La critica dantesca in America: la lezione singletoniana [Dante Della Terza]

Dati bibliografici

Autore: Dante Della Terza

Tratto da: Strutture poetiche, esperienze letterarie, percorsi culturali da Dante ai contemporanei

Editore: Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli

Anno: 1995

Pagine: 83-98

La formazione intellettuale di Charles Singleton presenta un iniziale versante d'impegno filologico. Il 1936, che è l'anno della tesi dottorale sostenuta a Berkeley, segnala anche il primo lavoro dello studioso, l'edizione dei Canti Carnascialeschi del Rinascimento pubblicata in una collana prestigiosa: gli «Scrittori d'Italia» del La terza .
Nel 1936 il Singleton non ha che ventisette anni, ma la nota di critica testuale che fornisce ragguagli dei percorsi esperiti, possiede una sicura professionalità: è spoglia di ridondanze, essenziale e vincolata alle cose. Il critico neofita riprende tra le mani il testo adottato dal Lasca, riesamina la controversia tra questi e l'Ottonaio e, tra il primo che, sospettoso della scrittura di «libri scorrettissimi e scritti alla mercantile» non esita a manipolarli e il secondo, che auspica un ritorno alla lezione di certi codici antichi, sceglie, come era ovvio che facesse, gli «auspici» di quest'ultimo. Un recente editore dei Trionfi e canti carnascialeschi del Rinascimento, Riccardo Bruscagli, ha riconosciuto, nella sua edizione del 1986, al Singleton ed alla sua ricerca filologica i meriti di loro spettanza .
Più complesso appare l'itinerario che porta il Singleton all'edizione, sempre laterziana, del Decameron che è del 1955 . Anzitutto, tra il '36 ed il '40 lo studioso si mobilita ad esplorare in Europa biblioteche ed archivi, da assorto e motivato «clericus vagans». Una lettera del 16 luglio 1939 lo sorprende a Firenze attento alle sorti della prestigiosa collana del Laterza passata dalle mani di Santino Caramella a quelle di Luigi Russo. L'interlocutore è l'harvardiano George Benson Weston che avendo già pubblicato presso Laterza nel 1930, sotto gli auspici del Caramella, il Morgante di Luigi Pulci, stava ora procedendo ad una revisione del testo ed intendeva discuterne col nuovo direttore della collana. Accennando al Caramella, il Singleton sorvola sulla crisi personale del filosofo, passato dalla coraggiosa vicenda della direzione postgobettiana del «Baretti» ad atteggiamenti di compromissione col regine dominante, che avranno serie ripercussioni sulla efficacia intellettuale e, in ultima istanza, sulla sua salute. «Russo is a fine sort», si limita a dire lo studioso, «and is far more intelligent than his predecessor» . Davanti agli occhi dell’anziano collega harvardiano timoroso di innovazioni, nella condotta editoriale della collana, che lo coinvolgono, si chiude un orizzonte di speranza.
L'episodio boccacciano, però, subisce proroghe impreviste a causa degli eventi bellici. Dal 1940, quando per dichiarazione del Singleton ha inizio il lavoro editoriale intorno al testo del Decameron, a 1955, anno della sua pubblicazione, intercorre un intero quindicennio. Ma già a partire dal 1938, nel corso di un biennio, lo studioso si era dedicato allo spoglio dei manoscritti dispersi in molte biblioteche e si era mosso mentre le condizioni politiche rendevano gli spostamenti nel perimetri di ricerca ancora do agibili, difficili e pericolosi. Solo negli anni del dopoguerra, quando il Singleton potrà rimettere mano al lavoro interrotto, si farà raggiungere da Mignani due collaboratori di ambiente fiorentino, Arnolfo Ferruolo e che si disporranno ed aiutarlo nella esplorazione e nella schedatura dei manoscritti del Decameron. Questa collaborazione segnerà per loro l’inizio segniche dello studioso, di una lunga carriera americana. Le scelte metodologiche dello studioso, la filologia testuale adottata, lo pongono certamente ad operare in ambiti dove i referenti autorevoli sono Michele Barbi e Mario Casella. Dal saggio del Barbi del 1927: Sul testo del «Decameron» apparso in «Studi di filologia italiana» gli deriva la distanziante cautela con cui è portato a trattare il Codice Mannelli, privilegiato da Aldo Massera nell’edizione laterziana del 1930, e, almeno in parte, lo scetticismo che egli intrattiene circa la presenza ipotizzata di un autografo boccacciano e circa la preferenza per un codice solo, fosse anche lo Hamilton, di cui egli si disporrà a dare, con l’aiuto di un esperto paleografo, Armando Petrucci, una trascrizione diplomatica nel 1974 .
