Interpretazione, progetto [Francesco Muzzioli]

Dati bibliografici

Autore: Francesco Muzzioli

Tratto da: L'allegoria

Editore: Lithos, Roma

Anno: 2016

Pagine: 40-52

[…] Nel Convivio, Dante espone brevemente questa suddivisione di livelli, applicandola alla interpretazione della poesia:

L'uno si chiama litterale e questo è quello che non va oltre a ciò che suona la parola fittizia, sì come ne’ le favole dei poeti. L’altro si chiama allegorico e questo è quello che si nasconde sotto ‘l manto di queste favole, ed è una veritade ascosa sotto bella menzogna: sì come quando dice Ovidio che Orfeo facea con la cetera mansuete le fiere, e li arbori e le pietre a sé muovere; che vuol dire come lo savio uomo con lo strumento de la sua voce faccia mansuescere e umiliare li crudeli cuori, e faccia muovere a la sua volontade coloro che non hanno vita di scienza e d’arte; e coloro che non hanno vita ragionevole alcuna sono quasi come pietre.
(...) Veramente li teologi questo senso prendono altrimenti che li poeti; ma però che mia intenzione è qui lo modo de li poeti seguitare, prendo lo senso allegorico secondo che per li poeti è usato.
Lo terzo senso si chiama morale, e questo è quello che li lettori deono intentamente andare appostando per le scritture, ad utilitade di loro e di loro discenti; sì come appostare si può ne lo Evangelio, quando Cristo salìo lo monte per transfigurarsi, che de li dodici Apostoli menò seco li tre; in che moralmente si può intendere che a le secretissime cose noi dovemo avere poca compagnia.
Lo quarto senso si chiama anagogico, cioè sovrasenso; e questo è quando spiritualmente si spone una scrittura, la quale, ancora sia vera eziandio nel senso litterale, per le cose significate significa de le superne cose de l’etternal gloria, sì come vedere si può in quello canto del Profeta che dice che, ne l’uscita del popolo d’Israel d’Egitto, Giudea è fatta santa e libera. Ché, avvegna essere vero,secondo la lettera sia manifesto, non meno è vero quello che spiritualmente s'intende, cioè che ne l’uscita de l’anima dal peccato, essa sia fatta santa e libera in sua potestate.

Tralasciando di approfondire qui un’altra importante distinzione medievale, quella tra l’allegoria in factis e allegoria in verbis (che potrebbe essere condotta a riconfermare quella divisione tra allegoria e metafora: l’allegoria parla con le cose, la metafora con le parole); mi limito qui a sottolineare come la dottrina dei “quattro sensi”, per quanto limitata a quattro e ben gerarchizzati livelli e passibile ancora di assolvere una funzione di controllo, è tuttavia inequivocabilmente una apertura del testo, che diventa attivo secondo una stratificazione di potenziali significati. Se non altro, smentisce un altro luogo comune, essere l’allegoria da scartare perché banalmente univoca; mentre l’abbiamo, qui, almeno — se si può dire così — “tetravoca”. Non per niente il modello dei “quattro sensi” verrà rigoreso nei tempi moderni (da Jameson, come vedremo più avanti).
Ma c’è ancore un altro punto in cui gli antichi hanno qualcosa da insegnarci. L'individuazione del senso più “adatto”, se ha degli aspetti di forzatura, non esclude il rilevamento di segnali che reclamino l’interpretazione. Questi segnali saranno, per l’appunto, l’incoerenza, l’inverosimiglianza, la contraddizione. Ecco allora delle indicazioni di metodo che diventano, ai nostri occhi, particolarmente stimolanti. Vediamo come se ne rende conto il teorico bulgaro-francese Tzvetan Todorov, andandosi a rileggere nel 1978 l’antico Filone di Alessandria (I d. C.) che costituisce il punto di passaggio (e di sintesi) tra la tradizione greca e quella cristiana. È un autore interessante, anche perché usa insieme i termini simbolo, uponoia e allegoria: il simbolo è l’elemento rappresentato, l’uponoia il senso sottostante e l’allegoria la modalità complessiva.
Ma sentiamo cosa ne scrive Todorov:

Osserviamo ora come si procede in una scuola esegetica. È possibile che una dottrina filosofica formuli il postulato che ogni cosa deve essere interpretata: in questo caso non esisteranno indizi testuali e si potrà a mala pena parlare di regole esegetiche, tanto l’operazione risulterà scontata. È questo il caso del simbolismo medievale, per il quale tutto l'universo è considerato alla stregua di simbolo di Dio (il mondo è un libro): nessun indizio. particolare è richiesto perché l’interpretazione prenda l’avvio. Situazione analoga è quella del platonismo per il quale le cose visibili sono necessariamente la manifestazione delle idee immateriali. Tenuto conto delle differenze, potremmo dire la stessa cosa anche per l’interpretazione psicoanalitica. L’esegesi religiosa o sacra, invece, per quanto caratterizzata da una certa avidità, si è sforzata di formulare criteri relativamente ristretti. Il ti tipo di indizio che ricorre in modo più frequente è l’inconvenienza: un testo deve essere interpretato perché altrimenti non sarebbe più in grado di illustrare la santità divina. Così le Questioni omeriche (trattato di incerta attribuzione e datazione) argomentano a proposito di Omero: «Dal momento che la figura dell’allegoria è comune a tutti gli altri poeti, e non è ignota neppure a Omero, per quale mai motivo dovremo astenerci dal sanare tramite una simile difesa ciò che appare sconveniente in relazione agli dèi?»; situazione scandalosa che verrà risolta appunto con il rimedio allegorico. E Frazer, a ragione, scriverà che «la storia delle religioni non è che un lungo sforzo per conciliare un uso antico con una nuova razionalità»: nel nostro linguaggio questo sforzo prende il nome di interpretazione.
Rivolgiamoci a Filone d'Alessandria per osservare la natura degli indizi cui fa ricorso un tipico, rappresentante dell’esegesi religiosa allegorica (le citazioni provengono dalle Legum allegoriae).
Contraddizione: «E tuttavia Adamo non era nudo: “cucirono delle foglie di fico e se ne fecero delle cinture” come si è detto poco prima; il fatto è che con ciò l’autore sacro vuole farci sapere che non intende parlare della nudità del corpo, ma di quella in cui si trova l’intelletto che non partecipa della virtù, che è nudo e spoglio di essa» (III, 55).
Discontinuità: «“E Dio disse alla donna: Perché hai fatto questo? E la donna rispose: Il serpente m'ha sedotta e io ne ho mangiato” (Cen., 3, 13). Dio domanda una cosa alla sensazione [che allegoricamente è la donna] e questa ne risponde un’altra; le chiede infatti qualcosa su suo marito, ma essa non gli parla di lui, bensì di se stessa, dicendo: Ne ho mangiato, e non: Gliene ho dato. Non è dunque solo con la spiegazione allegorica che risolviamo le difficoltà, mostrando come la donna risponda direttamente alla domanda?» (III, 59-60).
Superfluità: «Perché dopo le parole “la verdura dei campi” aggiunge ‘e tutta l’erba?, come se la verdura non potesse essere dell’erba? Il fatto è che la verdura dei campi è l’intelligibile, frutto dell’intelligenza, e l’erba il sensibile, che è anch'esso frutto, ma della parte irrazionale dell’anima» (I, 24).
Inverosimiglianza: «Una di queste donne è quella di Potifar, la moglie del capo delle guardie del Faraone. Bisogna capire come, pur essendo eunuco, questi abbia tuttavia una moglie; poiché per coloro che si occupano più della lettera che non del senso della Legge, sorge qui l’apparenza di un problema» (111, 236).
Inconvenienza: «Non saremo così sciocchi da credere che Dio usi, per soffiare, gli organi della bocca e delle narici: Dio non rientra in alcuna categoria qualitativa... L'espressione ha un senso ancor più profondo» (I, 36-37). E via di seguito...
La critica letteraria moderna si fonda, nella sua pratica di interpretazione, su postulati che risalgono all’estetica romantica; anzitutto su quello della forma organica (a tal punto che meriterebbe il titolo di «critica organica»). Tutto all’interno dell’opera, trova una corrispondenza, tutto concorre a formare la stessa «immagine dell’arazzo» e la migliore interpretazione è quella che consente di rendere ragione, di «integrare» il maggior numero di elementi testuali. Ci sì trova così impreparati alla lettura del discontinuo, dell’incoerente, dell’inintegrabile.
Si può infine immaginare l’assenza sia di indizi particolari sia di regole generali che prescrivano l’interpretazione — e che esista tuttavia un soggetto che continua a interpretare... Il caso esiste, pur non facendo parte delle strategie esegetiche considerate tali: è quel che in psicopatologia si chiama «delirio interpretativo», una forma di paranoia. Ciò dimostra che la nostra società esige un motivo ogni volta che si decide di interpretare.

