione dell'itinerario di Dante. Possono per di più avere questa funzione, perché in vario modo la assolsero già storicamente nei confronti di Dante, nelle tappe della sua vita terrena. E tuttavia in quanto e per quanto esse partecipano del momento letterale del viaggio e delle sue finzioni, la loro è una realtà letteraria di tipo poetico.
È possibile invece ritenere vera e storica una parte cospicua della lettera, quella ascrivibile al momento oggettivo, l'oggetto della visione, che è il fine del poema. Dalla verità dell'illuminazione divina discende la verità degli oggetti di apprendimento, insomma la verità del messaggio profetico. In proposito bisogna ricordare che Dante già nel Convivio sosteneva la possibilità di un quadruplice significato dei testi poetici e che, nello stesso trattato, mostrava di ammetterne la veridicità storica e insieme la potenzialità plurisignificante, come nel caso delle opere di Virgilio e Lucano soprattutto. Anche il momento oggettivo del suo poema dunque poteva avere una tale strutturazione. Molte delle verità oggettive, si capisce, non hanno e non possono avere se non senso letterale. Un loro simbolismo (un simbolismo spesso a più gradi) hanno invece le realtà di ordine precisamente escatologico: animali, cose, situazioni, anime. Si tratta soprattutto di significati di ordine etico, e questi si collegano al terzo senso della funzione del viaggio e lo integrano. Così il quarto senso del viaggio è integrato da tutto il momento escatologico riguardante la gloria del paradiso, che ne costituisce la specifica materia. Le anime però, bisogna aggiungere, nel momento in cui entrano in contatto con Dante e compiono gesti ed esprimono enunciati che hanno valore in rapporto a lui, sono coinvolte nel motivo soggettivo del viaggio, vale a dire nella finzione, e quindi agiscono ed hanno funzione come figuranti dell'allegoria poetica.
E' una costruzione assolutamente unica107, che si pone come tentativo - nello spirito della teoria allegorica del Convivio - di unire in ardita sintesi le due forme di allegoria, la poetica e la teologica (in senso lato). Un tentativo di tanta maggior significatività, in quanto vuol essere una risposta di portata globale all'orientamento della cultura tra Tredicesimo e Quattordicesimo secolo in ordine alla visione · del mondo e alla metodologia del conoscere108. Alla lettura dell'universo come un insieme di fenomeni orizzontalmente dislocati e correlati egli oppone la visione più tradizionale, organica gerarchica e piramidale. Un episodio dell'opposizione tra «simbolico» e «segnico», secondo la terminologia della Kristeva109. E a questo quadro va ricondotto anche il rapporto di consenso-dissenso nei confronti delle posizioni di Tommaso. Ma, e qui è l'altezza della scommessa e la spiegazione storica della sintesi delle due allegorie, Dante si oppone al nuovo pensiero e alla nuova cultura, pur partecipandone. Lo dimostra il fatto che egli assegni nel pensiero e oggettivamente nell'arte pienezza di realtà - non certo autonomia - alle forme contingenti della natura, della storia e dell'esistenza. La sintesi delle allegorie era funzionale alla rappresentazione e alla proposta di un mondo orientato verso un punto che lo trascende, ma insieme tutto dotato di senso e valore per effetto di quella stessa tensione.
L'unicità di una siffatta costruzione ha però una sua forma di fondazione letteraria in ordine al genere. Altrove abbiamo dimostrato il carattere ispirato della poesia dantesca, in relazione alla costruzione profetico-apocalittica dell'insieme110. È una costruzione questa che permette di accettare la lettera o, come si è detto, parte di essa, come finzione, favola, parabola - era comune il riconoscimento dell'affinità tra poeti e profeti -, ma di salvarne ad un tempo l'intera portata rivelazionistica e visionaria, poiché quella stessa lettera è pensabile come frutto di ispirazione divina. Se Dio ha ispirato l'opera sia nel contenuto che nella forma, il fatto che questa, nella sua struttura e composizione narrativa di base, sia figurata e parabolica non esclude - come non la esclude la figuratività dei testi profetici e apocalittici - l'assolutezza del senso spirituale in essa racchiuso, ma solo attraverso essa conoscibile.