Ma, vorrei porre da canto questo abbozzo di discorso circa le vicende del testo del Decameron rimasto aperto a complessi dibattiti, per segnalare il rientro del Singleton negli Stati Uniti e per esplorarne significati e ripercussioni. Ame pare che tale ritorno si colleghi ad una straordinaria inversione di rotta nella sua attività di ricerca ormai indirizzata all'esplorazione del testo dantesco e «quasi» unicamente ad esso. Del 1949 è, infatti, il suo scritto sulla Vita Nuova; rispettivamente del 1954 e del 1958 i suoi due libri sulla Commedia dantesca. Che il mutamento di prospettiva che vede lo spostamento delle coordinate d’indagine dalla filologia testuale all’esegesi e, che privilegia un «grande» autore ed uno soltanto, rientri nell’ambito delle scelte di gusto e delle opzioni del «New Criticism» americano, è ipotesi non del tutto implausibile. In fondo, la «Kenyon Review», dove egli si intrattiene a rendere espliciti i suoi propositi più personali sulla Commedia dantesca e sull’allegoria che le fa da supporto, e la «Hudson Review» dove egli discetta sulle mosse conclusive del poema, sono palestre di convergenze intellettuali che egli non disdegna di frequentare . Ma, non è la latitudine delle sue frequentazioni che veramente conta. Occorre piuttosto tener presente che, indipendentemente dall’orientamento generale dei propositi critici che possono più o meno intensamente inserirsi nella civiltà mentale che ci aiuta a qualificarli e a decifrarli, esiste una vocazione personale dello studioso che non è lecito trascurare. Nella sua pratica di dantista, al reperto che si affida nello scandaglio euristico all’acquisita consuetudine con una tradizione ininterrotta, egli preferisce, nettamente, il dialogo col testo. E questo non per disdegno o per acquisita protervia verso il passato, ma perché assistito dalla certezza di aver scelto un proprio personale cammino verso la verità del testo e di dovervisi attenere.
Deriva da ciò il fatto, a mio parere straordinario, che la sua vocazione di dantista comporta subito un salto di qualità nello stile del suo discorso, un assorbimento senza rinvio delle rigorose scelte mentali nelle risorse critiche mobilitate, una autentica originalità di scrittura. Il discorso, inizialmente lucido, acclarato da una sua fluenza e rigorosa prevedibilità, si fa improvvisamente denso, agglomerandosi intorno ad un punto di rivelazione che ha una sua funzionalità propulsiva. Esso funziona da scintilla che, illuminando lo spazio dell’intuizione produce uno scatto in avanti della tesi esperita, un salto di qualità nella dimostrazione, che soltanto ora, a rivelazione avvenuta, può indirizzarsi ad un suo determinato fine attardandosi nella descrizione della verità trovata. Costituisce questa la zona non forse più profonda, ma più facilmente identificabile dell'influenza del Singleton sulla dantistica americana. La «voce» del maestro appare catturata nelle sue concrezioni più vistose, negli stilemi e nelle maniere che più da vicino la ricordano. In un saggio Interessante, scritto a contestazione dei momenti salienti dell’interpretazione singletoniana della Vita Nuova e tutto volto a determinare il significato allegorico della personalità di Beatrice in vita ed in morte, Richard Kay, giunto all’istante di rivelazione del suo proposito, al momento in cui il procedimento intenzionale si rivela nella risorsa scrittoria, non può trattenersi, singletoneggiando, dal sottolineare l’importanza della sua trovata: «If we are to gloss anything about the death of Beatrice then this must be it!» (se c'è una glossa da proporre sulla morte di Beatrice, eccola qui, cui l'abbiamo a portata di mano!). This must be it! È questo il modo con preferenze, il Singleton attrae consuetamente il lettore nella cerchia delle sue all’interno nell'ambiente visitato dal suo fervore: l’effetto che se ne detrae dell'orizzonte d’ascolto è spesso galvanizzante.
