Dante [Natalino Sapegno]

Dati bibliografici

Autore: Natalino Sapegno

Tratto da: Storia letteraria del Trecento

Editore: Ricciardi, Milano-Napoli

Anno: 1963

Pagine: 134-141

[…] Giova anche al critico moderno, che si sia reso conto dell’inadeguatezza di una lettura impressionistica e inevitabilmente frammentaria del poema, riprender le mosse dai criteri esegetici esposti nella già citata epistola dedicatoria del Paradiso a Cangrande della Scala. Della cui paternità dantesca, pur di recente riconfermata con solidi argomenti filologici, ci fa certi soprattutto del resto proprio la precisa aderenza della poetica alle caratteristiche del testo: di una poetica, definita nell'ambito di una situazione culturale ben circoscritta nel tempo, a tal segno che già in alcuni dei commentatori più antichi (il Lana, l'Ottimo, Pietro Alighieri, Guido da Pisa) essa si ripresenta riecheggiata, non di rado letteralmente, ma al tempo stesso travisata e fraintesa nei suoi aspetti più personali. lvi l'assunto, il «finis», della Commedia, intesa nella sua specifica natura di «opus doctrinale», è indicato nel proposito di «removere viventes in hac vita de statu miserie et perducere ad statum felicitatis»; e si aggiunge che la disciplina filosofica, il «genus phylosophie», in cui un tale proposito s'inquadra è il «morale negotium», l'etica, come riflessione sui fondamenti dell'operare e come strumento attivo di operazione; sì che tutto il libro, nella sua complessa e varia struttura e nel suo alterno armonizzarsi di parti ragionative, esemplificative e parenetiche, può dirsi «non ad speculandum, sed ad opus inventum», e anche gli elementi che pur vi concorrono di un sapere più strettamente filosofico e scientifico debbono essere valutati non in funzione autonoma, ma in rapporto al fine pratico, «non gratia speculativi negotii, sed gratia operis». Solo una siffatta definizione, quando sia compresa in tutta la sua portata, riesce veramente comprensiva dell'intento primario, e insieme del suo vario articolarsi nel tempo, nonché della genesi personale e storica del poema: prodigiosa sistemazione di schemi dottrinali che, applicandosi a tutti i dati, anche minimi, della realtà circostante, e costringendoli a gravitare intorno al nucleo di un'esperienza autobiografica assunta al grado di significazione esemplare, tende in ogni istante, consapevolmente, a risolversi in un affilato strumento di azione e di redenzione individuale e sociale, morale e politica. Ritrovare la forma dell'umana «felicitas», sul piano della realtà contingente e dell'eterno (secondo il duplice fine proposto all'uomo in questo mondo e nell'al di là: nell'ordine di una beatitudine da conseguire sulla terra, in un giusto e pacifico assetto civile, col sussidio dei documenti filosofici, e di una più alta beatitudine promessa in cielo, col concorso della Rivelazione e della Grazia), importa per Dante, nel momento in cui si accinge a comporre il poema, chiarire e superare nella propria coscienza, soggettivamente, e, oggettivamente, operando a redimere il «mondo che mal vive», le ragioni dello «status miserie»; implica cioè, da un lato, un'interpretazione vivacemente polemica della situazione storica e una volontà operosa di intervenire in quella situazione per modificarla e riportarla sulla diritta via: l'esigenza di ristabilire la saldezza, ch'egli sente gravemente minacciata e quasi distrutta, di un ordine intellettuale e normativo, consacrato da una tradizione secolare di cultura; di ricondurre la città dell'uomo, che se ne è pericolosamente allontanata ed è giunta ormai sull'orlo della sua rovina, a combaciare in ogni momento e condizione con il modello trascendente della città di Dio; ma implica anche, per un altro verso, l'impegno di una riconsiderazione e di una trasvalutazione in termini simbolici dell'autobiografia intellettuale e pratica dello scrittore, in cui quella crisi estrema della civiltà cristiana, condotta al bivio di una scelta ormai improrogabile, si riflette e si risolve contratta per così dire e personalizzata. Da un