Quanto detto fin qui vale a definire i modi e i termini della costruzione del contenuto. Della sua qualità e forma, sul piano dell'espressione, nulla è stato detto. L'allegoria di per sé - si diceva all'inizio - non è né poetica né non poetica né antipoetica. La moderna esclusione della poeticità dell'allegoria risale alla distinzione goethiana tra rappresentazione allegorica e simbolica, fondata sulle distinzioni di base (tipiche della filosofia classica tedesca) tra idea e concetto, ragione e intelletto. Si ha il simbolico111 quando si converte in immagine l'idea, mentre si ha l'allegoria, quando diviene immagine il concetto. Nel simbolico l'idea traspare, ma non è esaurita, e si ha un'espressione polivalente; nell'allegoria il concetto è del tutto assorbito e l'espressione è monovalente. Nel simbolico il particolare rimanda all'universale, senza perdere nulla della propria realtà, ed è la poesia; nell'allegoria il particolare deve veicolare l'universale, e in esso si perde, divenendo concetto112. Tutto ciò si può tradurre nei seguenti assiomi: la poesia nasce, allorché una particolare immagine è capace di esprimere un universale; l'allegoria non è poesia, perché univoca, priva di spessore espressivo. Indicazioni del medesimo genere si ricavano dall'estetica hegeliana. L'allegoria, secondo questa, è una delle forme dell'arte simbolica e segna la seconda fase della dissoluzione del simbolismo stesso, allorché il significato (universale) diviene, nel rapporto con la forma che lo esprime, elemento dominante e la asservisce. La non poeticità dell'allegoria deriva, tra l'altro, dall'impossibilità che l'universale si faccia veramente «soggetto», dato che la soggettività, perché possa esprimere l'astratto, deve svuotarsi di ogni «individualità determinata» e finisce quindi con l'essere un segno in sé senza significato113. Anche per il De Sanctis il figurante, in un contesto allegorico, è semplice «personificazione o segno delle idee», non ha quindi vita autonoma, cioè realtà poetica.
Il Croce per conto suo esclude perentoriamente e semplicisticamente la possibilità che l'allegoria sia poetica o che la poesia sia allegorica. A suo modo di vedere, un pensiero che si voglia presentare come secondo senso del livello letterale di un discorso o viene attribuito a posteriori ad una composizione poetica già esistente o viene tradotto in un nuovo e strumentale sistema di immagini. Nel primo caso il pensiero rimane estraneo alla poesia stessa e questa rimane «intatta»; nel secondo il sistema di immagini non sarà poetico. L'esistenza dell'allegoria fa sì appunto che l'espressione che si vuole poetica finisca di essere immagine, cioè poesia, e diventi «segno»114. Nella direzione hegeliana si muove il pensiero di Lukàcs, che vede nell'allegoria una radicale «cesura tra il rispecchiamento sensibile-umano della realtà e quello concettuale-disantropomorfizzante». Il rapporto tra immagine e contenuto è del tutto astratto, poiché il figurato trascende il figurante e quindi non vi è implicito. Non si raggiunge quindi la «tipicità esemplare» o «particolarità»115.
Queste teorizzazioni in verità si fondano quasi costantemente sulla rappresentazione dell'allegoria come non più e non altro che la personificazione. In ogni caso essa viene considerata come una costruzione che attribuisce arbitrariamente un determinato significato, astratto e trascendente, a oggetti concreti del mondo naturale. La non poeticità dell'allegoria deriva fondamentalmente dalla natura del rapporto tra figurante e figurato, che è tale, e perché arbitrario e perché unidimensionale, da vanificare la autonomia significante di uno dei termini, per lo più del figurante. Anche le più recenti riflessioni, da Frye a Gadamer, a Fletcher, a de Man, a Luperini116, pur introducendo nuovi punti di vista e fondandosi su aggiornati supporti culturali e metodologici, concordano nel riconoscere nelle forme allegoriche una condizione di dismisura, di limitata o imperfetta o inesistente corrispondenza tra le sue componenti. E questa è certo la condizione statutaria della costruzione formale che chiamiamo allegoria. Ma, nel quadro delle attuali convinzioni sulla natura dell'arte, specie dopo l'ammissione della sua consistenza anche razionale e tecnica, un tale riconoscimento non può implicare e autorizzare deduzioni di ordine valutativo. E ciò anche in dipendenza dall'estinzione delle valenze filosofiche e anche ideologiche che furono connesse alla definizione delle nozioni di simbolico e allegorico. Visioni del mondo sia simboliche che allegoriche possono ugualmente aver accesso alla poesia, purché siano mediate da una forma polisemica. E poi, non è forse da riconoscere che la non-corrispondenza dell'allegoria, se deve mediare una realtà di disgregazione e disordine, sia essa stessa una delle forme del simbolico? Il che escluderebbe una differenza statutaria. E tuttavia la teorizzazione cui si è fatto riferimento può apparire poco pertinente alla realtà della Commedia come è stata qui descritta. La distinzione tra allegorico (non poesia) e simbolico (poesia), nel senso instaurato da Goethe, in epoca post-crociana ha avuto ampia fortuna nella critica dantesca ed è stata applicata alla lettera del poema (Huizinga, Bezzola, Roncaglia, Bosco, Pagliaro). Si è voluto ridurre al minimo in questo il numero delle allegorie e classificare come simbolici la maggior parte dei luoghi di evidente plurisignificanza o, più opportunamente, si è tentato di ricondurre alla natura a del simbolico l'insieme dell'opera e a riconoscerne come allegorici solo certi luoghi117.