Ricordo che a me che sbarcavo in America addestrato alla critica da maestri così diversi da lui pareva singolare questo suo modo perentorio di affrontare il lettore, di ingiungergli di «chiudere il libro» qualora non si fosse sentito in grado di esorcizzare la carica deviante derivatagli da pregiudiziali umanistiche, di ritrovare in sé l’afflato di consenso e la tensione partecipe del lettore coinvolto, del lettore medievale. Capro espiatorio di una tale ingiuntiva disamina si rivelava essere «il filosofo dell’estetica», chiunque cioè allevato alla scuola del Croce, intendesse rivolgersi al testo dantesco, non per scoprirlo, ma per riportarlo ai capisaldi della propria metodologia, adattandolo ad essa. Il traduttore italiano del libro del ’58 Journey to Beatrice ha avuto qualche difficoltà nel rendere per il suo pubblico l’espressione di diniego di ogni cittadinanza all’ingresso delle istanze portate avanti dall’Estetica, nel territorio dantesco. Laddove il testo inglese: «There has been method in the madness of such a view» (la follia di tale opinione è stata perseguita con metodo) il traduttore aveva dovuto accontentarsi di denunciare, smorzando il tono dell'originale, «un così discutibile metodo di lettura» . L’attenuazione risulta, ovviamente, comprensibile e, personalmente, non posso non condividerla. Ritengo però ora, dopo aver acquistato miglior consuetudine con il testo dello studioso, che l’esuberanza della sua condanna vada decifrata e letta all’interno di un codice interpretativo che dà ad essa particolare forza euristica, un’intensa validità metaforica. Si tratta per lui di proporre in termini non ambigui quello che si suole chiamare il problema della ricezione, ma riportandolo anzitutto ad una tematica interna al poema stesso, allo spazio d’individuazione del ruolo sostenuto da un personaggio che si pone accanto al poeta che scrive e al pellegrino che si espone al viaggio: il lettore che accompagnando quest’ultimo con l’occhio della mente e con cuore fraterno nell’aldilà procede nell’itinerario che gli compete «nel cammino di nostra vita». La polemica del Singleton così in qualche modo si spersonalizza, diventa un aspetto vicario della sua interpretazione ed è ad essa riconducibile. Essa serve ad introdurci, con veemenza, all’interno di quella che egli chiama l’interpretazione «allegorica» del poema dantesco e a scandagliarne lo spessore. È questo il campo più fecondo di scoperte per il critico che, nell’esplorarlo, procede affidandosi ad una sensibilità raffinata, ma non speciosa, districando le immagini dall’involucro narrativo che le sottomette e le attenua e restituendo loro la tensione assoluta che le proietta verso uno spazio di pertinenza e di conquista.
Ecco, ad esempio, il rilievo d’individuazione che il critico intelligentemente fornisce al suo proposito di lettura allegorica, recuperando nel corso del capitolo dedicato, appunto, all’allegoria, una terzina altamente significativa per il fine dimostrativo che egli si propone, ma che abbandonata al suo destino potrebbe rimanere confinata ad espletare una funzione minimale di semplice raccordo episodico:

E fa ragion ch'io ti sia sempre allato
se più avvien che fortuna t’accoglia
dove sien genti in simigliante piato
(Inf. XXX, 145-47)

L'interprete distacca con intuito folgorante i versi dal contesto dell’episodio che mette a grottesco confronto mastro Adamo de Anglia e «Sinon greco di Troia» per riproporli nel riquadro che coinvolge l’intera allegoria del poema. Virgilio, nel rimproverare a Dante la sua partecipazione al distraente spettacolo dell’ardito confronto verbale tra i due falsificatori, si propone nella funzione di guida discriminante e razionale, hic et nunc, nel basso Inferno, ma anche nel cammino della vita dove Dante si continuerà ad avere bisogno del suo Virgilio. Dante pellegrino che si distrae dal proprio tirocinio di anima alla faticosa conquista della luce della Grazia, si ripresenta nell’evocazione virgiliana, nel suo spessore corporeo sulla scena del mondo, si trasforma nel personaggio-lettore a cui si riferisce l’allegoria del poema; lettore ed utente del proprio poema . Ma, procediamo con un certo ordine. Charles Singleton scrive nel 1949 An essay on the Vita Nuova nel corso del quale sottolinea i tracciati analogici che collegano la vita di Beatrice a quella di Cristo. L’interesse si concentra, come di solito accade nella critica del Singleton, sul metodo di scrittura adottato da Dante. Si tratta di analogia non di allegoria, egli dirà, e il filo che tiene unita la vita di Cristo è il proposito salvifico che guida entrambi sulla terra nella missione che si sono assunta e dalla quale si dipartono con promessa di sicuro ritorno. Beatrice enuncia dunque, in nube et in aenigmate, attraverso la sua vita, la vita di Cristo. Ora, proprio su questo tema è ritornato uno studioso da me citato, Richard Kay, noto ai dantisti americani per un voluminoso scritto dedicato al XV canto dell’Inferno. In un saggio molto impegnato intitolato Dante’s birthday and the departure of Beatrice il Kay sostiene che la priorità dei suoi interessi di lettore del testo dantesco lo portano ad individuare la zona della Vita Nuova dove domina l’allegoria. Il segnale travolgente della presenza di questo costante sostegno della concettualizzazione dantesca è reperito dal critico nella data della morte di Beatrice che Dante segnala come avvenuta nelle prime ore di notte dell’otto di giugno del 1290. Dante, asserisce il Kay, nato sotto la costellazione dei Gemelli, compie proprio allora il venticinquesimo anno di età. Egli raggiunge, cioè, l’età della responsabilità e della saggezza e non ha più bisogno d° infingimenti, strategie di dissimulazioni, simulacri: egli è ormai solo con la propria coscienza e responsabile di fronte a Dio del proprio avvenire. Beatrice muore perché Dante che l’ama non ha più bisogno di lei; o almeno, non ne ha più bisogno all'altezza della vita, al momento in cui l’età raggiunta lo rende consapevole delle sue responsabilità e dei propri impegni .
