L'interpretazione «scritturale» e Singleton / Il simbolismo numerologico e Hardt [Aldo Vallone]

Dati bibliografici

Autore: Aldo Vallone

Tratto da: La critica dantesca del Novecento

Editore: Leo S. Olschki, Firenze

Anno: 1976

Pagine: 269-278

Non v'è dubbio che accanto ed oltre le molte e varie interpretazioni della poesia e del mondo dantesco oggi sperimentate e, in taluni casi, imperiosamente varate (e si pensi alla psicanalisi) e non si sa con quale valore di sedimentazione critica, un posto occorrerà pur dare al simbolismo del numero. È una via relativamente recente, tracciata a seguito di taluni sondaggi nell'ampio campo degli studi storici, più generali che particolari, che pur sempre si richiamano a fondamentali aspetti della civiltà del Medioevo e alle strette connessioni, in quell'età, tra arti, scienze e lettere. Si può pensare, per delimitare più saldamente tempo e modi di questi interessi, ad un arco di tempo di trenta quarantanni, da un discusso ma stimolante saggio di V. Hopper (Medieval Number Symbolism, New York 1938) a C. Singleton (The Poet's Number at the Center in Modern Language Notes, LXXXV, 1965, pp. 1-10) e a G. R. Sarolli (Prolegomena alla Divina Commedia, Firenze 1971; Il numero nelle opere di Dante in: AA. VV., Enciclopedia dantesca, Roma 1973, IV, pp. 88-96 e ancora Analitica della D.C. - Struttura numerologica e poesia, Bari 1974). Non tutto è, sia chiaro, inventato; una parte, anzi, di quel che si dice era già non solo nota, ma largamente applicata e corrente, puranco in prontuari e sussidi scolastici, secondo certe acclamate scuole di religiosi e praticanti di cultura. Si pensi al numero tre e suoi multipli (Vita nuova, II, 1-2; III, 2; ecc.), alle rispondenze dei temi in relazione a determinati canti, al numero di questi, alla chiusa delle tre cantiche (e agli incipit): una tela di cui si conoscevano fila orditure e disegni, ma anche le connessioni con tutto l'apparato e le strutture portanti della cultura medievale. Ma non si era andati al di là. Critica filologica e storica, prima, critica estetica, poi, contemporaneamente, (e con loro immediate o mediate ogni altro intendimento esegetico promosso oggi dal più vario e libero gioco delle correnti critiche: marxistica, strutturalistica, neospiritualistica e così vi , a parte quella psicanalitica) avevano fatto buona guardia.
Così è che il simbolismo-allegorismo, nelle sue più pressanti applicazioni morali e politiche, dell'Ottocento si era andato via via depauperando col passare da Rossetti e Aroux a Pascoli e da questo a Valli e a taluni scialbi ripetitori d'oggi. Eppure è proprio da questo ripudio del simbolismo, agevolmente propagandato dai più facili crociani (e non coì da Croce, che vi ripensò più volte e con alta dignità), che prenderanno fiato e consistenza i rinnovati interessi e le proficue discussioni, certo su ben altro piano, di allegoria e simbolo: e si guardi, ad esempio, a Spitzer, Auerbach, Curtius, De Lubac, Singleton e, soprattutto, Pagliaro. Il simbolismo numerico solo apparentemente, a guardar dentro alle cose, si può riportare al simbolismo ottocentesco di matrice italo-francese. Vi sono talune connessioni, certo; v'è soprattutto contiguità nello scandaglio del mondo medievale (di quello almeno ch'è stato consegnato alla cultura); v'è anche l'intendimento unitario, che forse sfuggì alla grande critica storica dell'Otto-Novecento, di tutte le manifestazioni dello spirito; ma vi sono anche differenze profonde. La base è proprio nel fatto che nel simbolismo tradizionale e ottocentesco le componenti erano poste alla pari per essere poi colte nella loro totalità figurativa; nel simbolismo numerico è invece una componente, il numero appunto, a prendere sopravvento e ad insediarsi come chiave interpretativa del tutto. Ma nell'un caso e nell'altro più opportuno sarebbe parlare di allegorismo e non di simbolismo. Ne stabilì la differenza Goethe (Schriftenzur Literatur, XXXVIII, Sdmtliche Werke ecc., Weimar 1907 ss., p. 261), vedendo nel primo il particolare, che, quasi emblema, s'innalza in funzione dell'universale, e, nel secondo, invece, l'universale che s'insedia nel particolare.