Quello che colpisce non è tanto il tenore delle singole interpretazioni, quanto l’idea che l’allegoria si annidi negli scompensi del testo, nel suo lato incoerente, nel suo disfunzionamento. Siamo portati, come del resto già fa Todorov, a leggere l’antica esegesi con gli occhiali della odierna decostruzione. L’allegoria insomma è un testo imperfetto, la cui ricchezza, paradossalmente si annida proprio nelle falle.
Adesso, s'impone però un passaggio: se l’allegorizzazione si trasferisce dal Libro divino al libro umano, non cambia la i prospettiva? Non si tratterebbe più di trovare delle allegorie nascoste, bensì di produrle in modo tale da farle intendere al lettore. Michel Charles, in Rhétorique de la lecture, affronta la questione distinguendo tra il modello ‘”esegetico” e quello “pitturale” (pittorico) dell’allegoria, il che equivale alla differenza tra il punto di vista dell’interprete (che scopre l’allegoria), e il punto di vista dell’autore (che la costruisce). Precisamente, Charles separa il “testo allegorico” e e l’”immagine allegorica”: «Dans le texte allégorique, le sens se constitue comme “en profondeur”; dans l'image allégorique comme “en surface”’». Questa differenza si potrebbe anche riscrivere così: per l’interprete quello che conta è l’allegorizzato (e l’allegorizzante è guardato con circospezione, perché nasconde qualcosa); per l’autore quello che conta è l’allegorizzante (altrimenti darebbe subito direttamente il senso; l’autore può anche non sapere con certezza quale allegorizzato verrà trovato). Gli artisti sanno che, comunque, per rappresentare bisogna sempre mettere avanti un rappresentante. L’interrogativo sul significato fa parte del normale lavoro richiesto dal testo (se no non esisterebbe la critica letteraria); l’allegoria si limita soltanto a raddoppiare l’interrogativo (alla domanda iniziale “cosa viene rappresentato?” si aggiunge la domanda “cosa rappresenta ciò che viene rappresentato?”; per l'appunto i “due tempi”…).
Le due prospettive sembrano diametralmente opposte: certamente quando il pittore scrive “Caritas” sopra una figura di donna, o il poeta scrive “il Tempo” con la maiuscola, l’interprete resta senza lavoro, mentre non possiamo negare che l’allegorizzazione in quel caso sia stata intenzionalmente scelta dall’autore. Tuttavia, storicamente, ci possono essere legami tra le due operazioni: si vedano le riflessioni teoriche di Dante, nel Convivio, quando vede il metodo dell’allegoria spostarsi dalla prospettiva dei «teologi» a quella dei «poeti», i quali dicono “parole fittizie”, ma nascondono un altro senso «sotto ’l manto di queste favole». La cosa non è senza implicazioni, in quanto tale trasposizione dell’allegoria equivale a sostenere che il linguaggio “laico” ha lo stesso valore di quello sacro. Umberto Eco sottolinea tale tendenziosità, ricordando che San Tommaso aveva operato nel senso opposto, riducendo il valore delle metafore poetiche nella Bibbia e concentrando l’interpretazione sui fatti della “storia sacra”, vale a dire sul rapporto tra i fatti “reali” narrati e il loro valore di segni divini; il resto viene escluso. L'affermazione di Dante, quindi, contiene un «implicito contraddittorio con San Tommaso» e, anzi, può essere vista come una rivincita dell’allegoria, che, ridimensionata nell’ambito religioso, ritrova spazio nella pratica poetica:

Bisognerà allora concludere che la passione allegorica medievale era così forte che quando Tommaso ne riduce la portata, riconoscendo che ormai, per la cultura del XIII secolo, il mondo naturale si sottrae alla lettura interpretativa e figurale, saranno proprio i poeti, non tenendo in gran cale la riduzione tomista del mondo poetico, ad assegnare alla poesia mondana quella funzione che lo sviluppo del nuovo spirito naturalistico aveva sottratto alla lettura del mondo.

Dante non è il primo: vanno almeno citate le allegorie filosofiche del XII° secolo, imperniate sul personaggio della Natura, di Bernardus Silvestris (Cosmographia) e Alano di Lille (De planctu Naturae). Ma in Dante l’uso è più complesso e meno scontato. Per questo può sembrare che, in senso stretto, l’allegoria dantesca abbia un campo limitato; Charles Singleton (ne La poesia della Divina Commedia, 1957- 8) ha potuto sostenere che Dante è allegorico solo nell’anti-inferno, poi, una volta che procede nel mondo ultaterreno, ha a che f fare con persone (le a anime dei trapassati) o con simboli, Singelton afferma che

L’intero viaggio nell’aldilà va oltre il linguaggio metaforico, non è riducibile alla specie di allegoria entro cui ha avuto origine. Quando la figura di quest’uomo vivo, questa persona in cui anima e corpo sono ancora uniti, varca la porta dell'Inferno, il poema abbandona la doppia visione, ben riconoscibile e familiare, con cui era iniziato, c perviene a una visione singola ed assolutamente singolare, cioè a dire, a un viaggio singolo: a una visione resa fisicamente sensibile, che possiede una corposità e una forza di persuasione quali non si sarebbero potute attendere dall’inizio. Lì si dipana il filo di un viaggio letterale presentato come reale, ed è proprio il corpo nell’oltremondo, la carne nei regni dello spirito che, fungendo da catalizzatore, fa precipitare ad ogni punto ciò che è concreto, ciò che è sensibile, ciò che è fatto carne. (...) Le cose vedute e toccate diventano ciò che possono vedere gli occhi dei vivi e le mani dei vivi toccare (...).

E tuttavia, poiché Singleton riconosce che Dante è allegorico almeno all’inizio, andiamocelo a leggere (o a rileggere) questo inizio; e in particolare l’arrivo inopinato, nel Canto I, delle tre fiere, per capire bene quale gioco giochino, qui, la lettera e il secondo senso. Prendiamo Inferno I, vv. 31-60:

Ed ecco, quasi al cominciar de l’erta,
una lonza leggera e presta molto,
che di pel macolato era coverta;

e non mi si partia dinanzi al volto,
anzi ’mpediva tanto il mio cammino,
ch’i’ fui per ritornar più volte vòlto.

Temp’era dal principio del mattino,
e ’l sol montava ’n su con quelle stelle
ch’eran con lui quando l’amor divino

mosse di prima quelle cose belle;
sì ch’a bene sperar m’era cagione
di quella fera a la gaetta pelle

l’ora del tempo e la dolce stagione;
ma non;sì che; paura non mi desse
la vista che m’apparve d’un leone.

Questi parea che contra me venisse
con la test’alta e con rabbiosa fame,
sì che parea che l’aere ne tremesse.

Ed una lupa, che di tutte brame
sembiava carca ne la sua magrezza,
e molte genti fé già viver grame,

questa, mi porse tanto di gravezza
con la paura ch’uscia di sua vista,
ch’io perdei la speranza de l’altezza.

E qual è quei che volontieri acquista,
e giugne ’l tempo che perder lo face,
che ’n tutti i suoi pensier piange e s’attrista;

tal mi fece la bestia sanza pace,
che, venendomi incontro, a poco a poco
mi ripigneva là dove ‘l sol tace.