Non è qui il caso di fermarsi ad esaminare la validità di codesta lettura allegorica della Vita Nuova: quello che a me interessa arguire sono piuttosto le ragioni per cui il Singleton si sia attenuto alla spiegazione analogica. Ogni trovata raziocinante presente nel discorso singletoniano del ’49 è sempre eminentemente controllata da una esplicita sensibilità per il fatto letterario. La sua lettura del testo della Vita Nuova è cioè attenta alla realtà del racconto dantesco; le sue osservazioni sull’incalzare degli avvenimenti nascono dal cuore stesso del racconto. ciò che risulta escluso dall’incalzante sintassi delle cagioni che ad esso si riferisce viene drasticamente espunto dall’excursus critico perché ritenuto non pertinente al discorso intrapreso. Certo, come scriveva un poeta a noi vicino nel tempo, un’allegoria è nascosta in ogni figura del mondo e giova, secondo la sentenza di san Gregorio, ridurre l’intendimento delle allegorie ad esercizio di moralità ; rimane però vero che il rilievo sul venticinquesimo anno di età compiuto da Dante al momento della morte di Beatrice, essendo punto eccentrico alla storia, mai argomentato dal narrante, appartiene, non già alla Vita Nuova, come ci è stata trasmessa, ma ad un altro pianeta narrativo per noi inesplorabile.
Assai più interna al discorso singletoniano mi sembra invece essere l’osservazione avanzata da Giuseppe Mazzotta in un suo recente reperto sulla tecnica narrativa dantesca della Vita Nuova al Convivio, alla Commedia intitolato: The light of Venus and the poetry of Dante . Qui l’approccio analogico proposto dal Singleton per la Vita Nuova è recepito come del tutto plausibile, ma insufficiente quando mancasse di tener conto della differenza esistente tra vicenda privata di Dante connessa alla sua personale storia d’amore che assurge alla luce del testo nella lancinante forma di memoria e desiderio e il linguaggio cristologico ad essa intercalato in tutta la sua carica visionaria per la quale coincidono immagine ed essenza. Si tratta insomma di una versante di letterarietà che il discorso singletoniano sulla Vita Nuova non esclude dal novero di ipotesi di lavoro plausibili, ma che nella pratica operativa che ci è tramandata risulta come messo tra parantesi e sottaciuto.
Nel corso del quadriennio 1954-58 Charles Singleton elabora le sue tesi più famose sulla Divina Commedia. La discussione verte anzitutto sul metodo di scrittura del poema: allegoria e simbolismo. Quando mi accadde di venire a contatto con la tesi che mette in rilievo l’imitazione da parte di Dante del linguaggio biblico, l’uso dantesco della cosiddetta allegoria dei teologi, mi sembrò che l’emarginazione auspicata dal parabolismo profano che si appaga nel considerare la lettera come bella menzogna per puntare subito sul significato secondo che essa cela, desse adito a considerazioni non adulterabili sullo spessore e sulla verità del viaggio, e che perciò, credibile o no in assoluto, il trapianto nel poema dell’allegorismo biblico, col realismo che esso proponeva, significasse una strategia di lettura, comunque, altamente innovativa. Mi rendo ora conto della debole portate critica del mio minimalismo. Per decifrare in modo piuttosto produttivo la proposta del Singleton occorre immaginarsela riprodotta sul grande affresco dove il critico si mostra intenzionato a dispiegarla. C’è anzitutto il progetto allegorico che crea una dinamica particolarmente intensa, un itinerario che procede dal pellegrino al lettore: dal pellegrino operante nell’aldilà che invia decifrabili segnali sulla significanza di alcuni momenti cruciale del viaggio, al lettore che percorre nell’aldiqua, quel cammino della vita che tutti ci coinvolge. C’è la gravitazione simbolica del viaggio verso il destino finale di rivelazione che lo attende. Il viaggio diventa il referente in cui si rispecchiano lo «status animarum post mortem» e il concetto immanente di giustizia che tiene conto dei meriti e dei