Oggi un giovane critico tedesco, Manfred Hardt, in un saggio assai denso e penetrante, porta avanti decisamente il discorso sulla interpretazione numerica della Divina Commedia (Die Zahl in der Divina Commedia, Frankfurt M., 1973, pp. 350) e dà conclusioni, su cui è bene fermarsi alquanto. Il piano è organico e funzionale, si vorrebbe dire. In una prima parte si discute sulla teoria dei numeri di s. Agostino e poi si passa all'estetica numerica di s. Bonaventura attraverso l'aspetto ontologico conoscitivo etico estetico anagogico del numero. Nelle altre parti e gli esamina temi e problemi, momenti e parole: il nome Cristo, Cristo in rima, la struttura della Divina Commedia, i tre regni dell'aldilà, il Paradiso e il suo canto centrale, il Purgatorio e il centro del poema, l'Inferno e il centro della prima cantica; passa poi alla vera e propria esemplificazione di croce (segno e valore), grazia, virtù, vero, amore, bene; e conclude con la poetica numerica. Come ogni neofita, generoso e vigilante, il critico lamenta la negligenza dei dantisti di tutti i tempi (e più gravemente di quelli d'oggi; ma preferirei· dire di quelli di ieri, se, coevi al poeta, di tanto mai si accorsero) per questo problema ed è convinto che «l'uso dei numeri apporterà importanti schiarimenti proprio sul tema del poeta-theologus»: e il lamento ha conforto solo nella gioia di calcare un terreno vergine e di fare affidamento solo sulle proprie forze. Lo stato d'animo di Pascoli dinanzi ai misteri del poema, a lui solo chiari e da lui solo svelati, è identico! Un primo punto-base è l'aequalitas numerosa: «Parlando di De musica ci siamo chiesti quale possa essere la ragione per cui Agostino si servì del linguaggio metrico per rendere comprensibile il passaggio dai numeri corporali alla Sapienza divina». Questa domanda trova la risposta nelle parole con le quali egli sintetizza nella lettera a Memorius la ragione del trattato: «Verum quia in omnibus rerum motibus, quid numeri valeant, facilius consideratut in vocibus eaque considerarlo quibusdam quasi gradatis itineribus nititur ad supema intima veritatis, in quibus viis ostendit se sapientia hilariter et in omni providentia occurrit amantibus, initio nostri otii,... volui per ista... scripta proludere...». Agostino era perciò del parere che, tra tutti i «motus» del creato, la lingua ritmica metricamente ordinata è lo strumento più adatto allo studio dell'essenza del numero. Non è oggetto di questa introduzione riferire per esteso come Agostino percorre nel suo scritto gli itinera gradata. È però importante per la nostra esposizione esplicativa solo il fatto che Agostino arriva, tramite l'analisi di un nuovo soggetto, cioè della lingua, a riesaminare e a meglio precisare la sua definizione del bello. Anche dopo il riesame, la bellezza che risulta dal numero e dal sistema metrico rimane il fondamento della sua estetica. L'analisi delle strutture metriche lo costringe adesso a tenere presente solo il rapporto tra una parte e l'altra o tra una parte e più parti oppure tra più parti tra di loro. Come esempio del suo modo di vedere cito un passo riassuntivo riguardante la struttura ritmica dei singoli piedi metrici: «Quid est quod in sensibili numerosi tate («Rhythmus») diligimus? Num aliud praeter parilitatem quamdam et aequaliter dimensa intervalla? An ille pyrrhichius pes, sive spondeus, sive anapaestus, sive dactylus, sive proceleusmaticus, sive dispondeus nos aliter delectaret, nisi partem suam parti alteri aequali divisione conferret? Quid vero iambus, troéhaeus, tribrachus pulchritudinis habent, nisi