La Poesia di Dante (Introduzione) [Benedetto Croce]

Dati bibliografici

Autore: Benedetto Croce

Tratto da: La poesia di Dante

Editore: Bibliopolis, Napoli

Anno: 2021

Pagine: 9-30

C'è ragione alcuna per la quale la poesia di Dante debba esser letta e giudicata con metodo diverso da quello di ogni altra poesia?
Parrebbe di sì, a volger l'occhio al severo profilo tradizionale di Dante, poeta, filosofo, teologo, giudice, banditore di riforme e profeta, e a dare ascolto ai motti che insistentemente si ripetono su lui, che è detto «grande al pari come uomo e poeta», «grande poeta perché uomo grande», «più che poeta», e sulla sua Commedia, definita opera «singolare» e «unica» fra quante altre mai si conoscano.
Quel profilo e quelle parole enfatiche hanno, in verità, fondamento nell'importanza che spetta a Dante, poeta non solo e uomo di pensiero, rappresentante delle concezioni medievali, ma altresì uomo d'azione, partecipe a suo modo della crisi italiana ed europea tra la fine del secolo decimoterzo e il principio del decimoquarto; e rispondono chiaramente al carattere assai complesso del suo maggior libro, nel quale all'opus poèticum si consertano l'opus pbilosopbicum, e l'opus practicum, a sentimenti e fantasie, atti di fede e di religiosità, insegnamenti, censure, della politica fiorentina e di quelle della Chiesa e dell'Impero e di tutti i principi italiani e forestieri, sentenze e vendette, annunzi e profezie, e al significato aperto e letterale si aggiungono significati allegorici o variamente riposti. Sarà opportuno mettere in guardia contro la seduzione a esagerare quell'importanza, e a tal fine rammentare che se Dante non fosse, com'è, grandissimo poeta, è da presumere che tutte quelle altre cose perderebbero rilievo, perché di teologi, filosofi, pubblicisti, utopisti e partigiani politici ce ne furono molti ai suoi tempi come in ogni tempo: pure, l'importanza di esse, specialmente quando le si raccolga come in fascio, non si può negare.
Ma col concedere la semplice «importanza» si è implicitamente rigettata la «singolarità» e «unicità» del poeta e dell'opera sua, e riconosciuto apparente e non sostanziale il sostegno su cui quel giudizio riposa. E veramente in qualsiasi poeta e opera di poesia è dato rintracciare, più o meno copiosi e con risalto maggiore o minore, concetti scientifici e filosofici, tendenze e fini pratici, e anche intenzioni e riferimenti riposti, presentati sotto velo trasparente o adombrati in modo misterioso come ben chiusi nella mente dell'autore. Perciò di ogni poeta, che è sempre insieme uomo intero, e di ogni poesia, che è insieme un volume o un discorso dove si legano molte cose squadernate, è dato compiere, oltre l'interpetrazione poetica, una varia interpetrazione filosofica e pratica, che, sotto l'aspetto da cui guardiamo, possiamo chiamare «allotria». E si badi bene che l'una non sta con l'altra nel rapporto che di solito fallacemente si formula come d'interpetrazione «estetica» e d'interpetrazione «storica», perché in effetto tutte e due sono, e non possono non essere, «storiche», la prima di storia della poesia e la seconda di altra e varia storia. La differenza, che per questa parte è dato porre tra Dante e la generalità degli altri poeti, non è dunque logica, ma soltanto quantitativa, perché, per la già concessa importanza dell'altro Dante, l'interpetrazione «allotria» prende, nei rispetti di lui, grandi dimensioni, assai maggiori che non per altri poeti, per molti dei quali essa è trascurabile e trascurata a segno che quasi pare (pare, ma non è) che non ce ne sia materia.
Cominciò questa interpetrazione filosofica ed etica e religiosa fin dai tempi di Dante, per opera di notai e frati e lettori d'università, e degli stessi figliuoli del poeta; e sarebbe probabilmente cominciata per opera sua stessa, se gli fosse bastata la vita, perché chi aveva commentato le proprie canzoni nel Convivio, difficilmente avrebbe lasciato senza chiosa il «poema sacro». La tanto disputata epistola allo Scaligero potrebbe essere un saggio del commento al quale pensava; e la notizia di un codice quasi par mostrare (come notò il Carducci) Dante nell'atto di ordinare al figlio Iacopo di scrivere le «dichiarazioni»: «Jacobe, facias declarationem». Comunque, non si potrebbe facilmente immaginare altro lavoro di più benefico effetto, se fosse stato eseguito; perché, mercé l'autorità dell'interpetre, avrebbe risparmiato gravi e in gran parte vane fatiche ai posteri. Continuò quella sorta di esegesi in molteplici e grandi commenti per tutto il trecento, e altresì nel quattro e cinquecento; e, dopo una tal quale pausa durata circa due secoli, ripigliò con foga non più cessata dal settecento ai tempi nostri, quando, segnatamente negli ultimi decenni, per opera d'italiani e di stranieri, è diventata imponente o addirittura spaventevole per mole. Chi volesse farne la storia meglio che non sia stata tentata o abbozzata finora, dovrebbe assumere come criterio di progresso il crescente arricchimento e affinamento nei concetti metodici e nel senso dell'obbiettività storica, onde quella interpetrazione si fece e si rifece sempre più scientifica e critica, da edificatoria morale e religiosa quale fu spiccatamente dapprima (e ridiviene talvolta presso spiriti disposti alle meditazioni ascetiche), e da edificatoria politica e nazionale, quale fu soprattutto nel periodo delle lotte del Risorgimento italiano (e come ora si ripresenta quasi soltanto presso retori della cattedra e della tribuna), e da esercitazione accademica d'ingegnose immaginazioni e sofistiche sottigliezze, quale è stata in tutti i tempi e ancora piace agli oziosi. E nella storia del buon avviamento di quelle indagini converrebbe segnare tra i più lontani precursori Vincenzo Borghini, che nel cinquecento comprese la necessità metodica di ricercare documenti autentici del pensiero e del sapere di Dante, e di rifarsi alla lingua e alle costumanze dell'età sua; e, tra i più vicini ed efficaci promotori, gli eruditi del settecento, e, nei primi dell'ottocento, Carlo Troya, che riallacciò Dante, per la parte politica, alla storia del medioevo italiano e degli istituti barbarici e di quelli poi del comune, e venne sgombrando la figura del fautore di Arrigo VII da molte delle ideologie anacronistiche, che le erano state appiccate.
