Il “secolare commento” alla Commedia: allegoria e esemplarità nell’esegesi del Trecento [Luca Fiorentini]

Dati bibliografici

Autore: Luca Fiorentini

Tratto da: Dante tra il Settecentocinquantenario della nascita (2015) e il Settecentenario della morte (2021). Atti delle Celebrazioni in Senato, del Forum e del Convegno internazionale di Roma: maggio-ottobre 2015

Editore: Salerno Editrice, Roma

Anno: 2016

Pagine: 617-639

Furono sufficienti pochi decenni, com'è noto, perché gli antichi interpreti del poema maturassero la consapevolezza di «appartenere a una tradizione». Altrettanto precoce, e indubbiamente singolare, fu anche l'elaborazione di quello che potremmo leggere come un mito di fondazione dell'esegesi dantesca: un mito che non è per noi privo di interesse, poiché sembra restituirci in forme insolite e sorprendenti alcune delle linee ideologiche che per prime orientarono la ricezione critica della Commedia di Dante. A circa vent'anni dalla morte del poeta, Boccaccio trascrisse nel suo Zibaldone Laurenziano la misteriosa Epistola di frate Ilaro (ms. Laur. Pl. 29 8, c. 67r). Testo celebre, che si chiude su una sequenza degna di attenzione. Dopo aver rivelato notizie clamorose sul progetto originario della Commedia (parr. 9 e 10), l'enigmatico Ilaro narra che Dante, con improvviso trasporto - «multum affectuose», 'molto amichevolmente' (par.12) -, gli domandò di trasmettere a Uguccione della Faggiuola il testo che con un analogo moto di confidenza gli aveva precedentemente mostrato: ossia, apprendiamo leggendo il seguito dell'epistola, l'Inferno (par. 14); e che lo stesso Dante lo invitò poi a corredare l'opera di alcune brevi chiose: «multum affectuose subiu[n]xit, ut, si talibus vacare liceret, opus illud cum quibusdam glosulis prosequerer et meis deinde glosulis sotiatum vobis trasrnicterem». Il monaco conferma di aver assecondato la richiesta (par. 13): «Quod quidem [feci]>>. L'invio a Uguccione di un testo affiancato da un commento era stato annunciato, d'altra parte, già al par. 4 dell'epistola: «Vere igitur iste homo, cuius opus cum suis expositionibus a me factis destinare intendo, inter alias Ytalos hec [...] de prolatione interni thesauri a pueritia reservasse videtur».
La scena, obiettivamente, è curiosa: certo marginale rispetto alle rivelazioni che hanno reso famoso questo documento, ma non del tutto trascurabile. Non l'ha infatti trascurata Luca Carlo Rossi, che in un bel saggio pubblicato nel 2006 ha provato a mettere in luce gli eventuali punti di accordo tra i commenti danteschi redatti entro gli anni '40 del Trecento e il «reperto» ilariano, allo scopo di vagliare, in linea puramente teorica, l'«attendibilità» di quest'ultimo. A voler sospendere l'incredulità, l'Epistola di Ilaro si presenta del resto come una «lettera di dedica di un esemplare commentato dell'Inferno»; e, per quanto vaghe, alcune analogie con le più antiche testimonianze del «secolare commento» in effetti ci sono: la limitazione delle chiose alla sola prima cantica, «tratto normale nella primissima esegesi»; «la doppia intitolazione di expositiones e glosule», ricorrente anche in Guido da Pisa; l'appartenenza del commentatore a un ordine religioso, a sua volta attestata, notoriamente, in un numero non irrilevante di casi; infine la formula d'esordio tratta dall'Ecclesiastico, comune all'Epistola di Ilare (par. 2) e alla prima redazione del commento di Pietro Alighieri. Come che sia, la nostra attenzione non può che lasciarsi attrarre dalla più significativa fra le notizie che prendono forma nei brani citati dell'epistola: il ricordo di esperienze esegetiche cosi precoci da aver addirittura anticipato la diffusione della Commedia nella sua forma integrale.
Naturalmente, non v'è ragione di escludere che il racconto contenuto nella lettera di Ilaro, pur se in sé fantasioso, possa trattenere e rielaborare informazioni pervenute «da altre parti», e potenzialmente vere. Quanto agli elementi di nostro interesse, di un'attività interpretativa sorta «ai margini dei primi esemplari dell'opera ante 1321» potrebbe serbare testimonianza, secondo un'ipotesi formulata da Rudy Abardo, il corpus di chiose latine tradizionalmente attribuito al misterioso Anonimo Lombardo. E se è vero che la congettura di Abardo resta tale, è oggi certo, grazie agli studi di Diego Parisi, che all'Anonimo si deve il più antico commento al Purgatorio a noi pervenuto: fonte sicura di Iacomo della Lana, l'Anonimo Lombardo chiosò le prime due cantiche del poema entro il 1323-'28, senza dare mai prova, a quanto risulta, di conoscere il Paradiso (e senza mai alludere a Dante «come morto»).