quod minore sua parte majorem suam partem in tantas duas aequaliter dividunt?» ecc. In altre parole si tratta cli un ben preciso rapporto metrico tra le singole sillabe lunghe e brevi che donano la bellezza al verso e stimolano le sensazioni del piacere. Così per esempio la bellezza del giambo è il risultato del rapporto tra la sillaba più breve e quella più lunga in misura cli 1 a 2; in altre parole la sillaba più breve divide la lunga in due parti le quali eguagliano, per la durata, la sillaba più breve... Partendo da queste osservazioni metriche, Agostino trasporta progressivamente la teoria di aequalitas numerosa a tutto ciò che è bello ottenendo così, grazie a questo principio, un nuovo criterio per la definizione del bello. Il capitolo 38 del sesto libro contiene i periodi determinanti: «Haec igitur pulchra numero placent, in quo jam ostendimus aequalitatem appeti. Non enim hoc tantum in ea pulchritudine quae ad aures pertinet, atque in motu corporum est, invenitur, sed in ipsis etiam visibilibus formis, in quibus jam usitatius dicitur pulchritudo. An illud quam aequalitatem numerosam esse arbitraris, cum paria paribus bina membra respondent: quae autem singula sunt, medium locum tenent, ut ad ea de utraque parte paria intervalla serventur?». Non è senza importanza che Agostino riduce al medesimo principio della. aequalitas non solo la bellezza obiettiva delle cose, ma anche il piacere soggettivo delle cose (delectare). Servendosi della luce e dei colori Agostino spiega che il piacere che deriva da questi fenomeni è dovuto ad una certa saturazione, cioè ad un ben preciso stimolo che fa scattare l'apparato percettivo dell'uomo, cioè a una «convenientia pro naturae nostrae modo». Anche in questa «convenientia» Agostino vede realizzato il principio della aequalitas, cosicché gli è possibile affermare che ogni piacere consiste in ultima analisi solo in «quodam aequalitatis iure». È questa la parte storica, il fondamento documentario su cui poggia e cli cui si nutre il Medioevo. Essa è chiamata anche a dare struttura al poema cli Dante ed è rappresentativa cli un intero sistema, che intende chiarire «il rapporto reciproco tra le singole parole e i numeri contenuti nel testo della Commedia. Dopo aver studiato in un primo momento l'uso dei numeri nel settore dei nomina sacra ed essermi occupato, in un secondo momento, dell'uso dei numeri nella stesura del poema, è mio compito ora cli analizzare il ruolo del numero nel collocamento delle singole parole. Questo mio procedere non va però confuso con l'analisi stilistica del vocabolario dantesco. Non è mia intenzione cli occuparmi in maniera esauriente anche cli una sola parte cli detto vocabolario e neppure cli passare in rassegna il numero complessivo dei singoli aggettivi verbi sostantivi o addirittura cli stabilire il numero complessivo dei singoli vocaboli della Commedia, compito questo che si propose, ad esempio, anni addietro il Mariotti. Il mio compito è di prendere in esame solo poche parole. L'uso di queste parole nel testo della Commedia va spiegato però sempre con il ricorso al periodo in cui esse sono inserite e risulterà perciò necessaria la differenziazione dei significati dello stesso vocabolo a secondo del suo inserimento nel testo. Non va però dimenticato che, allorquando si procede alla differenzazione dei significati, bisogna tener conto di ciò che Dante considerava come punto di partenza del suo raggruppamento. Non ho in mente di procedere ad un'ampia analisi semantica dei singoli passi perché la giudico non rilevante ai fini del presente lavoro».