Appartengono al giro di queste indagini - «allotrie», nel senso sopradetto - gli studi sulla filosofia di Dante e su quel tanto, se pur vi fu, che egli nel suo generale tomismo immise di altre correnti speculative o pensò di proprio; sul suo ideale politico, e le somiglianze e differenze che presenta verso altri ideali allora proposti e vagheggiati, sulle vicende della sua vita pubblica e privata, e il variare dei suoi concetti e speranze, e sulla cronologia delle opere e delle singole parti della Commedia in rapporto alle loro storiche occasioni; sull'eredità letteraria, classica e medievale, che egli accolse; su quanto egli conobbe della storia passata e della contemporanea; e su quel che credeva reale nei fatti a cui alluse, e su quel che stimava semplicemente probabile o addirittura immaginò pei suoi intenti; sull'allegoria generale e quelle particolari e incidentali del poema, e se il fine del poema sia etico-religioso o politico o entrambi questi fini combinati; e via enumerando e particolareggiando. Studi che sono ora pervenuti, senza dubbio, presso i migliori, ad alto grado di addottrinamento e di esattezza; ma debbono, per quel che mi sembra, salire ancora un buon tratto per liberarsi da un difetto metodico, che li danneggia e infrivolisce un po' dappertutto, ma specialmente in quella loro parte che riguarda le allegorie, dove i lavori che si sono eseguiti e si eseguono, quanto più si vedono estesi e ingombranti, altrettanto si dimostrano (come, del resto, è notorio) poco concludenti e poco fruttuosi.
L'allegoria non è altro, per chi non ne perda di vista la vera e semplice natura, se non una sorta di criptografia, e perciò un prodotto pratico, un atto di volontà, col quale si decreta che questo debba significare quello, e quello quell'altro: per «cielo» (scrive Dante nel Convivio) «voglio» intendere «la scienza», e per «cieli» le «scienze», e per «occhi» le «dimostrazioni». E quando l'autore di quel prodotto non lascia un espresso documento per dichiarare l'atto di volontà da lui compiuto, porgendo al lettore la «chiave» della sua allegoria, è vano ricercare e sperare di fissarne in modo sicuro il significato: la «vera sentenza non si può vedere», se l'autore «non la conta», come anche si avverte nel Convivio. In mancanza della chiave, della espressa dichiarazione di chi ha formato l'allegoria, si può, fondandosi sopra altri luoghi dell'autore e dei libri che egli leggeva, giungere, nel miglior caso, a una probabilità d'interpetrazione, che per altro non si converte mai in certezza: per la certezza ci vuole, a rigor di termini, l'ipse dixit. Se, in fatto di poesia, l'autore è sovente il peggiore dei critici, in fatto d'allegoria è sempre il migliore. Invece, i più degli studiosi delle allegorie dantesche dimenticano questo principio proprio della materia che trattano, e pretendono giungere al significato riposto per acume d'intelletto e industrie di raziocinio, che farebbero meglio a riserbare ad altri argomenti; onde il loro entrare, e spesso senza avvedersene, nella via che non è via (sebbene, anzi appunto perché, larghissima) delle congetture, delle quali l'una distrugge l'altra e nessuna persuade se non forse chi l'ha escogitata e si è lasciato avvincere dalle proprie escogitazioni e le ha poi rafforzate con l'amor proprio (con «l'affetto che l'intelletto lega»), mettendovi tanto maggior passione quanto più un'oscura coscienza lo avverte che egli non può fondare le sue pretese sopra alcun saldo diritto. A quest'errore metodico, che conferisce a gran parte di siffatte indagini carattere meramente dilettantesco, si aggiunge la sopraestimazione, accennata innanzi, o il fraintendimento della particolare importanza di Dante filosofo e politico. In verità, anche dove par che si possa più fondatamente parlare di originalità del pensiero dantesco, per chi esamini spregiudicatamente, l'originalità man mano si attenua o si dimostra di natura non propriamente scientifica. Così è del trattato De monarchia, nel quale il lodato concetto della monarchia mondiale e della pace universale è un pio desiderio di tutti i tempi, e l'altro, che si vuole che vi si affermi, dello stato laico, è invece un dualismo di potere spirituale e potere temporale, con la debita riverenza di questo a quello, che importa infine una certa subordinazione; sicché esso è piuttosto opera di pubblicistica che di scienza politica, quantunque, con la stessa sua contradizione fondamentale, mostri le difficoltà e i ripieghi in cui si travagliavano le menti sul finir del medioevo, e attraverso cui si preparava la futura scienza politica di Niccolò Machiavelli. Il De vulgari eloquentia non inaugura, com'è stato detto, per le notizie che offre sulle varie parlate d'Italia, la moderna filologia, nata invece dal moderno sentimento storico, e non è una filosofia del linguaggio; sebbene col porre e difendere e raccomandare un ideale di lingua e stile, il «volgare illustre», venga inconsapevolmente (e questo punto è da notare) a convertire il problema filologico e geografico della miglior lingua in un mito di carattere estetico, che solo la nuova filosofia del linguaggio poteva schiarire e logicamente definire . Nella sua metafisica ed etica è difficile, senza l'aiuto del buon volere, ritrovare qualche particolare che non derivi dai libri da lui studiati. Perciò, anche presso i più attenti e scrupolosi indagatori, le ricerche sul pensiero e le dottrine di Dante di necessità si aggirano in minuzie, alle quali si attribuisce diverso o maggior valore che loro non spetti. L'ansia onde si perseguono le allegorie dantesche è la prova più evidente di questa tendenza a esagerare; perché, se anche quelle allegorie si potesse, come non si può, sicuramente determinarle, se anche una buona volta venissero fuori elementi di una interpetrazione autentica, che cos'altro si finirebbe con lo scoprire se non ripetizioni o, se si vuole, piccole varietà di concetti e di credenze e di disegni e di aspettazioni, che già ci sono noti da quei luoghi delle sue opere nei quali Dante parla fuori di allegoria, e da altri testi a lui contemporanei o anteriori? Non è da credere che si otterrebbero rivelazioni mirabolanti sul genere di quelle bandite dal Rossetti e più da taluni suoi seguaci; le quali poi, in ogni caso, offrirebbero una mera curiosità storica e ci svelerebbero un Dante poco sano in una regione del suo intelletto. Si deve in parte a queste gonfiature, a questi sottilizzamenti, a questo litigare su inezie, e più ancora al vacuo congetturare dei cacciatori di allegorie, se «dantista» è diventato, nell'uso comune del linguaggio, quasi sinonimo di «dantomane». Cose certamente inevitabili e che si vedono sempre e dappertutto nel culto che si forma intorno ai grandi uomini; ma delle quali, certamente, si farebbe volentieri di meno.
