In margine alla questione delle “figura” [Antonio Illiano]

Dati bibliografici

Autore: Antonio Illiano

Tratto da: The flight of Ulysses : studies in memory of Emmanuel Hatzantonis

Editore: The University of North Carolina Press, Chapel Hill

Anno: 1997

Pagine: 41-52

Nel trattare di presenze fondamentali come quelle del Virgilio e del “Catone” danteschi sembra opportuno esortare all'impiego accorto e circostanziato della terminologia simbolico-figurale. Ché, nell'universo epico della Commedia, l'arte della rappresentazione trae i suoi simboli non dall’umanità individuale delle persone ma dal mondo della natura e dallo scibile storico-culturale e scientifico.
Questi simboli possono adempiere una funzione circostanziale o possono inserirsi in un contesto più ampiamente simbologico. Così il giunco schietto e la rugiada sono simboli che contribuiscono alla costruzione di una simbologia, quella dei riti della cintura è dell’abluzione, che ha inizio nella prescrizione unitaria enunciata dal veglio (Purg: I 94-105) e si conclude sul lido deserto che circonda la montagna del Purgatorio. Virgilio, al quale tocca l'obbligo pseudoliturgico di amministrare i riti utilizzando i simboli, vive chiaramente in una dimensione che trascende la significazione simbolica: non può essere mero simbolo chi è chiamato a celebrare un rito che si compone di simboli e costituisce, in sostanza, una vera è propria simbologia; e non può ridursi a simbolo chi, pur nel celebrare questo rito, è tristemente consapevole non solo di essere tra i destinati a “disiar sanza frutto” e il cui disio “eternalmente è dato lor per lutto” (III: 40-42) ma anche di avere la saggezza che non sarà mai fede e la conoscenza che non avrà mai la grazia.
Analogamente si noterà che, mentre i tratti salienti dell'aspetto del veglio (il volto, i capelli e la barba, la solitudine) sono simboli del suo carattere e mentre le quattro stelle simboleggiano le virtù che ne sublimano l'anima, il veglio stesso è una presenza che vive oltre le sfere, non sempre nettamente distinte dalla critica, della rappresentatività simbolica e allegorica. Perciò non è sempre agevole definire il senso unitario di questa viva personificazione poetica quando, eludendo il carattere distintivo della sua indole e della sua forte individualità, si cerchi di saldare la dicotomia tra il personaggio storico e quello poetico postulando una trasformazione simbolica del primo:

Il Catone storico e il Catone allegorico non sì possono dividere, perché in sostanza sono una cosa stessa. Se Dante avesse voluto che il veglio onesto fosse solamente… figura dell'anima fatta libera per l'evangelica annichilazione del corpo; se egli avesse voluto prescindere affatto dalla storia, non avrebbe ricordata Utica né Marzia. No. Il Catone del Poema è il Catone della storia è della tradizione letteraria: che diventa simbolo appunto in virtù di ciò che la tradizione e la storia dicono di lui.

In realtà il veglio solo non è più il Catone storico ma un personaggio al quale la fantasia dantesca conferisce un carattere epico-poetico lucidamente consapevole della propria dignità di precettore e pedagogo in un mondo governato da normative che non sono più quelle della storia umana: non a caso egli tace sul ricordo di Utica (anche perché in lui è l'incarnazione integrale è insuperata non solo della libertà ma di tutte le virtù cardinali), mentre alla menzione di Marzia replica con un ripudio che nel sottolineare l'incolmabile distanza-distacco che lo separa dallo spirito della consorte umana, mette in risalto la giustizia è magnanimità del suo nuovo essere.
Ma la questione è complessa anche perché, nata dalla perentoria unificazione del Catone storico con quello “allegorico,” s'intreccia con gli annosi e spinosi problemi dell’allegoresi. E a complicarla ulteriormente interviene l'enunciazione pseudoargomentativa dell'ipotesi “figurale”:

Cato von Utica also ist es, den Gott hier zum Wachter am Fusse des purgatorio bestellt hat: einen Heiden, einen Feind Caesars, einen Selbstmorder. Das ist sehr erstaunlich... Das Ratsel lost sich durch die Worte Vergils, der von Dante sagt, er suche Freiheit, die so teuer ist, wie du es wohl weisst, der fur sie das Lebel verschmaht hast. Die Geschichte Catos ist aus ihrem irdischpolitischen Zusammenhang herausgenommen, genau wie es die patristischen Erklarer des Alten Testaments mit den einzelnen Geschichten Isaacs und Jacobs u. a. taten, und sie ist zur figura futurorum geworden. Cato ist eine figura, oder vielmehr der irdische Cato, der in Utica fur die Freiheit dem Leben entsagte, war es, und der hier erscheinende Cato im Purgatorio ist die enthullte oder erfullte Figura, die Wahrheit jenes figurlichen Vorgangs. Denn die politische und irdische Freiheit, fur die er starb, ist nur umbra futurorum gewesen: eine Praefiguration jener christlichen Freiheit, als deren Huter er hier bestellt ist, und um deren willen er auch hier jeder irdischen Versuchung widersteht… Die Gestalt Catos, als eines strengen, gerechten und frommen Mannes, der in einem bedeutenden Augenblick seines Geschicks und der providentiellen Weltgeschichte die Freiheit hoher geachtet hat als das Leben, wird in ihrer vollen geschichtlichen und personlichen Kraft erhalten; es wird daraus keine Allegorie der Freiheit, sonder es bleibt Cato von Utica so wie Dante ihn als personlich-einmaligen Menschen sah; aber er wird aus der irdischen Vorlaufigkeit, in der er die politische Freiheit als hochstes Gut ansah… herausgehoben in den Zustand endgultiger Erfullung, wo es nicht mehr sich um irdische Werke der Burgertugend oder des Gesetzes handelt, sondern um das ben dell'intelletto, das hochste Gut, die Freiheit der unsterblichen Seele im Anblick Gottes.

Supposizioni che non possono non suscitare qualche perplessità anche per la particolare inflessione del dettato. Innanzitutto è difficile intendere come, 0 sulla base di quale documentazione, si possa affermare che Dio ha designato Catone alla funzione di custode. Non sarebbe più giusto, o più aderente alla congruità della configurazione reale del testo e del discorso, postulare che, nella visione dantesca, l'Uticense diventa un “veglio solo" ed assume un compito educativo e direttivo ai piedi della montagna del Purgatorio?
E che cosa si può desumere dal paragone con la prassi degli esegeti del Vecchio Testamento? Che Dante era un esegeta del contesto “politico-terreno” capace non solo d’individuare un’“ombra” del futuro ma anche di fissarne il suo “definitivo adempimento”?
E come si spiega la proposizione che statuisce l'essenza figurale di Catone per esaurirsi nella disgiuntiva problematicità di “oder vielmehr der irdische Cato”? Si deve supporre che ci sono due “figure,” e che quella del Catone “terreno” è più (o più decisamente) figura di quella del Catone dantesco? Se questo è il senso giusto, come si concilia con le susseguenti asserzioni, secondo cui nella Commedia la persona di Catone prima “è conservata in tutta la sua forza storica e personale: non diventa un'allegoria della libertà, ma resta Catone di Utica, l'uomo che Dante vedeva nella sua individuale personalità” e poi è “sollevata” (herausgehoben) dalla sua provvisorietà terrena alla condizione di un definitivo adempimento? Ma a chi si deve questo “sollevamento” celebrativo se non a Dante? E dove si possono ricercare le modalità della sua realizzazione se non nel poema dantesco in quanto opera della fantasia creatrice?
Non a caso l'impegno e il genio del creatore furono riconosciuti dagli antichi commentatori e più distintamente dall’acume critico di Niccolò Niccoli che, nel secondo dialogo ad Petrum Paulum Histrum del Bruni, seppe privilegiare la forza della fantasia poetica e, dalla caratterizzazione della barba (cana ma ancor demissa), desumere una significativa lettura della raffigurazione dantesca dell'anima catoniana:

An quisquam est, qui dicere audeat fingendi artem illi defusse, qui tam praeclaram fictionem, tam inauditam trium regnorum adinvenerit? qui ista per diversos tramites omnia distinxit, ut multiplicia huius saeculi peccata suis quaeque locis, prout magnitudo cuiusque esi, puniantur?... M. Cato octavo et quadragesimo petatis anno iuvenis et aetate integra defunctus est; Dantem vero illum barba cana et demissa fingit. Vanum est hoc crimen: non enim corpora ad inferos pergunt, sed defunctorum animi. Curergocrines affinxit? Quia mens ipsa Catonis, rigidi servatoris honesti et lanta vitae sanciimonia praediti, etiam in iuvenili corpore canissima erat.