Su questo piano, ed entro queste intenzioni, si intendono produrre le testimonianze verbali. Così è che «l'esame della parola grazia permette interessanti ragguagli sulla tecnica dantesca che sceglie, contro ogni normale consuetudine poetica, le parole secondo l'uso corrente inserendole, però, in quei punti importanti del poema determinati in base al valore numerico motivato simbolicamente. A proposito della parola grazia si può chiaramente dimostrare come essa in quasi tutta la sua interezza numerica viene determinata in tutte le tre cantiche e contemporaneamente controllata per quanto riguarda il suo significato effettivo sulla scorta dei singoli numeri simbolici. L'esame della parola dimostra non solo ampiamente le mie osservazioni fatte nell'introduzione, ma fa inoltre intuire un'ulteriore dimensione nel rapporto reciproco tra parola e numeri. Il punto di partenza è di nuovo una perfetta conoscenza di tutti i passi danteschi contenenti tali parole. Non facendo distinzione tra singolare e plurale la parola grazia viene usata nelle tre cantiche 65 volte. Tra i versi latini o tra le citazioni della Commedia ve ne sono però due in cui incontriamo la forma latina gratia. Una serie di osservazioni, che farò più in là, dimostra che Dante considerava anche questi due passi; con ciò sale il numero dei passi a 67. Essi sono distribuiti in 64 versi. ciò vuol dire che in tre versi la parola compare due volte. Per quel che riguarda là distribuzione tra le cantiche, va detto che 4 passi sono contenuti nella prima cantica, 21 nella seconda, 42 nella terza. Tre volte la parola grazia è scritta in lettere maiuscole: Inf. XXXI, 129; Par. XXIV, 58 e 118. Cinque volte si trova la forma del plurale grazie. La prima conclusione che si può trarre dallo studio dei passi dimostra, come era del resto da attendersi, che nella stragrande maggioranza, si parla di grazia divina».
Seguono, sempre su questo piano, altre esemplificazioni documentarie. Infatti, «mentre valore viene usato 28 volte; segno 53 volte e grazia 67 volte; 97 sono i passi in cui la parola virtù viene adoperata. Questa parola viene usata nelle tre cantiche in proporzione di 10:38:49. Questo numero piuttosto elevato di circa 100 passi è spiegabile con il fatto che la parola virtù quasi universalmente indica le più svariate forze, capacità e virtù. La parola virtù viene usata per indicare la forza fisica della gamba, la forza spirituale della volontà, la capacità visiva degli occhi di Dante come pure la forza irradiativa delle costellazioni, la virtù umana intesa come forza vitale del seme ed infine per indicare Dio e Cristo. Poiché negli studi precedentemente fatti è risultato fruttuoso di tener conto della reciprocità numerica ai fini della determinazione dei rapporti simbolici con le singole parole e con il testo in cui esse sono inserite, si credette di dover procedere allo stesso modo anche con la parola virtù. Esaminando sistematicamente circa un centinaio di numeri, risultano 19 casi di corrispondenza».
Altre possibilità, a conforto dei precedenti casi, offre l'esame del sostantivo vero, «che si presta pur esso per arrivare alla acquisizione di nuovi aspetti e procedure del testo dantesco motivato dal simbolismo numerico. L'attenta osservazione dell'uso scrupolosissimo della parola da parte del poeta ha portato alla scoperta di metodi nuovi, che permettono di porre in luce quei calcoli a noi segreti e non facilmente riconoscibili di cui egli si servì per la stesura del testo. Gli studi che si riferiscono a questa quarta parte del presente lavoro ebbero inizio soprattutto dal fenomeno della concordanza tra le parole usate nei passi numericamente indicati: un accorgimento metodico questo dimostratosi fruttuoso. Il tentativo di poter procedere sulla stessa strada nel caso di vero non portò a nessun risultato. Il sostantivo vero, da non confondere con il rispettivo aggettivo o avverbio, si presenta nelle cantiche 9:14:36, cioè complessivamente 59 volte. Tra questi 59 passi ci sono tre casi di concordanza, e cioè:

Inf. XVI, 78 - Pa r. XXX, 78
Inf. XXX, 112 - Par. VIII, 112
Par. II, 125 - Par. IV, 125