Nondimeno, dopo questa doverosa protesta contro il troppo che è troppo e contro il parziale difetto di metodo, rimane che l'interpetrazione allotria di Dante è non solo legittima, come per qualsiasi poeta, ma per lui ritiene anche un uso particolarmente appropriato. E legittima altrettanto è l'interpetrazione estetica o storico-estetica, il cui diritto non potrebbe essere, e non è stato, revocato in dubbio se non da coloro, che, di proposito o involontariamente, non ammettono l'arte come una realtà e la trattano quasi parvenza illusoria, risolvendola in altre forme spirituali o addirittura in concezioni materialistiche. Anch'essa ha la sua lunga storia, che comincia davvero questa volta con Dante, cioè con la teoria ond'egli spiegava e giudicava la poesia e con la definizione che dié di sé medesimo come di poeta della «rettitudine» o di poeta «sacro»; e nel suo processo confluisce con la storia dell'estetica e della critica estetica dal medioevo sino al presente; e in questa parte il progresso si effettuò mercé il perfezionarsi del concetto dell'arte e la sempre maggiore esattezza e finezza della intuizione storica. Dall'encomio di Dante come poeta teologo, conoscitore di tutti i dommi e sapiente in etica, si passò ai dibattiti del cinquecento intorno alla Commedia, se rientrasse o no nei generi della poetica aristotelica, e in qual modo vi rientrasse, o se non fosse un genere nuovo; e via via, nel settecento, al rifiuto o negazione e satira di essa in nome del buon gusto razionalistico, donde prima la reazione e correzione che ammoni doversi giudicarla rimettendola in mezzo alle idee e ai costumi e alle passioni del tempo in cui sorse, e poi, una più alta e libera considerazione di quel poema, nell'età romantica, in conformità di un più alto e libero concetto dell'arte.
Se questi due modi d'interpetrazione sono ambedue legittimi, illegittimo invece è il loro congiungimento, quantunque una molto ripetuta formula di scuola - che qui recisamente si rifiuta - asserisca che condizione e fondamento dell'interpetrazione estetica della Commedia sia la sua interpetrazione filosofica, morale, politica e altresì allegorica. Questa formula prendeva un sembiante di verità a cagione della falsa identificazione che, come si è notato, soleva farsi dell'interpetrazione allotria con l'interpetrazione storica in genere, alla quale si metteva a sèguito quella estetica, concepita come per sé non istorica e ritrovante nell'altra la sua premessa o la sua base storica. Ma poiché l'una e l'altra sono, in realtà, a lor modo storiche, cioè rispondono a diverse e compiute storie o forme di storia, è chiaro che il congiungimento richiesto manca del necessario addentellato. La storia della poesia di Dante, e quella della sua filosofia o della sua politica, hanno radice alla pari in tutta la storia che precesse quella creazione estetica, quell'accettazione o riforma di dottrine, quell'azione pratica; ma ciascuna di esse compie, di quella materia storica, una sintesi sua propria, in conformità del proprio e intrinseco suo principio, ad modum percipientis o appercipientis. Valga il vero. Nella storia della filosofia le dottrine di Dante debbono essere ripensate nella loro logicità e dialettica e ricongiunte con le dottrine anteriori e posteriori in guisa da fare scaturire la verità loro e il loro limite, e intendere il posto che presero e l'ufficio che esercitarono nello svolgimento generale del pensiero. Ma nella storia della poesia, come nel semplice leggere e gustare la poesia, tutto ciò non solo non importa, ma, se vi fosse introdotto, disturberebbe; perché quelle dottrine vi stanno non in quanto pensate ma solo in quanto immaginate, e perciò non si dialettizzano nel vero e nel falso. Importa conoscerle, ma allo stesso modo in cui si conosce un mito, una favola, un fatto qualsiasi, cioè come elementi o parti della poesia, dalla quale, e non dalla logica, ricevono impronta e significato.
Parimente, in una storia della cultura medievale, e di quella di Dante in particolare, importa ricercare che cosa si sapesse o si credesse su certi personaggi e su certi miti e discernere nei giudizi che li riguardano ciò che proviene da critica più o meno ben condotta o da tradizioni o da immaginazioni o magari da equivoci: l'Impero romano, Cesare, Bruto, Catone, Virgilio, Minosse, Plutone. Ma nella poesia, e perciò nella storia della poesia dantesca, questi fatti e personaggi diventano immagini o metafore del vario sentire del poeta, e perciò occorre certamente conoscere com'egli li pensasse, ma solo in rapporto all'uso che ne fece nelle situazioni in cui li introdusse, in quanto gli sanavano come grandi nomi del passato, intonati variamente da riverenza, da ammirazione, da amore, da terrore. Avrà Dante, poco esattamente informato o immemore, confuso i due caratteri di Catone Uticense e del Censore; ma la figura del guardiano del Purgatorio non è il frutto di una confusione, sibbene di una poetica creazione, nella quale il nome e qualche tratto sono attinti al ricordo di un eroe romano, il che circonda di un'aureola quel personaggio, cosi come a una cara figliuola noi diamo un nome pieno di care memorie o di alto augurio, e la storia di quel nome non pesa di certo sulla realtà della persona, che ne è stata ornata.