Ma, una volta riconosciuta l'allegoricità del tema del viaggio, che è quello strutturalmente dominante, il problema appare ben più complesso e va posto e risolto con diversa metodologia. Nella Commedia, come si è detto, i personaggi - limito l'attenzione a quelli di natura umana - hanno tutti una loro individuale realtà, sicché non appaiono come enti allegorici bensì come exempla di determinati modi di intendere e condurre l'esistenza terrena e del corrispondente esito ultraterreno. Per il loro dialettico riferimento alla totalità, possiedono tutte le caratteristiche del simbolico. E quindi avrebbero, secondo la concezione tradizionale, l'accesso più sicuro alla possibilità della poesia. Allegorico è invece il tema del viaggio oltremondano. Ma la relazione tra questo (figurante) e il viaggio interiore ed esistenziale di Dante (figurato) non è arbitraria, perché tra essi esiste evidente analogia: entrambi hanno un processo di svolgimento verso una meta. Questa addirittura, l'ascesa a Dio come esperienza conoscitiva e affettiva, è identica. A chi inoltre conosca le caratteristiche fondamentali della mentalità medioevale, la connessione tra figurante e figurato, tra viaggio oltremondano e itinerario interiore cioè, appare ovvia e spontanea, come poteva apparire a un lettore contemporaneo (ns). Per quest'aspetto, anche l'allegorico qui è della natura del simbolico. Altrettanto evidente è però che il senso riposto assorbe e annulla quello letterale. Abbiamo detto infatti che gli elementi della rappresentazione riguardanti direttamente o indirettamente il viaggio non sono pensabili come significanti un’esperienza realmente fisica. Essi significano soltanto il processo di interiore elevazione, e quindi il senso riposto. Sono quindi di natura nettamente allegorica, e avrebbero - stando alle impostazioni tradizionali - quella univocità, che, non possedendo la pregnanza della «particolarità» (uso la nozione lukacsiana), produce il non poetico. La lettera del tema del viaggio, si dovrebbe concludere, benché, nei confronti del secondo livello di senso, non arbitraria, anzi ovvia e spontanea, quanto a ideazione e analoga quanto a direzione, non possiede vera autonomia di valore semantico, perché, su un piano di astratta deduzione, è distrutta dal senso riposto. Ciò vuol dire che il significato della lettera non è in realtà che significante di un significato, per così dire, di secondo grado. È insomma il parabolico. Ma questo - eccoci al punto - non si traduce necessariamente in un accertamento di univocità semantica e quindi di non poeticità. Se la lettera funziona come mediazione ad un significato di secondo grado e non ha una sua autonoma polisemia, la poeticità del poema deve essere cercata e definita nel contesto dell'opera quale è in realtà, un contesto appunto fatto di significati letterali a loro volta significanti. Insomma, è il secondo senso che, nella forma in cui è espresso, deve potersi porre come espressione poetica, come luogo della pregnanza semantica o, con altra e ancora valida concettualizzazione, come tipicità caratteristica o «particolarità», e la poeticità deve essere realizzata proprio dal particolare tipo di forma risultante da un siffatto procedimento allegorico: una forma metaforica.
La metafora consiste nell'uso di un segno designante un certo oggetto al posto di un altro designante un altro oggetto. I due segni tuttavia devono possedere qualche comune elemento mediante di somiglianza. Il significato reale però che la sintesi metaforica deve indicare è quello del significante sostituito, non quello del significante sostituente, anche se il secondo contribuisce ad arricchire connotativamente il primo di determinazioni e attributi. La metafora pertanto è un «rapporto di somiglianza-dissomiglianza», vale a dire un «complesso logico-intuitivo»118. La relazione esistente nella Commedia tra lettera e allegoria è quella stessa che collega veicolo e tenore nella metafora, una relazione appunto che è fatta di somiglianza (analogia tra viaggio oltremondano e itinerario interiore), ma anche di accostamento di segni appartenenti a campi diversi (accostamento di due «specie», avrebbe detto Aristotele per il poema). Ma non insegnava l'antica retorica che l'allegoria è una metafora continuata? Come nella metafora, il significante improprio (o letterale), mentre va soprattutto inteso nel suo valore traslato (il secondo senso), costringe tuttavia a scorgere nello stesso significato (allegorico) prospettive e rapporti da cui esce più riccamente e profondamente connotato119.
Ma, come la metafora non è di per sé poetica, poiché la sua polisemia genetica può estenuarsi nella sostanziale univocità della catacresi o estinguersi del tutto, così non lo è di per sé il procedimento allegorico del poema, pur nella specificità qui rilevata. Così come la metafora, può essere poetico ove raggiunga la reale condizione della densità semantica e della tipicità. E non è chi non sappia di quanta forza espressiva conferisca al poema proprio la potenza rappresentativa della sua lettera! Ma qui si voleva solo discutere della condizione strutturale ed estetica dell'allegoria del poema, non della sua qualità come forma poetica.

Notes
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30
31
32
33
34
35
36
37
38
39
40
41
42
43
44
45
46
47
48
49
50
51
52
53
54
55
56
57
58
59
60
61
62
63
64
65
66
67
68
69
70
71
72
73
74
75
76
77
78
79
80
81
82
83
84
85
86
87
88
89
90
91
92
93
94
95
96
97
98
99
100
101
102
103
104
105
106
107
108
109
110
111
112
113
114
115
116
117
118
119
Date: 2021-12-25