L'eventuale nesso fra il racconto ilariano e la notizia di commenti danteschi eccezionalmente antichi appartiene, beninteso, al campo delle ipotesi non verificabili né falsificabili, e dunque criticamente irrilevanti. Meno inutile sarà invece chiedersi perché l'autore dell'Epistola di Ilaro abbia voluto insistere su un particolare - l'invio di un'opera corredata da un commento - che si distingue per la sua manifesta inverosimiglianza: possibile che Dante avesse dato incarico «a un monaco incontrato per caso sulla via» non solo di trasmettere l'Inferno a Uguccione, ma anche di farsene interprete? È probabile che il documento ilariano, più che «un "falso" malintenzionato», sia «un esercizio scolastico di buon livello, sul tema: "Dante replica alle obiezioni umanistiche sulla lingua del poema"»; e tuttavia il quesito resta aperto: a quale disegno risponde l'inclusione di questo strano dettaglio nella flctio narrativa attorno cui si articola la lettera?
Che non esistano miti di fondazione innocenti, è constatazione ovvia (ma che non nuoce ripetere); né può sfuggire in quale direzione si orientino i presupposti ideologici del singolare documento tramandato da Boccaccio (par. 9): «[...] difficile, ymo inoppinabile vide[ba]tur intentionem tam arduam vulgariter exprimi potuisse, tum quia inconveniens videbatur coniuctio tante sententie arniculo papulari». È tenendo conto di questa prospettiva che occorrerà leggere il par.13 dell'epistola, là dove l'elemento topico dell'excusatio ptopter infirmitatem lascia momentaneamente affiorare un'indicazione interessante sulla qualità - per così dire - dell'esegesi svolta dal monaco cli S. Croce del Corvo. Primo interprete del poema, per di più agevolato da un contatto diretto con l'autore, Ilaro si impegnò a svelare i significati nascosti nei versi di Dante: «[...] si non ad plenum que in verbis eius latent enucleavi, fìdeliter tamen laboravi et animo liberali» ('se non ho portato alla luce tutto ciò che è nascosto nelle parole dell'autore, ho [almeno] lavorato con cura e con l'intento di giovare'). L'esegesi della Commedia è concepita, in altri termini, come un'esegesi essenzialmente allegorica.
Si direbbe che il grave problema sollevato nel cuore della lettera approdi qui a una soluzione parzialmente positiva: se Dante si è trovato costretto a deporre la "lira latina" per privilegiare una lingua conveniente alle orecchie dei moderni - i quali «liberales artes [...] dimisere plebeis» (par. 11) -, i contenuti del poema sono rimasti immuni da questo processo di svilimento. La ricerca di una maggiore accessibilità linguistica non è stata veicolo di una semplificazione concettuale: come suggerisce Ilaro, la Commedia contiene significati nascosti («que latent»), certamente preclusi, per loro natura, a un pubblico troppo esteso. Sembra dunque delinearsi, pur se in forme appena abbozzate, una sorta di strategia compensatoria: il disagio recato dall'opzione linguistica è superato sul piano della profondità dei concetti («intentionem tam arduam», «tante sententie»; par. 9).
A ben vedere, una strategia non dissimile è adottata da altri interpreti del Trecento che dovettero confrontarsi con detrattori del poema prossimi alla stessa area ideologica che ha dato vita al fantomatico Ilaro. Già Guido da Pisa, nell'autocommento al v. 7 del primo canto della Declaratio (ante 1333-'34), ci informa di alcuni «ignorantes» che fuggono e disprezzano la Commedia «quia vulgari sermonem conscriptam»; costoro, «multo peiores freneticis vel insanis», si dilettano con le spine e dimenticano "la rosa":

Ignorantes vero, multo peiores freneticis vel insanis, audientes hoc nomen Comedie, et videntes ipsam vulgari sermone compositam, fructum qui latet in ipsa querere negligunt et abhorrent, et sic florem qui refocillat animam linquunt, et spinam, que ipsos errorum vulneribus vulnerat, capere delectantur.

Torna il lessico ilariano, che è poi il lessico tradizionale dell'esegesi allegorica: gli avversari di Dante, lasciandosi scioccamente disturbare dalla veste linguistica del poema, non sono in grado di pervenire al frutto nascosto («qui latet»).