In una storia politica di Firenze è indispensabile muovere da concetti economici e giuridici e seguire le industrie, i commerci, le lotte delle classi, i negoziati e le guerre, e l'azione del re di Francia e dell'Impero e della Chiesa, e comprendere quali problemi di assetto sociale e internazionale allora si dibattessero, e quali gli istituti che andavano perdendo terreno, e quali i nuovi che sorgevano e si rafforzavano, e da qual parte fosse maggiore sagacia e sapienza politica; e vi si potrà anche toccare, nella misura che i documenti superstiti consentono, dell'azione personale di Dante, ascritto alle Arti, priore, oratore, condannato ed esule, attore e paziente in quel processo di demolizione e costruzione, di offesa e difesa. Ma, con la poesia dantesca, tutto ciò non ha diretta connessione; perché gli atteggiamenti passionali, che in essa paiono riferirsi a quei processi storici e perciò essere intelligibili e giudicabili solo in rapporto a quelli, vi stanno nello stesso modo che le notizie provenienti dalla cultura filosofica e storica, come particelle che non è lecito astrarre dalle immagini a cui appartengono ed esaminare in qualità di storia sociale e politica, se non si voglia distruggere, invece di schiarire, il complesso che esse formano. La «gente nuova» e i «subiti guadagni» non sono nel verso di Dante, come nella storia politica, cause ed effetti dell'ascesa industriale e commerciale di Firenze, ma espressione di un impeto di disgusto e aborrimento del poeta. «Il villan d' Aguglione» e «quel di Signa» saranno da giudicare, nella storia politica, come voleva il Troya, più sennati o istintivamente meglio orientati del fazioso guelfo bianco Alighieri, e le «sfacciate donne fiorentine», che irrisero dalle mura della loro città Arrigo VII, più patriottiche di lui; ma nella poesia, quali che quelle persone fossero nella realtà, esse incorporano il disprezzo e l'indignazione, e il villan d'Aguglione e di Signa «già per barattare ha l'occhio aguzzo», e le donne fiorentine vanno mostrando «con le poppe il petto» e bisogna che i predicatori le facciano vergognare, additandole dal pulpito. Converrà nella storia o nella aneddotica appurare la verità di casi come quelli della tragica fine dei due amanti di Rimini o della grandezza e rovina del conte Ugolino; e potrà darsi che nel giudizio di essi Dante, come vuole un interpetre, si lasciasse in qualche parte dominare dall'odio contro i Pisani e contro i Malatesta, «guelfi neri». Ma guai, nel leggere quegli episodi, a tenere presenti i risultati di tali indagini, anziché i soli tratti che Dante segnò, trascegliendoli dagli altri o immaginandoli: svanirebbe di colpo, a chi guardasse con siffatte lenti, quanto vi ha di pietoso e di tragico in quelle figure, e i delitti di Ugolino e la responsabilità giuridica familiare e consortesca spiegherebbero o attenuerebbero l'orrore per l'efferatezza dei Pisani, e gli amori di una Francesca più che trentenne col cognato più che quarantenne parrebbero, come parvero a un critico, un'ignobile tresca, congiunta col ricordo di una simile che Dante avrebbe iniziata o voluta iniziare con la propria cognata: quella Francesca, che, mercé la divina poesia, ha tessuto attorno a sé una sua nuova storia, che faceva respirare con delizia a Giorgio Byron in Ravenna l'aria che la figliuola dei Polenta respirò e al Carducci vagheggiare il colle del cipresso dov'ella temprò «gli ardenti occhi al sorriso».
Finalmente, e per fermarci alquanto sopra un punto che suol dare luogo alle più tormentose difficoltà, tra le forme d'espressione, o meglio di comunicazione e di scrittura, usuali o predilette nel Medioevo, c'era, senza dubbio, l'allegoria, il fare a nascondino, il proporre e sciogliere indovinelli; e talvolta occorre, per intendere certi concetti o per avere notizia di certi fatti, decifrare (se i mezzi disponibili consentono di decifrarli) i criptogrammi allegorici. Ma, checché pretendano e vantino gli investigatori e congetturisti delle allegorie dantesche, nella poesia e nella storia della poesia le spiegazioni delle allegorie sono affatto inutili e, in quanto inutili, dannose. Nella poesia, l'allegoria non ha mai luogo: se ne parla bensì, ma, quando si va a cercarla e a volerla cogliere, non si trova: ombra vana perfino nell'aspetto, nonché all'abbracciare. Due casi, infatti, possono darsi; il primo dei quali è che l'allegoria sia congiunta ab extra con una poesia, con una vera e compiuta poesia, decretandosi, come s'è detto, per un atto di volontà, che tali personaggi, tali azioni, tali parole della poesia debbano stare anche a significare un certo fatto che è accaduto o accadrà, o una verità religiosa o un giudizio morale o altro che sia. In questo caso, è chiaro che la poesia rimane intatta, e che essa sola può riguardare la stori~ della poesia, laddove tutto l'altro, il secondo senso - al cui sopravvenire il primo, la poesia, decadrebbe a un non-senso e si trasformerebbe in un oggetto che serve per segno – appartiene alla cerchia e alla storia della pratica. L'altro caso è che l'allegoria non lasci sussistere la poesia o non la lasci nascere, e al suo luogo ponga un complesso d'immagini discordanti, poeticamente frigide e mute, e che perciò non sono vere immagini ma semplici segni; e in questo caso, non essendoci poesia, non c'è neppure oggetto alcuno di storia della poesia, ma solo l'avvertenza del limite di questa, del poeticamente fallito e nullo, del brutto. Un terzo caso, che si suol supporre, quello in cui si abbia bensì allegoria ma tradotta compiutamente in immagini, e tale che non rimanga fuori della poesia come nel primo caso e non la distrugga o impedisca come nel secondo, ma cooperi con essa e in essa, si dimostra apertamente contradittorio, perché, se l'allegoria c'è, essa è sempre, per definizione, fuori e contro la poesia, e se invece è davvero dentro la poesia, fusa e identificata con lei, vuol dire che allegoria non c'è, ma unicamente immagine poetica, la quale, ben s'intende, non si restringe mai a cosa materiale e finita, ed ha sempre valore spirituale e infinito. In tutti questi casi, chi legge poeticamente non giunge, né deve o può giunger mai, al senso allegorico, perché naviga in altre e più dolci acque; e, d'altronde, è impossibile, per isforzi che si facciano, vedere una accanto all'altra due cose, di cui una appare solo quando l'altra dispare. Ed è sofisma che, per intendere certi luoghi poetici, sia necessario far precedere la spiegazione allegorica, laddove ciò che deve precedere è la conoscenza degli elementi di linguaggio, di vivo linguaggio, che in quei luoghi si atteggiano in nuova sintesi. Ed è un altro sofisma, che il senso allegorico aggiunga alla poesia una vaga e gradevole o sublimante «suggestione»: suggestione a che? a distrarsi dalla poesia?