demeriti acquisiti delle anime nel corso della loro vita terrena. Si schiude all’orizzonte dello sguardo del viaggiatore un sistema applicato di giustizia nel quale si rivela l’infallibile ed ineluttabile saggezza divina. Ma, nel corso del viaggio rivelatore il poeta si rispecchia nella sostanza delle cose vedute, si libera dalle metafore d’infingimento dispersive e dissipanti per renderci edotti che l’amore è accidente in sostanza, proiezione della voce di Dio nel cuore dell’uomo che di Dio si proclama suddito e figlio. Ci sono infine quelle che il Singleton chiama «le visuali retrospettive» che segnalano il rispecchiamento rivelatore dell’evento nella sua finale significanza. La pregnanza dell’accadimento segnalato si misura a partire dalla fine: la montagna che Dante non è in grado di salire all’inizio del viaggio acquista il proprio nome quando il pellegrino e Virgilio si accingono ad affrontarla in veste di visitatori del Purgatorio; la lonza «a la pelle dipinta» assume in pieno la responsabilità della propria funzione allegorica solo quando Dante esplicitamente ne parla collocandone la rievocazione a ridosso del mondo della frode; la «ruina» del canto dei lussuriosi e la «ruina» di cui è posto a guardia il Minotauro, acquistano valore e significato solo quando Malacoda nel XXI canto dell'Inferno le collega al terremoto che ebbe luogo alla morte di Cristo.
Dante pellegrino che si muove negli spazi del simbolo alla conquista del proprio destino, il lettore — whicheverman — che lo segue nell’ansiosa attesa di comprendere, nelle pause dell’avventura che egli osserva, il messaggio che lo coinvolga e lo aiuti a districarsi, hic et nunc, dal peccato e dal male, Dante poeta che ne dispiega, con impeccabile strategia acquisitiva ogni mossa, indirizzandola ad un «suo fine decreto», fanno tutti parte di questo mondo esplorato dal Singleton con una forte coscienza della globalità dell'avventura senza mai perdersi in particolari e in minuti dettagli. Devo dire però che a me è capitato a volte di imbattermi, leggendo critici americani, in discorsi che, partendo da Singleton, procedevano per loro conto con metodo assertivo e sicuro verso posizioni che non mi riusciva più di condividere. Penso, ad esempio, (pur non ritenendo che la fonte singletoniana sia in questo caso determinante o decisiva) alla dissociazione fortemente sentita da taluni tra Dante pellegrino che discende nell’Inferno alla scoperta del peccato e Dante poeta che ce ne segnala immancabilmente il procedimento e la rotta. Il critico fornito di una memoria fedele della verità che abita la mente del poeta è pronto a segnalare gli errori di valutazione e di giudizio che intralciano l'itinerario del pellegrino. Mi è accaduto, ad esempio, di leggere di recente un saggio, del resto costruito con coerenza e consequenzialità impeccabili, di un giovane studioso americano dedicato al personaggio infernale di Pier della Vigna . Lo scritto, o da asserzioni blasfeme, opportunistiche ed autoesaltanti desunte dal panegirico intemperantemente adulatorio enunciato da Pier a celebrazione del suo signore e padrone offre il fianco ad una deduzione di recisa condanna prestata a Dante poeta contro l’insulso personaggio dell’eloquenza spregevole che è Piero, mentre a me pare incontrovertibile ritenere che Dante pellegrino si sia lasciato guidare nei confronti del malcapitato cancelliere da stupore e compassione per il baratro di sofferenza e di dolore che sigla il suo destino di cortigiano. Io continuo a credere che la dissociazione troppo netta tra poeta e pellegrino, che la forte e risentita dualità mobilitata e regolare la condanna segreta siglata dal primo; l’empatia palese del secondo verso la complessa vicenda dell’umanità peccatrice debbano essere attenuate al fine del raggiungimento sempre auspicabile di un equilibrato procedimento di lettura in grado di cogliere tutte le sfumature incluse nell’esplorazione della prima cantica del poema dantesco.