Non è possibile determinare l'identità degli «ignoranti» cui Guido da Pisa volle rivolgere la sua invettiva. Sappiamo invece molto bene chi fu il principale detrattore dell'opera dantesca con cui dovette misurarsi, per vari decenni, Giovanni Boccaccio; ed è noto che tra le varie strategie elaborate da Boccaccio per adattare la Commedia ai rigidi paradigmi petrarcheschi - operazione, si comprende, inevitabilmente destinata al fallimento -, prevalga proprio l'insistenza sul carattere risolutamente allegorico della poesia di Dante: vistoso tentativo di alleggerire il peso di un prerequisito linguistico - l'assoluta superiorità del latino sul volgare, «plebeio o pubblico stilo» - dalle implicazioni decisamente esclusive.
È d'altronde lo stesso Petrarca, nella Fam., XXI 15 1, a riassumere in una battuta le linee guida dell'esegesi boccacciana: «Primum ergo te michi excusas, ideque non otiose, quod in conterranei nostri, popularis quidem quod ad stilum attinet, quod ad rem hauddubie nobilis, laudibus multum fuisse videare». E l'accento batte soprattutto sul primo attributo, quella degradante "popolarità" a cui Petrarca alluderà almeno altre otto volte nella sua epistola: al par. 10 (in cui, sottilmente, il libro di Dante è detto «sine difficultate parabilis», in ciò distinguendosi dai testi "quasi introvabili" che «a prima etate» Petrarca aveva privilegiato nelle sue ricerche); ai parr. 14-19, con eccezionale insistenza; e soprattutto al par. 22, dove i toni si fanno d'un tratto significativamente duri (siamo del resto all'apice dell'autodifesa): «aut cui tandem invideat qui Virgilio non invidet [ossia Petrarca stesso], nisi forte sibi fullonum et cauponum et lanistarum ceretorum ve, qui quos volunt laudare vituperant [...]?»; «navi enim quanti sit apud doctos indoctorum laus». È da questo nucleo concettuale che muoveranno le novelle di Franco Sacchetti dedicate ai tumultuosi incontri fra Dante e i suoi "lettori" plebei (Trecentonovelle, 114 e 115): ricettori indegni della Commedia, fabbri e asinai puniranno il poeta per aver offerto al volgo ciò che il volgo non è in grado di accogliere («Disse Dante: "Tu canti il libro o non lo di' com'io lo feci; io non ho altr'arte, e tu me la guasti"»).
Gli spettri creati da Petrarca - la popolarità di Dante, il culto accordato al poeta da coloro che «quos volunt laudare vituperant» - percorrono l'intera produzione dantesca di Boccaccio, manifestandosi sia in forme propriamente esegetiche, sia in forme novellistiche (forme novellistiche che sottendono, evidentemente, una forte finalità esegetica). L'inquietudine si avverte fin dalla prima redazione del Trattatello; e se è all'interpretazione del sogno della madre di Dante che Boccaccio affida la riflessione strutturalmente più impegnativa sul carattere allegorico della Commedia, non è secondario, nella medesima ottica, il ruolo di due brevi aneddoti, fra loro quasi speculari.
Il primo compare nella sola versione più antica della biografia (par. 113), ed è notissimo: passeggiando per le vie di Verona, Dante ascolta i commenti di alcune donne che lo riconoscono come l'autore dell'Inferno; una di esse osserva: «"Donne, vedete colui che va ne l'inferno, e torna quando gli piace, e qua su reca novelle di coloro che là giu sono?"»; e un'altra, con somma ingenuità(«semplicemente»), replica: « "In verità tu dèi dir vero: non vedi tu come egli ha la barba crespa e il color bruno per lo caldo e per lo fummo che è là giù?"». Scambio di battute che sembra qualificarsi come il caricaturale esempio di un'esegesi ottusamente vincolata alla lettera, del tutto inadeguata a concepire un livello di significato più profondo. Ma Dante in questo caso non si adira, e anzi sorride fra sé, «quasi contento» che le donne siano «in cotale oppinione»: come se l'episodio lo rassicurasse della solidità dell' «integumento» da lui stesso concepito per proteggere il poema da lettori intellettualmente inabili.

Alla comica leggerezza delle donne di Verona sembra fare da deliberato contrappunto la perspicacia di Dino Frescobaldi, « uomo d'alto intelletto», il quale, non appena ebbe modo di esaminare il «quademuccio» rinvenuto nella casa fiorentina del poeta, subito apprezzò la qualità allegorica dei testi in esso contenuti (I red., par. 181): «Dino [...] si maravigliò si per lo bello e pulito e ornato stile del dire, si per la profondità del senso, il quale sotto la bella corteccia delle parole gli pareva sentire nascoso». E fu proprio la natura polisemica di quei brani, insieme all'«ornato stile» e alla loro ubicazione, a consentire al Fresco baldi di attribuirli con sicurezza a Dante: «perle quali cose agevolmente insieme col portatore di quegli, e si ancora per lo luogo onde tratti gli avea, estimò quegli essere, come erano, opera stati di Dante».