Esempio del primo caso può essere Beatrice negli ultimi canti del Purgatorio e nel Paradiso, la quale sarà allegoricamente tutto ciò che Dante avrà voluto o gli interpetri avranno farneticato (la Teologia, la Rivelazione, l'Intelligenza attiva e via dicendo), ma, quale che sia in quest'arbitrio d'imposizione di nomi, in poesia è semplicemente una donna, una donna già amata e ora felice e gloriosa e pur benigna e soccorrevole all'antico amatore. Ovvero Matelda, della quale si sono date almeno una ventina d'interpetrazioni dottrinali, che vanno dalla Vita attiva alla Grazia preveniente e cooperante, dalla Natura umana perfetta al Misticismo pratico, dall'arte o abito operativo e virtù intellettiva alla Conciliazione della Chiesa con l'Impero, e almeno sei storiche (la contessa Matilde di Canossa, una santa Matilde di Hackenborn, una bezhina Matilde di Magddeburgo, la beata Matilde madre dell'imperatore Ottone I, santa Maria Maddalena, un'amica di Beatrice del tempo della Vita nova); eppure in poesia è né più né meno che quella che si vede nelle immagini e che risuona nel sentimento: una giovane donna, la quale, nella frescura del mattino, in un boschetto, «si gia Cantando ed iscegliendo fior da fiore»: figura infinitamente più ricca (in poesia) di quella che si pretenderebbe arricchire ed annullare con uno di questi scarabocchi di secondi sensi e di allusioni storiche. Ovvero le «quattro stelle», le quattro famose stelle che Dante, all'uscire dall'Inferno, a un tratto vede nel cielo, non viste mai, e delle cui fiammelle pare che il ciel goda; e che saranno bene le quattro Virtù cardinali degli allegoristi, ma sono in poesia nient'altro che quella commozione di meraviglia e rapimento all'inatteso e bellissimo spettacolo.
Quanto del primo caso è facile recare esempi, perché moltissimi ne occorrono, tanto è difficile del secondo, perché Dante è tal robusto e ferace poeta che assai di rado, e non mai completamente, si chiude nello sterile allegorizzare, privo di poesia. Nondimeno, con la sopradetta riserva, si possono citare il Veltro che non ciberà terra né peltro, ma sapienza e amore e virtude e avrà nascita tra feltro e feltro, e la lupa che «molte genti fe’ già viver grame», e il pié fermo che «sempre era il più basso», e il «bel fiumicello» che si passa «come terra dura», e simili; e si possono anche recare alcune canzoni e sonetti alquanto vuoti, che pendono incerti tra il mortale e l'amoroso. Nella Commedia, in alcuni luoghi che si considerano allegorici, Dante rifà semplicemente il tono profetico e apocalittico, e, cosi oggettivando l'allegorizzare, abbassandolo a materia, si muove pur sempre nella pura poesia.
Del terzo caso non si possono dare esempi', perché, come s'è detto, è un caso inconcepibile, e, quando esempi' se ne recano, è agevole vedere che si tratta o di poesie senza allegoria o di poesie che ne sopportano bensì una, ma posseggono, d'altro lato, il proprio senso poetico. Tale è la canzone delle Tre donne, che il Coleridge diceva di aver letta non so quante volte e di rileggerla sempre e di non esser mai riuscito a intenderne il significato, ma che, nondimeno, essa esercitava su lui un gran «fascino» (fascination) per quell' «anima di universale poesia che vi è, come in ogni vera poesia, in aggiunta al senso specifico». Dove è chiaro che il fine intenditore, ma non altrettanto esperto teorico, chiamava «senso specifico» quello che non è specifico ma estraneo, e «anima» o «soffio» o «fascino» quello che è il vero senso specifico perché poetico.
Insomma, anche se tutte le allegorie di tutte le liriche, e di tutti i luoghi della Commedia, fossero spiegate e in modo certo, resterebbe poi sempre da interpetrare quelle liriche e quei luoghi storicamente, prescindendo cioè dalle allegorie come inutili e dannose distrazioni, e ricercando il vero «senso specifico». E se io dovessi designare in qualche modo I'interpetrazione storica che è propria dell'interpetrazione storico-estetica, ossia il momento analitico che precede quello sintetico, direi che è l'explanatio uerborum, l'interpetrazione, largamente intesa, del senso delle parole: senso che, come tutti sanno, si trae non dalla loro etimologia e dalla sequela dei concetti e dei sentimenti che hanno concorso a formarle e che stanno dietro a loro come una sorpassata preistoria, ma dall'uso generale dei parlanti di un dato tempo, dall'ambiente in cui sono adoperate, e si determina e individua poi in relazione alla nuova frase che è composta di esse e insieme le compone e le crea. Proposizioni filosofiche, nomi di persone, accenni a casi storici, giudizi morali e politici e via dicendo, sono, in poesia, nient'altro che parole, identiche sostanzialmente a tutte le altre parole, e vanno interpetrate in questi limiti. Nella interpetrazione allotria non sono più, e non debbono essere, parole, ossia immagini, ma cose.