Si giunge così alla definizione del tutto e alla conclusione. «Dopo aver esposto nella introduzione al presente lavoro le basi delle cognizioni numeriche medievali, furono studiate a fondo tre questioni: l'uso del nomen sacrum, e precisamente del nome Cristo nella Commedia; le misure delle singole componenti del poema; e infine l'uso numericamente controllato delle singole parole. Prima di tutto fu analizzato l'uso e il collocamento del nome Cristo nel testo della Commedia; fu messa particolare attenzione nell'uso del nome Cristo come parola in rima. Per questo motivo ho rinunciato all'analisi singola dei nomina sacra, in quanto sono convinto che l'uso del nome Cristo · ci illumina esaurientemente sull'uso numericamente controllato e numerico-simbolicamente motivato di ogni singolo nomen sacrum contenuto nel testo della Commedia. Il nome Dio e il nome Maria non furono trattati da Dante né in modo particolareggiato, né con la medesima perspicacia. Con ciò non si vuol dire naturalmente che Dante non abbia inserito questi nomi nella cornice delle sue strutture numerico-simboliche e nelle sue combinazioni. Dai vari passi da me esaminati e dai miei studi preparatori, che non furono inclusi in questo lavoro, risultò chiaramente che Dante inserì questi nomi. Uno studio su questi nomi non risultava utile, perché nonostante i numerosi particolari interessanti, nulla di importante sarebbe stato aggiunto ai risultati ottenuti nell'esame del nome Cristo. Nel terzo capitolo di questi studi fu esaminata la funzione dei numeri come elemento strutturale costitutivo della Divina Commedia. In primo luogo fu dimostrato che Dante controllava, specialmente nella seconda e nella terza cantica, rispettivamente l'estensione dei versi nei suoi canti e il collocamento delle singole lunghezze disponibili ordinandole secondo regole precise e simbolicamente motivate. Il punto principale di questa parte fu lo studio dei complessivi 31 gradini di costruzione del poema, dal quale risultò che Dante, prima di dare inizio al suo poema, calcolò l'estensione delle singole parti costituenti il poema stesso e stabili i singoli punti focali che furono rispettati quasi sempre nella stesura del testo. È stato possibile dimostrare inoltre che Dante programmò, per mezzo di un calcolo, l'estensione di ogni singola cantica, i rispettivi punti focali, l'estensione dell'intero poema e il punto focale di esso. Non era intenzione dell'autore di conferire neppure a questa parte del suo studio il carattere di completezza. Rinunciai all'analisi della struttura numerica di tutti i cento canti. È da supporre che i risultati ottenuti da un lavoro analitico così esteso non. sarebbero stati adeguati alla fatica. Mi sembrò più utile rivolgere la ricerca analitica a quel canto le cui strutture costitutive risultano essenziali, per il nesso. La spiegazione dei singoli passi così scelti si limita però a determinati aspetti e precisamente all'esame dell'estensione esteriore, al punto focale e al collocamento del testo nelle immediate vicinanze del punto focale. Gli studi più approfonditi riguardanti la suddivisione della materia e il collocamento degli elementi tematico-contenutistici nell'ambito di un'intera struttura sono stati fatti in via eccezionale in quei casi in cui si scorgeva l'utilità». E infine: «È quasi da escludere che Dante abbia programmato i particolari riguardanti il numero complessivo delle parole e il loro collocamento senza aver prima tracciato lo schema del poema, lo sviluppo dell'azione, la suddivisione dei temi e dei contenuti nelle singole cantiche e nei singoli canti [ed è questo argomento da noi in più luoghi affermato e documentato]. Con ogni probabilità il poeta preparò in un primissimo tempo un progetto numerico: il numero dei canti, il numero dei versi per cantica e il numero dei versi nelle tre cantiche messe insieme; in un secondo momento collocò le singole parole nei versi particolarmente significativi del poema. È da supporre inoltre che relativamente tardi, cioè nel periodo della definitiva stesura del testo, il poeta abbia proceduto al collocamento numerico delle singole parole che compongono i singoli versi e al controllo delle espressioni in modo che ci fosse un'armonia tra due concetti ritenuti fondamentali, come, ad esempio, amore e bene. La parte più impegnativa del lavoro numerico-poetico era perciò più o meno legata alla rifinitura del poema. Si nota, dall'inizio fino alla fine del lavoro, la volontà del poeta di imprimere una unità logica e conseguente al poema. Ciò fa supporre che Dante pensò già durante la programmazione generale del poema a molti particolari che furono elaborati senza grandi ripensamenti nel corso degli anni. Queste conclusioni, che risultano da un'analisi della struttura numerica del poema e che poi furono brevemente esposte, esortano alla massima prudenza per quanto concerne le affermazioni riguardanti i supposti ripensamenti nel corso della stesura del testo della Commedia. Volendo interpretare i singoli canti o parti del testo, ricercare le reali intenzioni del poeta e valutare i singoli temi e motivi nella speranza di arrivare a stabilire quale di questi sia più importante o abbia importanza specifica per emettere un giudizio sulla personalità del poeta e sulla concezione dell'idea formativa del poema, non si può, come· sinora purtroppo è stato fatto, continuare ad ignorare l'importanza della dimensione numerica del testo, perché solo nella dimensione numerica si trova la chiave della comprensione di questo poema unico nel suo genere».