Vent'anni dopo, Boccaccio svolgerà la sua prima lezione allegorica sulla Commedia impegnandosi a mettere a frutto l'originaria intuizione di Dino Frescobaldi (un'intuizione del tutto analoga, si noterà, a quella del monaco Ilaro). Com'è risaputo, l'argomentazione boccacciana trae conforto dai capitoli del commento di Macrobio al Sogno di Scipione (I 217-21) in cui si afferma che non sempre i filosofi hanno fatto ricorso alle "favole" senza motivo («non frustra se nec ut oblectent ad fabulosa conuertunt»), ma che anzi, trattando dell'anima e degli altri dèi in sottordine («De dis [...] ceteris et de anima [ ... ]»), costoro si sono serviti di fìgurazioni proprio per evitare che la Natura potesse essere esposta senza veli a tutti gli sguardi, compresi quelli più rozzi: è infatti la Natura stessa a esigere che i saggi si accostino ai suoi segreti attraverso narrazioni simboliche (I 2 17). Allo stesso modo, spiega Boccaccio, i poeti che «s'ingegnarono di seguitare» lo Spirito Santo - il quale «gli alti secreti della divina mente nascose» - celarono «quelle cose che essi estimavano più degne sotto favoloso parlare [...] acciò che, dove carissime sono, non divenissero vili, ad ogni uomo aperte lasciandole. Il che assai bene pare ne dimostri Macrobio, nel primo libro De somnio Scipionis, così dicendo: "De diis autem, ut dixi, ceteris de anima [...]"»; e così via, fino a «"fìguris defendentibus a vilitate secretum"» (I 2 18).
Macrobio propone anche un esempio narrativo (I 2 19): Numenio di Apamea, tra i più ardenti indagatori dell'esoterismo, fu aspramente rimproverato per aver reso pubblica l'interpretazione dei misteri eleusini; una notte egli vide in sogno le dee che si prostituivano sulla soglia di un lupanare, e quando, impressionato, chiese spiegazioni, si senti attribuire la responsabilità dell'accaduto: «respondisse iratas ab ipso se de adyto pudicitiae suae ui abstractas et passim adeuntibus prostitutas». Ritroviamo la stessa immagine nel primo carme della corrispondenza poetica fra Giovanni del Virgilio e Dante (vv. 6-13 e 21-22); e di nuovo in Boccaccio, ai vv. 23-29 del carme Ytalie iam tetus honos e nei tardi sonetti 122 e 123, dove l'episodio di Numenio sembra riaffacciarsi come un inquietante archetipo che irrompe dolorosamente nella vita.
L'aspra censura di Petrarca spinse dunque Boccaccio a ricercare nel poema una dimensione allegorico-esoterica, e a conferire a quest'ultima un ruolo ideologicamente fondante; ma che la promessa di «aprire e dichiarare» ciò che «è nascoso» sotto «la roza corteccia» dei versi danteschi sia sempre mantenuta dal Certaldese è, come noto, vero solo in parte.
Per altro verso, non si può dire che l'interesse per l'allegoria della Commedia sia un tratto peculiare dei soli interpreti influenzati dalle istanze elitiste del nascente umanesimo: è anzi stato giustamente osservato che la lettura allegorica della Commedia è di fatto « antica quanto la Commedia» stessa. Testimone chiave di questa originaria impostazione ermeneutica è senza dubbio l'Epistola XIII, a Cangrande della Scala, dove il poema di Dante è immediatamente classificato come un testo "polisemico" (par. 20): «[...] istius operis non est simplex sensus, ymo dici potest polisemos, hoc est plurium sensuum». Non è questa la sede, va da sé, per tornare sul problema dell'autenticità dantesca del proemio a Cangrande: ci limiteremo pertanto a evidenziare ciò che del resto è ben noto, ossia che all'interno della variegata tradizione interpretativa trecentesca è possibile riconoscere un filone principale, un nucleo di testi caratterizzati da alcune costanti, nel momento in cui inizia a essere recepita ( direttamente o indirettamente) la sezione espositiva dell'Epistola a Cangrande, o per meglio dire quella parte della sezione espositiva dell'Epistola a Cangrande che corrisponde a un accessus generale (parr.14-41).
La trasmissione avvenne molto presto: già nel proemio alla Commedia di Iacomo della Lana è possibile isolare un buon numero di prelievi sicuri dall'Epistola; in particolare, il soggetto letterale dell'opera è identificato senz'altro dal Lana con «lo stado delle aneme dopo la morte», non con il viaggio ultraterreno del poeta. È una differenza non marginale, come s'intuisce, e a riscontro si possono menzionare i (pochi) commenti del Trecento certamente indipendenti dall'expositio dell'Epistola XIII, fra loro conformi proprio nella tendenza a dare rilievo alla dimensione individuale del racconto, al dramma del viator persosi nella selva: è quanto si ricava dal proemio all'Inferno di Graziolo Bambaglioli; e, a un livello interpretativo ben più fragile - ma non perciò meno rilevante -, dalle anonime Chiose Selmi e Berlinesi.