Può darsi che non in tutti i casi si riesca a determinare, in quella explanatio uerborum, il senso preciso di talune parole, il contenuto morale, filosofico, e, in genere, storico, che in esse vibra; ma lo stesso può accadere per ogni altra parola, perfino di quelle che si dicono di materia comune e familiare. E, quando non si riesce a determinarlo con esattezza, permane una maggiore o minore oscurità; e della «oscurità» di Dante si è molto vociferato ed è anzi passata in proverbio, di essa stranamente esagerandosi l'importanza e l'estensione. L'oscurità di Dante è piuttosto una difficoltà, che viene dall'esser la lingua che egli usò molto ricca e in alcune parti antiquata, e le riferenze storiche molteplici e non ovvie, e la terminologia filosofica appartenente a una cultura oltrepassata e nota solo a specialisti; e perciò quella oscurità si schiarisce con un po' di buona informazione, senza dire che concerne di solito punti particolari e secondari. Qualche volta rimane oscurità, o perché il poeta sia stato poco attento a evitare equivoci, o perché mancano i documenti che la schiarirebbero; e allora l'interpetrazione diventa meramente congetturale, ammettente cioè parecchie possibilità, e non si potrebbe asserirla se non per arbitrio. Ma, invece di riconoscere questo stato di fatto e rassegnarvisi, i dantisti si attaccano a quei versi oscuri con tenacia che è quasi frenesia, e non cessano di proporne nuove e spesso bizzarre interpetrazioni, e vi litigano intorno. Sarebbe meglio, pur nell'attesa e speranza di qualche documento che venga fuori a schiarirli, attenersi, per quei pochi versi oscuri, a uno dei seguenti due partiti: o trattarli come si trattano i pezzi perduti e non restaurabili d'un dipinto, sui quali si stende una tinta neutra, o restaurarli, adottando tra le varie interpetrazioni possibili quella che sembra la più calzante e la più bella. Così è certamente da preferire pel verso «Poscia più che il dolor poté il digiuno» del conte Ugolino l'interpetrazione: che il dolore che teneva lo sventurato in vita delirante fu alfine vinto dalla brutale forza dell'inanizione e quetato nella morte, perché quest'ultimo tocco compie quella scena, tutta di umano strazio, assai più armonicamente che non l'altro di un Ugolino, che disperatamente addenta le carni dei figliuoli morti; ma con ciò non si esclude in via assoluta che Dante potesse voler dire invece per l'appunto questa seconda cosa, in conformità di una voce che corse in qualche città d 'Italia intorno agli ultimi istanti di Ugolino. Così anche «il modo ancor m'offende» di Francesca meglio s'interpetra per la morte datale in flagrante, che rese pubblica la sua colpa e che ancora, per violato pudore e sdegno fremente, le brucia l'anima; pur senza escludere che Dante intendesse accennare al tempo che le mancò al pentimento, o magari, come altri pretende, alla storiella (tardiva storiella) dell'inganno ond'ella fu tolta a Paolo e disposata a Gianciotto. E, per aggiungere un terzo esempio, «lo cor che in sul Tamigi ancor si cola» suona frase più efficace e poetica se «cola» (com'è stato proposto) si deriva da «colare» e non da «colere», e s'intende che quel cuore ancora stilla sangue e non è sazio di vendetta. D'altra parte, non giova insistere nel voler conoscere a ogni patto il senso preciso del verso: «Forse cui Guido vostro ebbe a disdegno», che allude a particolari biografici, affatto o quasi affatto perduti, di Guido Cavalcanti e delle sue relazioni con Dante; smarrendo, in quella insistenza sopra un verso oscuro, la poesia dell'episodio, che è chiarissima: ed è questo uno dei casi in cui converrebbe stendere la «tinta neutra».
La distinzione e la profonda diversità tra le due inrerpetrazioni, l'estetica e l'allotria, che abbiamo procurato di fermare in esatti termini logici, è sentita generalmente, sebbene pensata in modo confuso ed espressa con formule improprie. Da quella coscienza o semicoscienza proviene il fastidio che di continuo prorompe contro gli allegoristi, gli storicisti, gli aneddotisti, i congetturisti, e in genere contro i filologi e i «commentatori»; e il proposito che si forma e l'esortazione che si predica a leggere Dante, gettati via i commenti, «da solo a solo». Certo, non si può far di meno, e nessuno ha mai fatto di meno, dell'aiuto dei commenti nel leggere Dante; ma il consiglio di gettarli via è buono tutte le volte (e sono assai frequenti) che, invece di fornire i soli dati giovevoli alla interpetrazione storico-estetica, esibiscono cose inopportune ed estranee: certo, nessuno può leggere Dante senza adeguata preparazione e cultura, senza la necessaria mediazione filologica, ma la mediazione deve condurre al ritrovarsi con Dante da solo a solo, ossia a mettere in immediata relazione con la sua poesia. Questa è l'esigenza ragionevole che si manifesta in quel fastidio e in quei propositi, i quali, per altri rispetti, vanno di là dal ragionevole.