Lezione antica e non del tutto ineccepibile, ma ancora in grado d’insegnare qualcosa mentre l'ipotesi figurale, che i commentatori citano senza riflettere e l'Enciclopedia Dantesca pone tra le più rilevanti “intuizioni” della critica dantesca contemporanea, tende ad invalidare l’arte della trasformazione caratteriale, che Dante opera nel “veglio solo” partendo dai dati della storia e dai documenti della tradizione letteraria, e a distrarre dalla lettura intera ed integrale dell'episodio e dei modi con cui il poeta ne elabora la costruzione simbolico allegorica.
La base di questa costruzione è nel pensiero tomistico che razionalizza il concetto di “figura,” vincolandolo ai valori dei sensi mistici con cui gli eventi del passato sono collegati al presente dalla missione e funzione che la vita di Cristo, nel quale omnes figurae veteris testamenti impletae sunt, ebbe nella storia umana:

Hic autem sensus spiritualis trifariam dividitur. Sicut enim dicit Apostolus, ad Heb. 7 [19], lex vetus figura est novae legis: et ipsa nova lex, ut dicit Dionysius in Ecclesiastica Hierarchia, est figura futurae gloriae: in nova etiam lege, ea quae in capite sunt gesta, sunt signa eorum quae nos agere debemus. Secundum ergo quod ea quae sunt veteris legis, significant ea quae sunt novae legis, est sensus allegoricus: secundum vero quod ea quae in Christo sunt facta, vel in his quae Christum significanti, sunt signa conum quae nos agere debemus, est sensus moralis: prout vero significant ca quae sunt in aeterna gloria, est sensus anagogicus, (Summa Theol. I i 10)

Anche nel pensiero critico dantesco, che prende il senso allegorico “secondo che per li poeti è usato” (Conv. I: 4), il figurale è completamente assimilato alla metodologia dei sensi mistici. E ciò conferma anche il fatto che la terminologia di ‘figura,’ ‘figurato’ e ‘figurare,’ eludendo la sfera del figurale mistico, registra un'ampia gamma di accezioni che include, tra l’altro, quelle del ‘descrivere’ (Conv. IV, XXVI: 8), ‘rappresentare per descrivere’ (Par. XXIII: 61), ‘simboleggiare’ e ‘rappresentare per significare’ (Conv. IV, VI: 3, IX, IX: 10; Par. XXV: 32). E analogo sarà l’impiego che di tale terminologia faranno gli antichi commentatori.
Quanto all'“ombra del sacro regno” (Par. I: 22-23), converrà forse partire dalla premessa che il significato primario di tale immagine è quello desumibile dal contesto dell’invocazione ad Apollo e, riesaminando le numerosissime incidenze di “ombra” nel poema, puntare sulla rara e pregevole congiuntura enunciata da Stazio: “Secondo che ci affliggono i disiri / e li altri affetti, l'ombra si figura” (Purg. XXV: 106-07).
Alla luce di queste considerazioni si può denunciare anche l'ambiguità o l'ambivalenza della dichiarazione figurale che sentenzia su quello che il Virgilio della Commedia dovrebbe o non dovrebbe essere:

Vergil ist also nicht die Allegorie einer Eigenschaft oder Tugend oder Fahigkeit oder Kraft, oder auch einer geschichtlichen Institution. Er ist weder die Vernunft noch die Dichtung noch das Kaisertum. Er ist Vergil selbst. Aber er ist es freilich nicht in der Weise, wie spatere Dichter eine menschliche Gestalt in ihrer innergeschichtlichen Verstrickung wiederzugeben versucht haben... Fur Dante ist der Sinn eines jeden Lebens gedeutet, es hat seinen Ort in der providentiellen Weltgeschichte, die im in der Vision der Komodie gedeutet wird, nachdem sie in ihren allgemeinen Zugen schon in der jedem Christen zuteilgewordenen Offenbarung enthalten ist. So ist Vergil in der Komodie zwar der geschichtliche Vergil selbst, aber er istes auch wider micht mehr; denn der geschichtliche ist nur figura der erfiliten Wahrheit, die das Gedicht offenbart, und diese Erfullung ist mehr, ist wirklicher, ist bedeutender als die figura. Ganz anders als bei den modernen Dichtern ist bei Dante die Gestalt um so wirklicher, je vollstandiger sie gedeutet, je genauer sie in den ewigen Heilsplan eingeordnet ist. Und ganz anders als bei den antiken Dichtern der Unterwelt, die das irdische Leben als wirkliches, das unterir dische als schattenhaftes gaben, ist bei ihm das Jenseits die echte Wirklichkeit, das Dietsseits nur umbra futurorum — freilich aber ist die umbra die Praefiguration der jenseitigen Wirklichkeit, und muss in ihr sich vollstindig wiederfinden.

Si argomenterà tuttavia che il Virgilio della Commedia parla di Mantova e si identifica come l’autore dell'Eneide. Eppure questo stesso Virgilio, oltre ad essere confinato nel Limbo di un inferno cristiano e ad essere tristemente consapevole di tale condanna, è anche l’incarnazione (e non il simbolo) della saggezza in un itinerario ultramondano imprevedibilmente concepito e descritto più di tredici secoli dopo la sua morte, ed è anche il personaggio che vive il suo inedito obbligo di guida-maestro e si mortifica nel “rimorso,” per poi riabilitarsi e rivolgersi al suo imprevedibile discepolo medievale con l'appellativo di “dolce figlio.” E si potrebbero aggiungere tante altre cose ad approfondire la caratterizzazione dantesca di un “saggio padre," la cui sapienza e conoscenza abbracciano non solo la dottrina cristiana ma anche la cultura del Medioevo. Ma per ricostruire il carattere e recuperare i valori della presenza virgiliana gioverà prima risalire alla tradizione storico-critica e documentaria, iniziata dagli studi del Comparetti,

Il Virgilio della Divina Comedia rivela anch'esso come ogni prodotto dantesco fino a qual punto Dante aderisse al medio evo, ed insieme fino a qual punto si separasse da questa età, superandola grandemente. Il concetto medievale di Virgilio lo ritroviamo qui, ma la mente geniale e creatrice del poeta gli ha impresso il suo stampo originale, e di mezzo a quei rozzi elementi che più di una volta ci han fatto sorridere, ha saputo trarre un tipo nobilissimo, che è creazione sua… Virgilio parla sempre come anima di morto, che da lunghi secoli vive nel luogo assegnatole secondo i suoi meriti; colla morte il velo le cadde dagli occhi, e la vita di oltre tomba le rivelò quei veri che prima non avea conosciuti e le fece intendere il suo errore, benché involontario, e le giuste conseguenze di questo… Ben più espansivo, diverso affatto per iscopo, significato e carattere, il Virgilio di Dante sa che erano “falsi e bugiardi” gli dei che si adoravano al suo tempo, sa che cosa è il Dio dei cristiani ch'ei prima non conobbe… Queste ed altre simili cose sa Virgilio per la stessa ragione per cui conosce molli fatti posteriori alla sua vita terrena, anche dei contemporanei di Dante, di recente venuti in inferno; ed anche dei fatti anteriori sa quanto prima non avrebbe potuto sapere, conosce Nembrotto e cita il Genesi insieme ad Aristotele. Tutto quanto egli ora sa lo fa riflettere tristamente sulla sua condizione e su quella di Platone e di Aristotele e di tanti altri grandi antichi, che perderono la beatitudine eterna perché non seppero quanto col solo lume della ragione era impossibile sapere,

e approfondita dall'opera del Barbi:

Dante al pari de' suoi contemporanei conosce Virgilio come “il savio gentil che tutto seppe": ma, egli, in lui ha veduto e sentito soprattutto l'uomo; l'uomo che ha pietà degl’infelici, che compatisce alla fragilità ch'è pur nei buoni, che sdegna apertamente ogni bassezza morale o voglia volgare, che ammira tutto ciò che esalta l'umana natura; ne ha fatto, insomma, un personaggio vivo, a cui la condizione stessa in cui si trova nel mondo ultraterreno diffonde intorno un'aura di simpatia. Se lo studioso, lo scrittore, l'Italiano lo esalta come divinus poeta noster e gloria d’Italia e cantore dell'Impero, è lo fa agire come personaggio storico al quale tutta l'umanità s'interessa e che nel mondo degli spiriti salvi conserva grati ammiratori, non è per tutto questo che Dante, quando lo cerca vicino a sé e non lo vede più, riga di lacrime le guance e, più che figlio, lì per lì neanche la presenza di Beatrice e l'improvviso divampare dell'antica fiamma temperano il doloroso colpo dell'abbandono. Considerati in questa luce, la sola in cui si debbono collocare per penetrarne a fondo la poesia, Virgilio e Beatrice rientrano nel novero di quei personaggi che Dante richiama dalla storia del passato e dalla vita del suo tempo, a popolare il mondo della sua fantasia, più vivo, per lui e anche per noi, e più vero che il mondo stesso della contingente realtà.

Così Virgilio, “richiamato” dalla storia del passato, entra nella sfera dell'arte. E all’idealità della concezione artistica sembra richiamarsi anche il Curtius, quando descrive l’incontro tra Dante e Virgilio come un arco infiammato che congiunge due grandi anime: come l’incontro tra i due massimi “latini” e come l'evento più alto e fecondo con cui il Medioevo latino salda i vincoli tra mondo antico e mondo moderno. Tuttavia, alla comprensione dell'opera dantesca si pone come condizione imprescindibile, non solo la capacità di apprezzare Virgilio in tutta la sua grandezza di poeta ma anche la sensibilità alla particolare arte poetica e rappresentativa, che “recrée Virgile comme exégète de la condition humaine et de la justice divine, poète du sacré et de l’invisible."
Si può quindi postulare che anche il “sollevamento” è stato operato non da un ente trascendente ma dal genio poetico: trasformando Catone in veglio solo, Dante ha creato una grandiosa presenza spirituale con la forza mitopoietica, riconosciuta all'arte, intesa come fictio, da Aristotele (Poetica, XXV) e da tutta la riflessione critico-estetica sull’autonomia e sulla non convenzionalità della letteratura.
Questa culmina nelle fondamentali intuizioni di T.S. Eliot che, dopo aver messo in rilievo la grande cura che Dante ebbe per l'arte della poesia, dichiara, tra l'altro:

That is one lesson: that the great master of language should be the great servant of it. The second lesson of Dante — and it is one which no poet, in any language known to me, can teach — is the lesson of widrh of emotional range. Perhaps it could be best expressed under the figure of the spectrum, or of the gamut. Employing this figure, I may say that the great poet should not only perceive and distinguish more clearly than other men, the colours or sounds within the range of ordinary vision or hearing; he should perceive vibrations beyond the range of ordinary men, and be able to make men see and hear more at cach end thanthey could ever see without his hel We have for instance in English literature great religious poets, but they are, by comparison with Dante, specialists. That is all they cando. And Dante, because he could do everything else, is for that reason the greatest religious poet, though to call him a ‘religious poet’ would be to abate his universality. The Divine Comedy expresses everything in the way of emotion, between depravity's despair and the beatific vision, that man is capable of experiencing. It is therefore a constant reminder to the poet, of the obligation to explore, to find words for the inarticulate, to capture those feelings which people can hardly even feel, because they have no words for them; and at the same time, a reminder that the explorer beyond the frontiers of ordinary consciousness will only be able to return and report to his fellowcitizens, if he has all the time a firm grasp upon the realities with which they are already acquainted.

Parole del grande poeta che riconosce in Dante uno dei suoi maestri; parole ed intuizioni la cui dimessa eppur pregevole nitidezza si staglia sugli opachi sfondi della trattatistica accademica.

Date: 2021-12-24