Testo che orienta come nessun altro le origini del «secolare commento» alla Commedia, l'Epistola a Cangrande ha continuato a influenzare, nel Novecento, il giudizio dei moderni sulla più antica tradizione interpretativa: se l'Epistola è da attribuirsi a Dante nella sua interezza, e se il contributo ermeneutico dell'Epistola è il miglior contributo possibile per la comprensione del poema - il che, è bene sottolinearlo, non è necessaria conseguenza della prima ipotesi-, anche la tradizione che prende avvio dall'Epistola a Cangrande parteciperà in linea teorica della stessa "affidabilità". Il dialogo tra i due estremi del «secolare commento» alla Commedia, per quanto riguarda le linee generali di interpretazione dell'opera, sembra quindi vivere su questa premessa: sul valore attribuito all' accessus a Cangrande.
Non è infatti casuale che i più convinti assertori dell'autenticità dell'Epistola XIII siano anche gli studiosi di norma meglio disposti verso i chiosatori antichi; per contro, chi ha ritenuto l'expositio dell'Epistola a Cangrande un falso di cattiva fattura, ha in genere formulato un giudizio altrettanto negativo nei confronti di buona parte della prima esegesi dantesca. Certo nessuno ha fatto propria quest'ultima posizione in termini più radicali di Bruno Nardi, secondo cui il proemio a Cangrande, come si sa, altro non era che un maldestro scritto apologetico: insistendo sulla polisemia della Commedia, e invitando il lettore a volgere quanto prima lo sguardo oltre la lettera, l'autore dell'expositio si affannò a rimuovere, o quanto meno ad arginare, le inquietudini cagionate da un'opera che in troppi luoghi rischiava di echeggiare tesi eterodosse (cosi Nardi); e che soprattutto si presentava con l'aspetto perturbante di una visione reale. Anche in questo caso, l'attenzione per l'allegoria dantesca sarebbe dunque la conseguenza di tensioni che affondano le loro radici altrove.
In effetti, non si può negare che il fantasma dell'eterodossia fluttui di continuo tra le chiose antiche: gli esempi potrebbero moltiplicarsi a piacere. Basterà tuttavia limitare le citazioni al proemio dantesco di Benvenuto Rambaldi da Imola, nella redazione restituita dal ms. Ashburnham 839 della Biblioteca Laurenziana di Firenze (unico testimone integrale della lectura Dantis che il maestro imolese tenne a Ferrara nell'inverno del 1375-'76). Seguendo silenziosamente le direttive di Pietro Alighieri - su cui torneremo a breve-, Benvenuto distingue nel subiectum operis due ordini di significato: i regni oltremondani descritti nel poema possono intendersi cosi come appaiono, vale a dire come gli spazi realmente («essentialiter») deputati a raccogliere le anime dopo la separazione dai corpi; oppure, «moraliter», come ripensamenti allegorici di tre diversi stati dell'anima incarnata: lo stato di vizio(«anima [...] imbuta vitiis et maculata [...] est in Inferno morali donec vivit»), lo stato di contrizione («quando anima recedit a vitiis et tendit ad virtute […] est in Purgatorio morali»), lo stato di perfetta virtù («quando anima est in perfecto statu virtutis [...] est in Paradiso morali, quia extracta est a rebus terrest[r]ibus et vanis, Deum tota mente contemplans»). Aggiunge tuttavia l'Imolese che nella figurazione dantesca la dimensione "essenziale" non è sempre presente: «Unde nota quod auctor iste aliquando loquitur de Inferno morali, aliquando [de] essentiali». Alcuni brani del poema, in altre parole, non si riferiscono l'aldilà, come potrebbe sembrare secondo la lettera, ma alla vita terrena, e a questa soltanto: «et si hoc non esset», conclude l'interprete, «mille hic essent erronea et erethica». Lo stratagemma messo a punto da Benvenuto da Imola avrà una lunga fortuna: lo si ritroverà, identico, nella cinquecentesca Difesa di Dante come cattolico, e in termini ancora più espliciti nell'Introduzione al poema di Dante per l'allegoria, testi in cui la distinzione benvenutiana è oltretutto combinata a citazioni precise, ed esplicite, dell’accessus a Cangrande.