Ma la lezione del Singleton conosce sbocchi ben più produttivi e fecondi ed occorre del resto tener presente che lo studioso rifugge dall’affrontare, salvo qualche raro caso, gli episodi del viaggio nello spessore degli incontri che essi propongono, così come si astiene dal frequentare il cammino tradizionale percorso dalle «lecturae Dantis». Vorrei citare qualche esempio di quella che a me sembra essere la viva presenza, la militanza ricerca produttiva della critica dantesca singletoniana nell’ambito della Beatrice, che ad essa si collega. In un capitolo intitolato L'avvento di Beatrice, che è parte del libro singletoniano del 1958 Journey to Beatrice, il critico aveva parlato del centro ideale del problema da identificarsi con l’apparizione di Beatrice in cima al Purgatorio, al centro della processione che simboleggia lo svolgersi del tempo e la storia del mondo, beatrice, dolce memoria, è tornata a giudicare Dante, come Cristo ritornerà nel suo secondo avvento a giudicare i vivi e i morti. In uno scritto, incluso poi nella traduzione italiana del libro ed intitolato emblematicamente: Il numero del poeta al centro, il critico scopre attraverso un’intuizione, che è geniale resipiscenza ed ammenda per il non detto, l’importanza del centro reale del poema, quello che il Tasso chiamerà a proposito della sua Gerusalemme «la metà del quanto»: il diciassettesimo canto del Purgatorio. Nel recupero di esso, sollecitato dal Singleton, vengono chiamati in causa i sette canti del Purgatorio, dal quattordicesimo al ventesimo, che non abbracciano tutta l’area delle sette cornici, però certamente contengono, per ripetere le parole del critico, «la spiegazione del loro assetto». I sette canti elencati (sette quante sono le cornici del Purgatorio) contengono ai margini del loro schieramento due canti di 151 versi (il quattordicesimo ed il ventesimo) e la somma interna delle cifre componenti il numero 151 è sette, numero della creazione costantemente illustrato dai manoscritti miniaturati che trattano di cosmologia. Il canto centrale contiene 139 versi e uno, tre, sette e nove sono i «grandi» numeri dispari sotto i dieci esaltati dalla tradizione pitagorica. I quattro canti di 145 versi che circondano il canto centrale danno il numero dieci, che è numero perfetto, se uno, quattro e cinque vengono sommati tra loro...
A quale fine tende la dimostrazione del Singleton? Come spesso accade nella sua critica, l’intuizione specifica s’inserisce in un grande affresco che l’assorbe e la giustifica. Nella costruzione del suo microcosmo il poeta, nella plausibile versione che ne fornisce il critico, si lascia guidare la mano da un grande modello: l’universo creato da Dio; l’universo «scartato», cancellato dagli spazi mentali del lettore che ha assorbito le consuetudini dell’ermeneutica immanentistica ispirata dal Rinascimento. A chi gli chiede come mai il poeta faccia ricorso con sottile anche se non indecifrabile segretezza a principi di costruzione così integralmente assorbiti nella cosa stessa, il Singleton ricorda l'impegno degli artigiani chiamati a costruire la cattedrale di Chartres che si prodigavano nella edificazione di particolari scultorei ispirati a complessa simbologia, ma non recepibili ad occhio umano contemplante la costruzione dall’esterno e dal basso. È che per l’artista medievale, il Singleton ci ricorda, non è l’occhio dell’uomo che conta, ma quello di Dio mobilitato a tutto vagliare e capire. Potremmo aggiungere che l’artista evocato dal Singleton anticipa il linguaggio che farà suo un sublime insipiente, il diseredato antieroe cervantino, il gregario ed umile Sancho: «Basta que me entienda Dios que el es el entendedor de totas cosas» .
Occorre dire che, da questo punto di vista, non è da ignorare quanto nel versante della simbologia numerologica hanno saputo scrivere perseguendo una strada già segnalata dal Singleton studiosi assai probi della narrativa medievale come Robert Hollander e Victoria Kirkham. Vorrei anche aggiungere che il primo, lo Hollander, ha acceduto con decisione e personale acribia all’invio singletoniano a guardare con attenzione disincantata al distacco generazionale che segnala nel Boccaccio un mutamento di orizzonte rispetto all’impiego etico di Dante verso i propri personaggi. In una ricerca «degradata», (per usare un aggettivo caro alla critica di René Girard) dominata da un’intuizione che concede al Boccaccio intenzionalità derisoria e parodica verso la fonte «comica» dantesca, lo Hollander considera Ciappelletto maestro ingannatore e omosessuale pronto alla debilitazione di ciò che è sacro, un Brunetto Latini diminuito e denigrato .