Si obietterà che, con la distinzione che si è propugnata, si viene a scindere l'unico Dante in due o più Danti: che sarebbe operazione più crudele di quella che compieva sui seminatori di scandalo e di scisma il diavolo della nona bolgia, e, a giusta ragione, da deprecare e impedire. Senonché, qui non si tratta di «scindere» nulla, ma soltanto di «pensare», e pensare non si può se non distinguendo, e la distinzione di cui ora si discorre, prima assai che da noi critici, fu eseguita dallo stesso Dante, quando, invece di restringersi e chiudersi nella politica o nella filosofia, si permise di essere anche poeta; sicché, come di volta in volta risolse tutto il suo mondo nella speculazione o nel pratico operare, cosi del pari, e ben più largamente ed energicamente, lo risolse tutto nella gioia del verso, nel comporre sonetti e canzoni e la mirabile Commedia. Altra unità, fuori di questo moto dialettico, non esiste; e un Dante in sé e per sé, una «danteità», sarebbe torbido prodotto d'immaginazione, caro all'anarchico individualismo dei decadenti, ma che il serio pensiero non conosce. E quando col pensiero si va ricercando un'unità oltre il processo delle forme particolari, si prende a poco a poco, senza avvedersene, una di queste forme e la si colloca a capo delle altre o si lascia che opprima le altre; come in alcune caratteristiche falsamente unitarie che si sono tentate di Dante, nelle quali la teologia, per esempio, o la politica si assoggetta la poesia e la riduce a suo strumento e, in fondo, fa come se non esistesse. Ovvero accade di avvolgersi in una fraseologia sonora ma vuota, come quando si dice che in Dante non c'è il teologo e il poeta, il politico e il filosofo, il semplice dicitore e l'allegorista, ma tutte queste persone in una, o che nella Commedia sono tutti i generi, letterari e non letterari, tutte le forme spirituali, e il dramma e l'epopea e il trattato e la profezia, e via discorrendo. Così, certamente, tutto si unifica, ma a furia di parole e non per virtù del pensiero, il quale non pensa mai le cose alla rinfusa.
Alla precedente obiezione se ne lega un'altra anche abbastanza comune, che cioè, prendendo la poesia dantesca disgiunta dalle allegorie, dalle dottrine, dalle erudizioni, si entri in dissidio con l'autore, che voleva che fosse guardata e giudicata secondo la teoria estetica che egli aveva ricevuta dalla tradizione medievale. Ma parrebbe inutile ripetere cosa che dovrebbe ormai ritenersi evidente: che Dante poeta non combacia con Dante critico, e che l'atto della creazione poetica e l'atto del pensamento filosofico di essa sono due atti distinti e diversi, e che perciò bisogna trattare la poesia dantesca, non secondo Dante, ma secondo verità: al modo stesso, del resto, con cui si trattano Platone e Aristotele secondo non la loro filosofia, ma quella che, per il critico, è la nuova verità della filosofia, e Omero non secondo la poetica degli aedi, d 'altronde poco nota, ma secondo la verità eterna della poesia. Se si volesse far altrimenti, se si volesse pensare Aristotele con Aristotele e Dante con Dante, si entrerebbe in un disperato tormento, nell'impossibile sforzo di mutilare il nostro animo e la nostra mente, che rifà bensì e ripensa l'antico, ma solo in quanto lo supera. Dire che, col leggere Dante in compagnia di un teologo, si ha meglio il senso della corrispondenza con la volontà di Dante, è dire cosa indubitabile; senonché, nel caso presente, non si tratta di volontà da interpetrare, ma di poesia. Dire, com'è stato detto più volte (e leggo ora di nuovo in un libro americano), che Dante arderebbe di sdegno contro i suoi maggiori ammiratori e critici odierni, contro i De Sanctis e i Symonds, presi solo della bellezza sensibile e poetica dell'opera sua, non è argomento contro ma anzi a favore della critica, che dal tempo di Dante a noi ha percorso molto cammino. L'estetica e la critica che egli fece, nei modi in cui allora si poteva, fu affar suo; e quella, che facciamo noi, deve esser affar nostro.
Ma quale sarà poi il criterio estetico che converrà seguire? Se la critica in genere, e con essa la critica dantesca, progredì, come si è ricordato, dal medioevo al romanticismo e all'estetica idealistica, si può ancor oggi accettare il criterio che si formò in quest'ultimo periodo? Era esso, senza dubbio, di gran lunga superiore a quello della poetica neoclassicistica, e, nonostante le parecchie scorie del passato che trascinava seco, valse a porre in alto nel mondo dello spirito la poesia, e nel mondo della poesia Dante, come schietto poeta, genio poetico, e non più come insegnatore di dottrine e oratore di virtù o come dotto letterato. Pure quell'estetica non riuscì mai a cogliere il punto giusto nel determinare la natura dell'arte, e oscillò, nel definirla, tra i due estremi di una rappresentazione simbolica dell'Idea o del Cosmo, e di una rappresentazione fortemente realistica.
Presso alcuni critici, segnatamente italiani, prevalse il primo estremo; e nella poesia, e in Dante, fu celebrata l'altezza del concetto e la sublime morale, tralucente in forme solenni e splendide. Ma non era questa la tendenza più moderna, più poderosa e più ricca; e verso l'altro estremo inclinò io genere la critica romantica per l'efficacia delle contemporanee correnti letterarie, le quali si contrapponevano alla vecchia letteratura classicistica, didascalica, oratoria, rettorica, e mettevano in onore la passionalità. Ora, senza dubbio, la passione è la materia della poesia come dell'arte in genere, e senza passione non nasce poesia ed arte; ma i romantici per una parte confondevano sovente la passione come «materia» con la passione come «forma», deprimendo l'idealità dell'arte, e dall'altra, anche in quanto materia la concepivano in modo ristretto e arbitrario. Non pareva a essi di ritrovare vera passione se non in certe forme e in certi toni di passione, torbidi, agitati e violenti, solcati da lampi che insieme li rischiaravano e li facevano apparire più cupi e tristi e non mitigavano ma esasperavano quel furore: ideale che sembrava loro di vedere attuato nei drammi shakespeariani e in alcune creazioni goethiane, Werther, Faust, Mefistofele, Margherita, e nei poemi e drammi del Byron e di altri minori. Seguiva da ciò che altri toni di passione e di sentimento, quelli, per esempio, esprimenti la sicurezza del pensiero, la calma robusta della volontà, la misurata energia, la virtù, la fede e simili, erano giudicati meno poetici o addirittura impoetici, perché privi (essi dicevano) di contrasti, cioè dei contrasti del genere di sopra descritto. E seguiva un altro effetto, strano alla prima, ma che pure psicologicamente si spiega ed è comprovato dal posteriore trapassare del romanticismo nel verismo: la tendenza a concepire l'arte come riproduzione della realtà, di una realtà anch'essa arbitrariamente delimitata, grossa, tangibile, rumorosa, gridante.