È insomma un dato di fatto che, oltre agli intellettuali legati alla «pregiudiziale aristocratico-latina», fra i detrattori con cui ebbero a confrontarsi i primi interpreti danteschi - detrattori che quindi influenzarono a loro volta la più antica ricezione critica del poema - ci furono anche misteriosi individui che attaccarono la Commedia su un piano prettamente dottrinale. Ma chi fossero concretamente costoro, non è facile da stabilire: le voci di quanti avvertirono nel poema pericolosi riverberi eterodossi si sono conservate solo attraverso le parole di chi cercò, più o meno efficacemente, di confutarle. Troppo generiche risultano infatti le accuse mosse nel prologo della Reprobatio di Guido Vemani, e in fondo riferibili, per la loro natura topica, a qualsiasi testo poetico in quanto tale («[...] sepe contingit quod vas, in concavo potum vel cibum continens venenosum [...], pretendit falsam et fallacem pulcritudinem exterius in convexo»); assai sfuggente appare, per altro verso, l'episodio della perizia sulla pena dei suicidi richiesta all'inquisitore Accursio Bonfantini.

A queste tensioni Nardi attribuì ad ogni modo un'importanza cruciale: «tutti» gli antichi interpreti della Commedia, egli scrisse, «si son preoccupati di difender Dante dall'accusa di eresia ogni volta che le sue parole davan pretesto a simile accusa»; e «tutti», aggiunse, lo misero «al riparo da questa accusa nello stesso modo, distinguendo quello che Dante scrive come poeta (poetizans) da quello che Dante pensa come teologo "nullius dogmatis expers", ossia, in sostanza, fra il senso letterale, intenzionalmente svalutato, e il senso allegorico, il solo vero, cioè quello che si cela sotto il velo delle parole fittizie». A parere di Bruno Nardi, la Commedia fu dunque inizialmente letta attraverso il rassicurante paradigma dell'"allegoria dei poeti", che permette di recepire qualsiasi favola purché questa sia riconosciuta come superficialmente falsa. Ma andò davvero così?
Prendiamo a titolo di esempio la prima redazione del commento di Pietro Alighieri, interprete che Nardi include senz'altro nella lista degli ostinati difensori dell'ortodossia dantesca («Tutti, dico, da Graziolo a Pietro, da Jacopo della Lana a Guido da Pisa, dall'Ottimo al Boccaccio»). Anche Pietro conosce l'accessus a Cangrande, ma se ne serve in modo meno passivo rispetto ai suoi predecessori. Quanto alla causa materialis del poema, egli modifica le formule dell'Epistola XIII, mantenendone però intatto il significato fondamentale. Secondo la lettera, Dante discorre nella Commedia «de Inferno, Purgatorio, cum Paradiso terrestri et Paradiso coelesti, prout localiter et realiter possunt et debent intelligi» (poco oltre, l'interprete definirà questi ultimi come i regni "essenziali"). Secondo l'allegoria, Dante raffigura invece tre specie di viventi: i peccatori («no bis viventibus vitiose»), i penitenti («vel viventibus no bis separatis a vitiis, nos de eis purgando») e quanti vivono nella piena virtù («ac no bis sancte et virtuose et perfecte viventibus»), anime ancora unite ai corpi che abitano, rispettivamente, l'Inferno, il Purgatorio e il Paradiso "morali". Il subiectum operis è dunque l'aldilà in sé: il che è come dire, in effetti, "lo stato delle anime dopo la morte". Ma lo stato delle anime dopo la morte, secondo una chiave ermeneutica millenaria, riflette di necessità la condizione dei vivi: già Servi o, facendo proprie le linee guida del più arcaico razionalismo greco, avvertiva il lettore del poema virgiliano che «in nostra vita esse omnia quae fìnguntur de inferis» (ad Aen., vr 596).
Il rinvio a Servio non è privo di risvolti. Per meglio chiarire quale rapporto regoli, nella prima cantica della Commedia, i due livelli della figurazione, Pietro si affida a una fonte strettamente legata all'esegesi serviana: l'accessus di Bernardo Silvestre al sesto libro dell'Eneide, da cui il figlio di Dante preleva uno schema interpretativo che conobbe una certa diffusione nella scuola di Chartres (lo si ritrova anche nel commento di Guglielmo di Conches al De consolatione di Boezio). Prima di enucleare i significati allegorici della catabasi di Enea, Bernardo distingue quattro tipi di descensus ad inferos: 1) il descensus naturalis ad ad inferos, ossia l'unione delle anime con i corpi ( unione che è poi causa, nelle stesse anime, di una necessaria inclinazione al vizio); 2) il descensus virtuosus, vale a dire il processo attraverso cui il saggio riconosce la natura fallace della vita mondana, e se ne distacca; 3) il descensus vitiosus, che riproduce la condizione dei viventi prigionieri dei falsi beni; 4) il descensus artificialis o necromanticus, cioè il complesso di rituali diabolici che rendono possibile il contatto con i morti.