Assai importante mi pare anche lo sviluppo non derivativo, ma personalissimo ed originale con cui la critica americana postsingletoniana ha saputo affrontare e discutere il rapporto tra Dante e il passato, Dante e il mondo classico, Dante e i testi patristici e scolastici. Nel Capitolo L’irriducibile visione il Singleton si era limitato a sottolineare come Virgilio, il poeta antico, avesse devoluto al suo eroe, Enea, il compito di visitare la regione degli Inferi con la Sibilla Cumana, mentre Dante si era sobbarcato egli stesso il compito di andarvi «sensibilmente». L’Ade virgiliano è trovata fittizia, invenzione poetica; l’oltremondo dantesco s'impone all’attenzione del lettore per lo spessore e la realtà dei suoi paesaggi, l'urgenza sofferta delle sue sperimentazioni; per la presenza, infine, al discorso portato avanti in prima persona, dell’individuo che ha affrontato il viaggio senza soccombervi. Gli studiosi che lo hanno seguito hanno avuto precisa coscienza del rapporto nodale tra Dante e il mondo classico, denotandone la continuità non astrattamente, bensì in modo strettamente operativo. Dante che alla presenza di poeti del Limbo si sente «sesto tra cotanto senno» ritiene di operare all’interno di una realtà letteraria priva di sbarramenti e frontiere invalicabili, in nome di un sincretismo culturale al quale accede senza infingimenti e senza remore. Una studiosa allieva di John Freccero, Margherita Mills Chiarenza, ha saputo cogliere assai bene e valutare con efficacia l’intercambiabilità dell’operazione scrittoria e l’occasionale intertestualità che fa da raccordo tra situazioni nodali presenti nell’Eneide virgiliana e nella Commedia dantesca. Nel terzo libro dell’Eneide Eleno promette ad Enea che sarà la Sibilla Cumana a rivelargli un giorno il suo avvenire, ma nel sesto libro il rivelatore degli arcani della vita del figlio e di quelli della sua gente sarà il padre Anchise. Nel X canto dell’Infeno Virgilio annuncia a Dante che sarà Beatrice a rivelargli i segreti della sua vita futura, mentre il compito sarà devoluto, com'è noto, all’antenato Cacciaguida nel cielo di Marte .
Sul superamento di Virgilio da parte di Dante ha scritto un saggio eccellente R.A. Shoaf che segue il tracciato velleitario dell’ipotetico volo del poeta delle Georgiche (Georgiche, 2, 484) verso le dimore delle muse mobilitate a mostrargli le strade alte del cielo, ma che segnala subito la sopraggiunta coscienza della propria destituzione e dell’impraticabilità per lui di una tale ascesa, tale è il gelo che si addensa intorno all’animo e lo paralizza. Si contenterà dunque di aggirarsi intorno all’orizzonte campestre a descrivere il percorso dei fiumi, i monti da cui discendono, le valli che irrorano. Altra è la situazione del poeta cristiano nel trentesimo canto del Purgatorio. La «contritio cordis» che segue la confessione impostagli da Beatrice fa sì che il gelo gli si sciolga in lacrime e, superato il trauma della confessione, che si preparino le condizioni obiettive della redenzione e dell’ascesa. Lo studioso, insomma, si serve della acquisita familiarità col testo antico per detrarne una testimonianza filologicamente impeccabile che ci consenta un trapasso senza traumi dal codice del poeta pagano discettante sugli «impossibilia» che tentano la sua fantasia, ai contenuti orientativi del messaggio cristiano che aprono l'impegno mentale di Dante alla speranza .
Si potrebbe continuare analizzando le esperienze e deduzioni di un esperto dell’eredità ovidiana nel Paradiso dantesco, Jeffrey Schnapp, autore tra l’altro di un valido libro sul Paradiso incentrato sui canti di Cacciaguida . Ma val la pena di spostare l’attenzione su un altro tracciato perseguito dalla dantistica postsingletoniana in America. Esiste nella schiera dei lettori-critici del Singleton una sensibilità da lui derivata, ma originale per i percorsi innovativi che di volta in volta intraprende e segnala, per la gravitazione del testo biblico verso approdi danteschi. La saggistica del Mazzotta, del Cassel, della Jacoff, sviluppa spesso con felicità di trovate un metodo d’approccio alla citazione biblica, studiata come elemento portante di tutta una cultura che trova la propria verificabile concrezione nell’immagine dantesca e nell’avventura del viaggio. Basta uno spunto reperito all’interno del dialogo agostiniano De vita beata «se il vento favorevole spinge la poppa della nave entrano pieni di gioia in un abisso di miseria» perché il più originale discepolo del Singleton, John Freccero, trovi il destro di avanzare una meditata ed intelligente interpretazione dell’episodio di Ulisse in chiave agostiniana. Il movimento dell’anima verso la sua patria, scrive Freccero, finisce in rovina quando essa ignora la conversione cristiana fondata sull’umiltà e la coscienza del peccato .