La critica della poesia dantesca è stata in più parti offuscata da codesti preconcetti estetici e predilezioni romantiche; ai quali precipuamente è da riportare (perché, se non lo inventarono, gli dettero alimento e vigore) il vulgato giudizio che la cantica dell'Inferno sia poeticamente superiore alle altre due, come quella in cui hanno posto le umane passioni, scemanti poi di rilievo e di forza nel Purgatorio e affatto dileguanti nel Paradiso; o che nell'Inferno vi sia concretezza e poesia e nel Paradiso solo insipidi spettacoli di beatitudini. A essi anche l'altro giudizio, che nella prima metà dell'Inferno s'incontrino i grandi caratteri poetici, e poi, via via che si scende tra peccatori meno drammatici, si vada nella «prosa». A essi, la condanna delle parti dottrinali della Commedia come prosa in versi o didascalica. A essi infine, e per mentovare solo gli errori principali, l'affermazione che Dante poté ben ritrarre l'inferno, pel quale ritrovava agevolmente modelli reali nella vita terrena, ma doveva fallire nel rappresentare il paradiso senza sussidio di possibili osservazioni ed esperienze: il che ripeteva, tra gli altri, lo Schopenhauer per trarne conferma al suo giudizio pessimistico sul mondo, atto a riflettersi bensì in un inferno ma non mai in un paradiso; e qualcosa di simile aveva già notato il Leopardi, nello Zibaldone.
Quale parziale motivo di vero alcuni di questi giudizi contengano sarà da vedere ai luoghi propri; ma è certo che molto più vi si mescola di falso, e che così il falso come il vero sono ragionati sopra teorie insostenibili, com'è quella della passionalità arbitrariamente circoscritta, e questa sulla rappresentabilità dell'Inferno e sulla non rappresentabilità del Paradiso. Veramente, per questa parte, Dante sapeva ciò che i critici non sanno o hanno dimenticato: che Inferno, Purgatorio e Paradiso, tutta la vita oltremondana, è irrappresentabile e perciò non veramente pensabile dall'uomo; il tormento costante ed eterno supera la capacità della mente umana non meno del gaudio costante ed eterno; ed egli intendeva darne solo una figurazione simbolica o allegorica. Ma, lasciando ciò e facendo l'ipotesi che tutti e tre quei regni si trovino in qualche parte della terra, sarebbero essi pur sempre una realtà esterna, oggetto o piuttosto fattura dell'osservazione naturalistica e dell'intelletto classificante, ma inattingibile all'arte, che non ritrae cose ma sentimenti, o, piuttosto, sui sentimenti crea le sue alte fantasie. Nonché il Paradiso, è impossibile ritrarre poeticamente una rosa o una nuvola, se la fantasia non trasforma il sentimento in rosa o in nuvola. Con questo accenno, si è già adombrato il criterio che è da sostituire a quello dell'estetica idealistica e romantica e che ne è, per certi rispetti, correzione e inveramento: il concetto dell'arte come lirica o intuizione lirica. Concetto speculativo, che giova tener distinto da quello empirico, onde, disputandosi di frequente del genere letterario a cui appartiene la Commedia, e proponendosi successivamente il genere epico, il drammatico, il didascalico o il miscuglio di tutti i generi, si è anche pensato, talvolta, al «genere lirico». La liricità, di cui parliamo, non è un genere di poesia, ma è la poesia stessa, e anzi ogni opera d'arte, pittorica, plastica, architettonica, musicale o altrimenti che si chiami. Né essa ha nulla da vedere con l'efflusso immediato del sentire, e, nel caso di Dante, con la documentazione che (come da altri si è asserito e cercato di provare) egli sarebbe venuto offrendo, mercé il poema, della sua «subiettività», ossia del carattere suo realistico, della sua persona pratica. Quel concetto vuol veramente risolvere le antinomie che travagliavano l'estetica idealistica e romantica, la quale cercava a ragione una materia per l'arte, ma finiva col riporla in una realtà esterna e in una nuova sorta d' «imitazione della natura», e a ragione cercava una forma teoretica, ma finiva col riporla in una simbolica, ossia nel rivestimento sensibile di un concetto speculativo, pensato o semipensato. E si argomenta di risolverlo col concepire come materia il pratico sentire e come forma l'elevazione del sentimento a intuizione, ossia a problema teoretico, che l'arte pone insieme e risolve, creando la immagine. Né merita difesa la taccia, che gli è stata data, di ridurre l'arte a risonanza della passione e di promuovere un ultraromanticismo; quando è evidente che, solo mercé di esso, si supera e concilia l'altra vecchia antinomia di romantico e classico, e che l'uso che delle parole «lirica», «lirismo» e «liricità» fanno gli odierni disordina ti e disarmonici artisti, è la caricatura e la perversione romantica di un concetto non romantico, sorto come correzione del romanticismo. I principi metodici, che sono venuto dilucidando, non si riferiscono, nel loro intrinseco e universale, unicamente a Dante, perché, com'è chiaro, si estendono allo studio di ogni sorta di poesia e d'arte. Ma sono quelli che più particolarmente conveniva richiamare per rimuovere le principali difficoltà nelle quali s'intriga, e rimane ancora intrigata, la critica dantesca.

Date: 2021-12-24