Facciamo questo esperimento; proviamo a far conto che non ci siano le note e di aver dimenticato il significato delle tre fiere che abbiamo imparato a scuola. E chiediamoci: cosa ci impedisce di recepire questo brano come faremmo per un romanzo di avventure nella jungla? Perché le belve non possono essere belve e basta? Cos’ha di innaturale questa scena? In altre parole: quali sono i segnali dell’allegoria che ci fanno rilevare il particolare progetto dell’autore? Direi che ci sono soprattutto due indizi: uno, la tattica delle belve che, invece di andare a fondo e di fare di Dante un sol boccone, sembrano procedere con una funzione difensiva, di stopper, di sbarramento. Due, il loro curioso darsi il cambio, invece di allearsi per chiudere il malcapitato da tutti i lati senza lasciargli vie d’uscita. Ma, su questo brano, lascio la parola a Marcello Carlino, che lo ha analizzato in lungo e in largo nel suo libro dedicato alla visualità delle scritture:

Ora, chi ha nel suo campo visivo una cosa che è — o sembra essere per congestione; per spasimo, per distorsione percettiva — a distanza ravvicinatissima, una cosa che (così si comporta la lonza, «leggiera e presta molto») si mostra in perenne movimento, una cosa i cui colori non spiccano e non hanno una altissima definizione (come si può pensare che accada quando il manto sia maculato, e la pelle «gaetta»), è facile che di questa cosa perda presto i contorni, la fisionomia precisa, la focalizzazione netta. Non diversamente accade alla lonza dantesca, tanto che l’immagine della seconda fiera, il leone, appare improvvisa, senza soluzione di continuità, emergente su di uno sfondo la cui determinazione è incerta, quasi indistinta: «ma non si che paura non mi «desse / la vista che m’apparve d’un leone».
Il nuovo mostro occupa la scena avendovi fatto irruzione (essendovi stato evocate) con inusitata rapidità: ne danno conto non soltanto la congiunzione avversativa, che cambia atmosfera e clima portandosi repentinamente sulla luce del mattino e oscurando la speranza che da essa promana (autorizzando a vedere un incupirsi, un ingrigirsi dell’aria come in una sera prodigiosamente calata d’un subito), ma anche la subordinata consecutiva che accentua la sensazione che una sequenza sia ingranata nell’altra. E, quanto alle proposizioni consecutive, si noti che esse sono quattro in un breve volgere di tempo (ma avevano esordito con un prototipo già nella seconda terzina del canto) e rivestono, qui specialmente, una chiara funzione cardinale: «si ch’a bene sperar m’era cagione», «ma non si che paura non mi desse», «si che parea che l’aere ne tremesse», «questa mi porse tanto di gravezza /... /ch’io perdei la speranza de l’altezza».
Il verbo «parea», replicato nella stessa posizione a distanza di due versi (dopo un «la vista che m’apparve», che equivale ad una vera e propria soggettiva e che non va certo a vantaggio dell’evidenza di realtà di quanto rappresentato), induce un effetto-sfocato e lo riverbera sul leone che è appena salito alla ribalta. E allora il fatto che abbia la «test’alta» e che sia mosso da una «rabbiosa fame» (ciò che attesta un portamento fiero e maestoso e indica, al contempo, una capacità di violenza legata all’istinto e a un insopprimibile bisogno), ovvero il fatto che si segnali per una sua complessione e per una suo temperamento — marche sue proprie sulla cui perspicuità possono essere fatte poggiare edificazioni di sensi secondi riferibili alla condizione e alla storia dell’uomo —, tutto ciò si smaglia, perde saldezza, si stempera: e la scena la si vede come campita di immagini sgranate.
Certo, «parea che l’aere ne tremesse» carica l’intero paesaggio circostante, saturandolo, del sentimento di paura che attanaglia il pellegrino (altre trascrizioni, filologicamente meno persuasive, riportano «temesse» in luogo di «tremesse») e soprattutto opera, in forza della traslazione da’ cui è prodotto, come amplificatore; come potenziatore iperbolico del dramma che sta consumandosi; nondimeno, attestandosi su di un registro sinestetico regolato tra udito e vista (la «rabbiosa fame» non può non aver alluso, sopra, all’immagine del ruggito), e poggiandovi una modalità di percezione alterata del soggetto (che l’«aere ne tremesse» si deve pure, potremmo dire, alla “tremarella” indottasi nel viator che perciò vede come chi è tutto tremante e non può, durevolmente mettere a fuoco), la frase comporta un immediato stararsi del leone, un suo farsi evanescente, un suo “dissolversi”, su cui in un amen, con la velocità della folgore, senza frapporre indugio (senza, ancora una volta; soluzione di continuità alcuna) accorre e si porta, come un corpo che occupa immantinente uno spazio lasciato vuoto, la figura della lupa.