siffatto nodo di esperienze biografiche e di ragioni morali, per cui il pentimento e il proposito di conversione dell'uomo singolo si esalta e si amplia fino a rispecchiare in sé l'angoscia e l'esigenza di rinnovamento dell'umanità tutta, scaturisce il poema nella sua duplice natura, personale e universale, lirica e dottrinale; e il punto d'incontro, in cui convergono le due componenti essenziali dell'ispirazione dantesca, è il tema etico-politico, che affonda le sue radici nella vicenda concreta dell'uomo d'azione e dell'esule, e su quel fondamento costruisce i termini di una dottrina universalmente valida, ma non mai astratta, sempre implicata in una trama di sentimenti e risentimenti, angosce e polemiche, speranze e nostalgie, impeti di collera sdegnosa e desolati ripiegamenti contemplativi.
Di qui la polisemia, esplicitamente enunciata nell' epistola a Cangrande ed estesa a canone interpretativo di tutto il poema, il quale, accanto al senso letterale e istoriale, include dunque nella sua ideazione complessiva anche un sovrasenso comprensivo di valori allegorici, morali e anagogici. Salvo che qui il sovrasenso non si applica più dall'esterno e meccanicamente alla lettera, come accadeva per esempio nelle canzoni allegoriche per la Filosofia, bensì si incarna nella storia, che assurge a funzione di exemplum, conservando intatta la sua sostanza di esperienza reale e lirica, e cioè poetica. Perché qui essa storia è prima di tutto, e immediatamente, voglio dire con tutto il suo peso di eventi e di reazioni psicologiche concretamente determinati, la trascrizione, sia pure stilizzata e sublimata, della vicenda di un uomo singolo: si che non solo (come ancora avverte l'epistola di dedica) l'«agens», il soggetto d'azione, del libro è lo stesso scrittore, l'autore-protagonista, Dante poeta e personaggio, presente in ogni punto dell'invenzione; bensì anche le altre fondamentali figure in cui si incarnano i termini estremi dell'assunto allegorico, la ragione e la Rivelazione, i «phylosophica documenta» e i «documenta spiritualia», le due guide alla «beatitudo huius vite» e alla «beatitudo vite eterne», sono, prima che simboli, personaggi di un'esperienza vissuta, nella sua duplice sostanza intellettuale e affettiva: Virgilio, il poeta prediletto, maestro di stile, nonché testimone e profeta di una solenne ideologia; Beatrice, la donna unicamente amata, immagine di una purezza giovanile brevemente intravveduta, indi perduta e rimpianta, e alfi.ne faticosamente riconquistata nell'amara rimembranza e nel pentimento.
Non diversamente s'imposta il rapporto fra i due sensi, se consideriamo tutta la materia del libro: il «subiectum» (secondo la terminologia dell'autore-commentatore). Letteralmente inteso, esso è lo «status animarum post mortem», la rappresentazione dei tre regni oltremondani: tema, che al poeta deriva da una secolare tradizione e soprattutto, almeno inizialmente, da un suggerimento virgiliano, ma che egli innova profondamente trasformandolo in un viaggio reale e in un'esperienza soggettiva. Allegoricamente, è la condizione dell'uomo, in quanto, liberamente operando, si rende meritevole di castigo o di premio, nel tempo e nell'eternità: «homo prout merendo et demerendo per arbitrii libertatem est iustitie premiandi et puniendi obnoxius». Il legame fra i due sensi è ben altrimenti stretto, e quasi inestricabile, rispetto alla tradizione della letteratura allegorica medievale e ai precedenti tentativi in quella direzione di Dante stesso; e nel medesimo tempo è di gran lunga più duttile e libero, perché attribuisce ad entrambi i termini una totale pienezza di verità. Esclusa dovunque la possibilità di un'interpretazione dualistica, per via di accostamento e di applicazione estrinseca, si richiede che il lettore, in ogni situazione e in ogni figura, sia pronto a cogliere simultaneamente il valore istoriale dell'episodio, con la sua sostanza cronachistica e affettiva, e la sua funzione simbolica, l'elemento fantastico e quello didattico-morale fusi e inscindibili nella struttura per