Vorrei concludere con qualche mia riflessione sul personaggio Singleton. Io lo conobbi in modo indiretto al mio arrivo negli Stati Uniti, Avevo avuto l’incarico di scrivere qualche articolo sull’italianistica americana per la «Rassegna delle Letteratura Italiana» diretta da Walter Binni e quando l’ospitale, ma minuscola biblioteca di una cittadina dello stato di Washington non riusciva a fornirmi il materiale di cui avevo immediato bisogno, mi rivolgevo ai critici di cui intendevo discorrere. Nacquero di qui, veri rapporti di amicizia tra me e alcuni membri della diaspora intellettuale europea operanti sul vasto territorio americano. Ricorderò tre gli altri il caro Hans Baron che lavorava allora a Chicago presso la Newberry Librry e Ulrich Leo che professava la romanistica presso l’università di Toronto. Singleton mi rispose con cortese ed incoraggiante prontezza. Seppi però anni dopo che l’articolo da me scritto, per la parte che lo riguardava, gli era dispiaciuto e chiunque abbia pratica con la critica americana ne capirà la ragione. L’avvicinamento da me operato tra la chiave di lettura allegorica da lui fornita e l’interpretazione figurale della Commedia di cui si era reso autorevole garante Erich Auerbach era sembrata a lui, uno dei protagonisti dell’interlocuzione da me ipotizzata, incauta ed alquanto speciosa. Devo ad una lucida recensione di John Freccero agli studi danteschi dell’Auerbach da curati, una impostazione serena ed equilibrata dei termini del problema. La recensione, apparsa, proprio in un numero della rivista «Modern Language Notes» stampata presso la Johns Hopkins di Baltimora dove il Singleton insegnava fu premessa ad un amichevole scambio epistolare continuatosi poi ad intermittenze nel corso degli anni. Posseggo del Singleton lettere assai limpide e belle.
Nell’aprile del 1979 toccò a me di organizzare per incarico di Morton Bloomfield e della Medieval Society harvardiana che il Bloomfield dirigeva, un convegno sulla personalità del Singleton e sui suoi studi danteschi. Concepii l’incontro come amichevole dibattito tra dantisti italiani residenti in America e dantisti americani. Vennero con Singleton Freccero e Durling oltre che lo storico di Tulane Charles Davies; da parte italiana c'erano Maria Simonelli che parlò di pubblico e società nel Convzvio, Antonio D'Andrea, esperto studioso della struttura della Vita Nuova, il musicologo Nino Pirrotta. Alle loro voci si aggiunsero, alla pubblicazione degli atti, quelle di Paolo Valesio, che scrisse un assai bel saggio sull’episodio di Paolo e Francesca e la tradizione romanza e di Glauco Cambon, che scrisse con eleganza su temi purgatoriali. Charles Singleton diede al suo intervento il titolo di «Recupero» e lesse cose che non erano nuove, ma che ribadivano punti-chiave della sua esegesi dantesca. Venne insomma incontro all'appuntamento fissato ripresentando il volto a noi noto della sua scrittura. Negli ultimi anni della sua vita, egli si era come raccolto in sé a meditare sul cammino percorso. Aveva così riscoperto il fascino del silenzio rievocando un maestro fiorentino che ne aveva teorizzato l’attualità di suggestiva premessa alla poesia: Attilio Momigliano, tornato dagli anni fiorentini alla ribalta del suo ricordo in uno dei suoi ultimi e più intensi scritti danteschi: L’irriduaibile visione. «Noi sentiamo la poesia, aveva scritto il Momigliano citato dal Singleton, quando tutto tace dentro di noi... La sua voce non può risuonare che nel silenzio quando il volto della realtà è svanito e quello delle nostre passioni dorme». Come accade a volte ai grandi critici, Singleton non ha disdegnato il raccoglimento e il silenzio. Quando gli è sembrato di aver detto tutto quanto aveva da dire ha scelto la strada inedita dell’introspezione e della riflessione sul proprio operato.
Vorrei concludere rievocando un aneddoto harvardiano che quando mi fu raccontato, molto mi commosse. Quando Charles Singleton insegnava il corso sulla Commedia dantesca, la moglie Eula che gli fu compagna assai devota segnava a matita le osservazioni che lo studioso andava facendo seguendo gl’itinerari del viaggio e le trascriveva at margini del testo. Era canone interpretativo del Singleton che il lettore dovesse ritrovare in sé nel suo incontro con Dante lo stupore e l'innocenza del pellegrino, rivivere le sue sorprese, senza interferenze anticipanti, senza intemperanti precorrimenti. Alla fine del corso la lettrice fedele cancellava scrupolosamente con la gomma le annotazioni ricavate dalla viva parola del maestro:

Così la neve al sol si disigilla
così al vente ne le foglie levi
si perdea la sentenza della Sibilla.
(Par. XXXIII, 63-66).

All’inizio del nuovo anno accademico, il corso dantesco riprendeva e ricominciava con esso l’iniziazione al viaggio della annotatrice solerte.

Date: 2021-12-25