E più avanti:

Come Dante, in forza di questo suo disegno, di allegoresi articolata e complessa, si metta nella condizione di disporre con libertà dei repertori al tempo suo diffusi (e dunque li adoperi per prelievi funzionali, per innesti e per logiche combinatorie che rifuggono da qualunque fedeltà o adesione esclusiva, sicché interpretare e assegnare i compiti delle tre fiere è sempre a rischio di confutazione e di revoca); e come, pertanto, possa incrociare un personaggio di cui contano sulla scena particolarmente l’aspetto e il movimento (così la lonza), con due personaggi per gli atti dei quali più che bestiari molto o poco moralizzati sembrano aver rilevanza e potere di determinazione l’immaginario collettivo e il sentire comune (così il leone e la lupa): ciò è l’espressione della convenzione che Dante realizza con forza straordinaria, è il lavoro che egli imbastisce a partire da quel piccolo fatto vero che è il suo disattendere il già dato, o il suo usare della tradizione — nel discorso dell’allegoria in specifica relazione contestuale ai singoli luoghi e ai singoli canti della Commedia, ovvero — di fatto— per un fine di innovazione.
L'essere uno e trino che connota le fiere del primo dell’Inferno fa sì che il significato, quale è solitamente rinvenuto e definito, abbia bisogno di una netta precisazione: seduttivo o imperioso, subdolo o aggressivo, mobile e cangiante o fermo come un idolo o un moloc terrifico, è il male di scena nel quadro delle allegorie d’ingresso nell’opera. Un male le cui diverse specie (molto, probabilmente la lussuria, la superbia e l’avarizia) sono le varie apparenze (il verbo «parea» è frequentissimo, come si è osservato; e aspetto e mosse di lonza, leone e lupa potrebbero essere per non piccola quota addebitati alla vista, alla percezione, alle inquadrature in soggettiva di Dante personaggio) di una sola sostanza. Un male progrediente, che non lascia scampo quando vi si incappi. Un male che pretende rimedi radicali.

Ed è utile anche questo passo di conclusione:

Nella scrittura degli atti delle tre fiere e dei loro modi, insomma, vale — e incide sul disporsi dell’allegoria e sul determinarsi dei significati una logica di trascorrenza («la palla dell’enunciazione eleatica s’è derogata in una trascorrenza»: considerava in termini generalissimi Gadda, avendo a pretesto la sua propria filosofia del linguaggio). Le fiere sono distinte e confuse; hanno tre nomi ed uno solo; sono e divengono. Sono lonza e divengono leone per divenire lupa, condividendo i tratti (condividono già le lettere iniziali) e giungendo a comporre il profilo unitario della «bestia» (e così rinviando, pur da distante, a Lucifero e quasi evocandolo attraverso un sostituto, un figurante). La tecnica adoperata, al servizio di questa logica di trascorrenza, comprende per un verso l’infoltimento di segnali dai quali si evincano la singolarità, la soggettività della percezione e quindi la provvisorietà, l’aleatorietà dell’immagine, che non a caso tende a sfocarsi, a perdere i contorni, a smagliarsi, a disintegrarsi; per un altro verso impone decise accelerazioni del ritmo delle sequenze (e del dispiegarsi dei significati concetti) in ispecie nel momento dell’avvicendarsi sulla scena delle tre fiere. Di guisa che effetti di dissolvenza siano efficacissimi meccanismi di innesco di effetti di sovrapposizione e di guisa che l’ingranaggio di dissolvenza e sovrapposizione, muovendo in perfetto accordo le sue ruote, produca il cambio di immagine, la quale non escluderà, ma conterrà tracce visibili delle preesistenze. Proprio come, molti secoli dopo, si sarebbe potuto vedere in alcuni film, segnatamente di area e di tendenza espressioniste, per restare in ideale sintonia di stile con il primo dell’Inferno. L’arretramento, sul piano della rappresentazione, del tempo, fermato e sospeso sul presente (per un po’ non c’è sviluppo dell’azione, infatti); e il conseguente aggetto dello spazio, che si riempie di corpi descritti in movimento e si raccorcia e si condensa in funzione del terrore crescente di Dante personaggio (a restringerlo e a contrarlo collaborano le frequenti reiterazioni incoative dei gesti e un reticolo di situazioni-parole insistentemente ripetute), provocano una congestione che è un altro capitale incentivo (alla stessa stregua dell’inquietudine irrigidita, caratteristica di un clima, di un’atmosfera, di una condizione allegorici), che è un impulso necessario a che dissolvenza e sovrapposizione eseguano partiture metamorfiche.
La metamorfosi è il proprio della scrittura dantesca nel canto d’esordio della Commedia; la, metamorfosi è la chiave dell’allegoria delle tre fiere. Una chiave nella quale si scopre la forte incidenza del linguaggio delle immagini, dei segni visivi.

Come si vede, una simile lettura riscatta pienamente l’allegoria dantesca e le conferisce una sorprendente modernità, già all’altezza del “primo tempo”.
Dante, tuttavia, resterà un osso duro per i critici, durante tutto il periodo di ostracismo nei confronti l’allegoria (abbiamo già visto De Sanctis, vedremo Croce più avanti). Un grande critico come Eric Auerbach nei suoi saggi danteschi (in particolare in quelli degli anni Quaranta), se la caverà scartando salomonicamente i due termini contrapposti, di simbolo da solo e allegoria, in favore di un terzo: la “figura”. Secondo l’autore, l’allegorico da solo sarebbe rimasto troppo intellettualistico e privo di “vigore”’; il simbolo da solo si sarebbe risolto nella sua valenza magica, sostanzialmente extrastorica; invece l’“interpretazione figurale” evita l’uno e l’altro corno, prendendosi carico del sovrasenso con la sua energia profetica e al contempo la sua “viva storicità”:

La profezia figurale — scrive Auerbach — contiene l’interpretazione di un processo terreno per mezzo di un altro; il primo significa il secondo, e questo adempie il primo. Entrambi restano accadimenti interni alla storia; ma in questa concezione contengono entrambi qualche cosa di provvisorio e di, incompiuto; essi rimandano l’uno all’altro, e tutti e due rimandano a un futuro che è ancora da venire e che sarà il processo vero e proprio, l’accadimento pieno e reale e definitivo.

In tal modo, l’astratto e il concreto si fondono: per esempio Virgilio è sì la ragione, però la sua valenza allegorica è ben incorporata nella sua concretezza storica e tutti e due sono garantite dalla sintesi della verità eterna.
Insomma, la critica rispetto a un autore dal valore indiscutibile come Dante cerca di tenere sotto controllo la tendenza alla contraddittorietà dell’allegoria; e tuttavia si trova costretta riconoscere qualche tipo di duplicità. Lo stesso Auerbach, nel suo grande studio sul realismo occidentale, vede la Commedia come un riconoscimento dell’umano tale da far infine deflagrare l'impianto del mondo divino. Leggiamo in Mimesis:

E in questa immediata e ammirata partecipazione alla vita dell’uomo, l’indistruttibilità dell’uomo storico e individuale, stabilita dentro l’ordine divino, si dirige contro quello stesso ordine divino, lo fa suo servo e l’eclissa. L'immagine dell’uomo si pone davanti all'immagine di Dio. L'opera di Dante ha realizzato l'essenza figurale- cristiana dell’uomo e nel realizzarla F ha distrutta. La potente cornice s’infranse per la strapotenza delle immagini che essa incluse. (...) In questa realizzazione la figura diventa indipendente, sicché nell’Inferno ci sono ancora grandi anime, e nel Purgatorio alcune anime per la dolcezza d’una poesia, d’un’opera umana, dimenticano per alcuni istanti la via della purificazione. E in conseguenza delle speciali condizioni del compimento di sé nell’aldilà, la persona umana si afferma ancor più potente, più concreta e singolare che nell’antica poesia; poiché del compimento di sé, che comprende tutta la vita trascorsa sia obiettivamente che nel ricordo, fa parte uno svolgimento storico individuale, di volta in volta una particolare storia, il cui risultato a dir vero appare a noi già «finito», ma i cui stadi in molti casi vengono rappresentati diffusamente; mai esso ci rimane del tutto celato, e noi riusciamo a cogliere, molto più esattamente di quanto la poesia antica avesse saputo fare, il divenire immanente nell’essere senza tempo.

Dal canto suo, Bachtin, nl suo saggio sul Cronotopo nel romanzo, legge nel nostro classico maggiore una dialettica tra «mondo verticale» e «mondo orizzontale», che implicherebbe l’allegoria (di per sé, in quanto immagine ferma e attribuzione di senso, collegabile al verticalismo) e le infonderebbe una ulteriore dinamicità:

La logica temporale di questo mondo verticale è la pura simultaneità di tutto (ovvero la «coesistenza di tutto nell’eternità»). Tutto ciò che in terra è diviso dal tempo, nell’eternità s’incontra nella pura simultaneità della coesistenza. Le divisioni, i «prima» e i «poi» introdotti dal tempo sono inessenziali e devono essere eliminati: per capire il mondo. bisogna comparare tutto in un sol tempo, cioè nell’angolo visuale di un solo momento, bisogna vedere tutto il mondo come simultaneo. Soltanto nella pura simultaneità o, il che è lo stesso, nella extratemporalità può rivelarsi il vero significato di ciò che è stato, che è che sarà, e poiché ciò che li divideva, il tempo, è privo di autentica realtà e di forza semantica. Rendere simultaneo ciò che appartiene a tempi diversi, e sostituire tutte le divisioni e i legami storico-temporali con divisioni e legami puramente semantici gerarchico-extratemporali, questo è il proposito formativo di Dante, che ha determinato la costruzione di un’immagine del mondo secondo, una pura verticale.
Ma nello stesso tempo le immagini umane che riempiono (popolano) questo, mondo verticale, sono profondamente storiche e su ognuna di esse sono impressi i connotati, del tempo, le tracce dell’epoca. Anzi, nella gerarchia verticale è integrata la concezione sia storica che politica di Dante, la sua nozione delle forze progressive e reazionarie dello sviluppo storico (nozione molto profonda). Quindi le immagini e le idee, che riempiono il mondo verticale, sono piene di un possente impulso a svincolarsi da esso e ad entrare nella produttiva orizzontale storica, a disporsi cioè in direzione non dell’alto, ma dell’avanti. Ogni immagine è piena di potenzialità storica e perciò con tutto il suo essere aspira a partecipare all’evento storico nel cronotopo storico-temporale. Ma volontà la potente dell’artista la condanna a un luogo immobile ed eterno nella verticale extratemporale. (…)
Di qui la straordinaria tensione di tutto il mondo dantesco. A crearla è la lotta tra il vivente tempo storico e l’idealità ultraterrena extratemporale. La verticale sembra esprimere in sé l’‘orizzontale che potentemente si slancia in avanti. Tra il principio formativo del tutto e la forma storico-temporale delle singole immagini c’'è una contraddizione, un contrasto. Vince la forma del tutto. Ma questa lotta, e la profonda tensione della sua soluzione artistica, rende l’opera di Dante l’espressione, di eccezionale vigore, della sua epoca, ‘o. meglio, del confine di due epoche.

Tensione, lotta, contrasto interno: tutti tratti che possiamo segnare come compatibili con l’allegoria.

Date: 2021-12-24