Fin qui la tela tessuta da Hardt, su cui volutamente ho indugiato nella convinzione che il saggio può essere assunto come emblematico di una situazione particolare nel campo degli studi danteschi d'oggi, tra filologismo e simbolismo: e che poi sia ancora una nuova e non tentata via lo sottolinea continuamente lo stesso critico. Piace in lui, al di là di talune accensioni di tono tipiche in ogni lettore fervido e appassionato, la consapevolezza di indicare non un metodo generale e globale di esegesi, ma una via, tra le altre e con le altre, atta a giungere al cuore della Commedia. Più precisamente la discoverta del sistema dantesco non vale come dimostrazione di un meccanismo meraviglioso e potente (nel suo fondo, però, abbastanza puerile), quanto piuttosto come prova compiuta di memoria poetica e musicale e capacità trasfiguratrice. L' assunzione del numero (e non v'è dubbio che esso sia costitutivo, anche al di là del Medioevo, di musica poesia geometria e astronomi a: e sarebbe bene risalire al pitagorismo, purché lo si faccia con mente esperta ed educata) non opera nell'assoluto; ma è proiettata nelle qualificazioni d'arte e stile, da cui si sprigionano le trasmissioni dirette tra numero e parola: una sorta di simbolismo, si, ma verbale (e da usare con cautela!). E questo può valere per Hardt e a salvarlo dagli eccessi.
Ben altra cosa è invece I’allegorismo numerologico. Quello che si può rimproverare alla «numerologia», più specificamente e nel particolare, è proprio la costrizione dell'universale dantesco nell'alveo del prefigurato: la riduzione della poesia e del mondo morale, che la sorregge, a coltivazione artificiale riconducibile ad accordi e intersezioni. Non si capisce proprio quale posto, in una struttura così saldamente costruita dall'esterno e circolare, si debba assegnare, ad esempio, alla libertà e alla in venti v a, prodigiose sovranamente in Dante, alla ideologia e alle convinzioni politiche e sociali, al gusto e all'esercizio letterario e soprattutto al criterio di scelta e di esemplificazione, a cui Dante non rinunciò mai. Nasce naturalmente il sospetto di credere (ch'è un non-credere) nell'onnipresenza di un tale tema, così ossessivamente calcato e sottolineato nel poema (sfuggente, invece, in altre opere di Dante stesso, come nel De vulgari Eloquentia, e in altre di altri autori del tempo) e ancor più la sfiducia nella confluenza di elementi tanto eterogenei e richiamati da così opposte e lontane tradizioni senza denuncia alcuna di suture e di compensi.
Il simbolismo del numero, a questo livello, com'è in taluni saggi di altri esegeti cui certo va riconosciuto un impegno eccezionale, tende a rinnovare origine e funzione, temi e finalità dell'allegorismo teologico e morale. Dinanzi a questo, alla fin fine, e al simbolismo trinitario il lettore avverte irriducibilmente preoccupazioni profonde e disagio continuo. Il senso critico, come accade dinanzi a taluni parti ottocenteschi; fiuta la manipolazione e ne rigetta, per forza razionale, ogni risultato, prodotto con questi mezzi e per questa via.
In definitiva, dinanzi a questo e ad ogni altro orientamento interpretativo, oggi più che mai, è importante conservare alla parola la sua positività; non sovraccaricare l'uomo e l'opera d'intenzioni e di congegni che rompono l'equilibrio interno; intendere le poetiche come interdipendenti e sussidiarie tra loro, perché esperienza corrente, precetti di scuola, strutture analitiche, finalità sociali valgono nell'insieme e se, volta per volta, si sperimentano adeguatamente dinanzi a Dante. In tal senso, a nostro avviso, può giovare sempre la lettura «in terna» di un’opera, che, «se sconvolge e dissipa altri poeti, corrobora invece e dà spicco al vigore della poesia dantesca» .

Date: 2021-12-25