Spiega Bernardo che, stando all'historia, quello di Enea fu per l'appunto un descensus necromanticus, realizzato grazie al crudele omicidio di Miseno: «Nam quantum ad historiam, secundum ultimum Eneas ad inferos descendit et Misenum demonibus mactavit» (insieme al tradimento della patria, è questa un'accusa che gli autori del XII e del XIII secolo rivolgono di frequente all'eroe virgiliano). Da un punto di vista allegorico («per integumenti figuram»), il racconto contenuto nel sesto libro dell'Eneide deve invece intendersi secondo il paradigma del descensus virtuosus: riconosciuta la fragilità delle cose terrene - impressa nelle immagini desolanti, ma altamente rivelatrici, dell'Ade-, Enea si rivela come figura allegorica del sapiente che si allontana dal mondo per convertirsi «ad invisibilia».
Nel commento di Pietro Alighieri, lo schema ricavabile da Bernardo Silvestre non è applicato al viaggio di Dante, ma - coerentemente, data la preliminare definizione del sublieaum operis - alla natura dei luoghi raffigurati nella prima cantica. Il descensus naturalis non riproduce l'unione delle anime con i corpi, ma il congedo dai corpi delle anime dei peccatori, e la loro caduta nell'Inferno "essenziale"; al senso istoriale del poema è affidata la restituzione di questo processo, che corrisponde già di per sé - è evidente - a una verità: «naturalis descensus est quando anima exuta a corpore in mortali peccato descendit in abyssum terrae ad poenas infemales». Allegoricamente, l'Inferno di Dante è invece immagine del descensus vitiosus, dello stato dei viventi prigionieri del peccato: costoro, si può dire, dimorano tra i vivi, ma è come se fossero già morti e dannati.

Il significato di questa operazione si coglie con maggiore chiarezza rileggendo le prime pagine del proemio di Pietro Alighieri, là dove il commentatore accenna al motivo, poi escluso dalla definizione del subiectum operis, del viaggio oltremondano di Dante. Pietro scrive che la catabasi paterna può essere intesa solo in senso allegorico: «cum auctor iste dicit se descendisse in Infernum per phantasiam intellectualiter, non personaliter, prout fecit, intelligit se descendisse ad infimum statum vitiorum»; sarebbe infatti assurdo credere che Dante si fosse realmente inoltrato tra le dimore dei morti: «Nam quis, sani intellectus, crederet ipsum ita descendisse, et talia vidisse, nisi cum distintione dictorum modorum loquendi ad figuram?». Parole che sembrano anticipare, di parecchi secoli, una celeberrima pagina crociana.
Comprendiamo in definitiva che la riduzione della causa materialis dell'opera alla rappresentazione dei tre regni oltremondani, del triplice stato delle anime dopo la morte, serve a circoscrivere uno spazio di verità che sia riconoscibile già nella lettera del poema; a giudizio di Pietro Alighieri la Commedia tratta del resto - lo si è già potuto osservare - dell'Inferno, del Purgatorio e del Paradiso cosi come devono essere intesi nella loro reale essenza di luoghi separati: «prout localiter et realiterpossunt et debent intelligi». Ma la stessa consapevolezza emerge, assai nitidamente, anche nell'accessus di Boccaccio: in acuta contraddizione con le pagine finali del Trattatello, dove a essere enfatizzato era proprio il contrasto fra la narrazione «peregrina» del viaggio ultraterreno e la verità «semplice e immutabile» che questa narrazione celerebbe, anche il Certaldese si trova infatti a osservare che «la sustanziale istoria del presente libro, dell'essere dannati i peccatori, che ne' loro peccati muoiono, a perpetua pena, e quegli, che nella grazia di Dio trapassano, essere allevati alla eterna gloria, è, secondo la catolica fede, vera e stata sempre». La verità non è dunque programmaticamente «nascosa», ma è anzi squadernata in supeficie litterae. Difficile cogliere in questi brani una svalutazione - come vorrebbe Nardi- del senso letterale della Commedia; parrebbe anzi che nel caso di Pietro Alighieri il proposito di difendere l'ortodossia paterna si combini, senza sottometterla a sé, alla volontà di impedire che il poema possa ridursi a una favola allegorica qualsiasi.
Anche il lessico esegetico è rivelatore: ripensata come figurazione "essenziale" dei regni oltremondani, la lettera dantesca diventa sede di contenuti, per quanto possibile, immediatamente veri.
L'identificazione del subiectum operis con lo stato delle anime dopo la morte, tratto che contraddistingue la tradizione formatasi attraverso la ricezione dall'accessus a Cangrande, ha anche altre conseguenze sul piano esegetico. La più significativa è l'attribuzione di un ruolo strutturalmente decisivo a quella che di nuovo Boccaccio, nelle prime battute delle sue Esposizioni, individua come la «moltitudine delle storie»: al centro della Commedia non è tanto la vicenda personale di Dante, quanto l'insieme dei racconti svolti dai personaggi che Dante incontra nel corso del suo viaggio. Già Iacomo della Lana riconosceva l'importanza delle «molte novelle le quali tornano molto a dextro ad adure per exemplo»; e lo stesso ripeterà pochi anni dopo Guido da Pisa, lettore che pure si distingue per una singolare attenzione alle componenti propriamente visionarie della Commedia: «cum ipse [Dantes] tractat de ali quo viti o, ut melius illud vitium intelligamus, aliquem hominem qui multum ilio vitio plenus fuit in exemplum adducit».
Viene spontaneo osservare che se la causa flnalis dell'opera - «removere le persone che sono al mondo dal vivere misero [...] et produrli a vertudioso et gracioso stado» - si realizza grazie all'esemplarità delle storie affidate alla folla dei suoi personaggi, difficilmente la Commedia potrà intendersi come un testo che cela le proprie verità, e il beneficio che da esse deriva, sotto un manto fittizio. Quasi tutti gli antichi progetti di una lettura sistematicamente allegorica del poema - per lo più motivati, come osservato, dalla reazione a impulsi esterni, ossia da intenti a vario titolo apologetici - sembrano infrangersi di fronte a questa evidenza. D'altra parte, la critica recente ha ben rilevato come l'impegno esegetico dello stesso Boccaccio, a prescindere dalle dichiarazioni esordiali, finisca per concentrarsi soprattutto sulle ragioni della lettera; ed è patente l'«attrazione che sul Certaldese esercitano [...] gli spunti narrativi offerti dal testo dantesco, sfruttati con invenzioni o espansioni novellistiche senz'altro degne dell'autore del Decameron».
È un processo, questo, che conobbe talvolta sviluppi notevolissimi. Fra tutti risalta il caso del cosiddetto Falso Boccaccio, il quale, come ha definitivamente appurato Francesca Mazzanti, non ebbe difficoltà a inserire tra la fine del commento al Purgatorio e l'inizio del commento al Paradiso una «memoria di quatuordeci valentissimi hornini romani»: un tradizionale catalogo de viris illustribus. L'operazione è motivata come segue: le «glorie e fame mondane», ammette il chiosatore, vengono meno «in brieve tempo», e non sono, di per sé, «acceptabili a Dio»; ciò nonostante, i casi dei quattordici «valentissimi» che operarono «per avere gloria e fama in questo mondo» possono leggersi senz'altro come «exempro» di quella «gloria celestiale» che «ciascheduna persona [...] dee cerchare». Nessuna soluzione di continuità - ecco il punto - opporrà allora gli exempla antichi al nucleo di significati morali, altamente edificanti, ricavabili dalla lettura del Paradiso: il catalogo dei grandi di Roma, delle loro vicende storiche, anticipa il catalogo delle anime beate.
La dimensione propriamente escatologica del racconto viene in questo modo a perdersi, o quanto meno ad assumere un ruolo fortemente marginale: al che non potrà che corrispondere una contrazione del valore prettamente polisemico del testo. Quando Vico scriverà che Dante, incapace di «finzione», «nella sua Commedia spose in comparsa persone vere e rappresentò veri fatti de' trappassati», e che perciò «le allegorie» del poema «non sono più di quelle riflessioni che dee far da se stesso un leggitore d'istoria: di trarvi profitto dagli altrui esempli», porterà alle estreme conseguenze - comprendiamo - un'intuizione del tutto analoga. Attento lettore di Vico (e dei commenti danteschi del Trecento), Auerbach riconoscerà in Dante il padre "spirituale" del genere novellistico.
Da almeno due secoli, lo spazio riservato nelle chiose antiche alle storie contenute nella Commedia - e soprattutto alle storie che riguardano i suoi personaggi meno noti - motiva l'interesse dei moderni per le origini del «secolare commento». La maggioranza delle informazioni offerte dai primi lettori utili a una migliore comprensione dei «fatti de' trappassati» risulta oggi scandagliata, recepita o respinta - il che non significa, naturalmente, che non si possa scoprire altro. E tuttavia il beneficio recato dall'impresa del Censimento e Edizione dei Commenti danteschi travalica il perimetro degli studi su Dante: un ricchissimo corpus di documenti di stampo ermeneutico, storico, filosofico, retorico, è ora facilmente accessibile. Ciò permetterà di ricostruire con una precisione impensabile fino a pochi decenni fa non solo la storia della ricezione della Commedia nella sua fase più oscura e affascinante, ma, realisticamente, anche un gran numero di altre storie.

Date: 2021-12-24