eccellenza medievale dell’exemplum. Il che comporta, a guardar bene, l'assurdità di un'interpretazione allegorica, altro che preliminare e per così dire generica, pedantescamente estesa (secondo un metodo tradizionalmente caro ai lettori di scarso sentimento poetico) ad attribuire ad ogni particolare del racconto, ad ogni fatto e ad ogni parola, un significato inespresso. Come nella Bibbia, nei testi agiografici, e per Dante anche nel racconto virgiliano del viaggio infernale di Enea, la materia narrativa è qui tutt'altro che una «bella menzogna», di cui occorra penetrare l'intendimento recondito oltre il «velame» delle immagini fittizie; è invece una trama di fatti veri, che include immediatamente un valore simbolico, o per meglio dire si presenta come una rivelazione, che fissa la cronaca trascolorante in un'immobilità di valori assoluti e coglie nel contingente l'eterno. Questo atteggiamento limita al massimo l'importanza dell'allegoria, intesa nel suo senso più ovvio e intellettualistico, e concede una libertà pressoché sconfinata all'invenzione poetica. Ben lungi dal ridursi a un gioco meccanico dell'immaginazione asservita a un intento didascalico, e risolvibile in ogni punto, con un procedimento altrettanto meccanico, in termini dottrinali, la «forma» dell'opera, intesa nel suo aspetto più essenziale, può esplicarsi in una varietà di modi e di accenti estesi in una gamma amplissima, dall'invenzione e descrizione poetica, alla digressione teorica, all’esemplificazione morale, alla polemica dottrinale e etico-politica, alla satira: «modus tractandi est poeticus, fictivus, descriptivus, digressivus, transumptivus, et cum hoc diffinitivus, divisivus, probativus, improbativus, et exemplorum positivus». 1
Quando si dice ( secondo una formula, che ritorna frequente nei dantisti moderni, ma di cui è possibile rintracciare le origini già in alcuni dei più antichi commentatori, per esempio in Guido da Pisa) che la Commedia è una visione, una rivelazione, una profezia; che essa comporta pertanto nello scrittore il convincimento di una missione provvidenziale, per cui può presentarsi come un novello Enea o Paolo chiamato ancor vivo a conoscere e comunicare i segreti dell'oltremondo, o addirittura come un precursore designato a preparare la via al prossimo avvento del Veltro, del «messo di Dio», che verrà a restaurare la giustizia sulla terra e, ordinatamente ripartendo i compiti fra il monarca e il pontefice, predisporrà le condizioni ad un perfetto adempimento del duplice fine assegnato all'uomo; si dice senza dubbio qualcosa di essenzialmente e profondamente vero, o che almeno al vero grandemente si avvicina. Mentre infatti si circoscrive in maniera più esatta il genere di letteratura, in cui l'opera si colloca nell'intenzione stessa dell'autore, che è il genere appunto della «profezia» (sebbene ripreso con una grandiosità di concepimento e con un rigore di strutturazione intellettuale e di svolgimenti artistici che non trovano riscontro nel fumoso misticismo di analoghe invenzioni anteriori o contemporanee); soprattutto si sottolinea il valore di assoluta verità che lo scrittore attribuisce alla sua materia: verità assicurata, quanto all'assunto pratico, dalla saldezza dell'ideologia; quanto alla concezione generale del tema, dalla fede religiosa, che gli permette di conferire all'esperienza dell'oltremondo una pienezza di realtà non inferiore e non diversa da quella con cui accoglie i dati dell'esperienza terrestre; e quanto infine ai particolari, dall'ampiezza e dalla minuzia degli elementi attinti a un patrimonio di cultura, unitariamente rivissuto nelle sue componenti classiche e medievali, e accettato in ogni sua parte con uguale, integra, fermezza di convinzione.
Occorre per altro stabilire con chiarezza il limite entro il quale quella definizione può essere valida e utile per il critico, e al di là del quale si cade nell'assurdo di immaginarsi un Dante immedesimato ingenuamente e invasato della sua funzione di profeta, convinto di riprodurre la sostanza di una visione e di un rapimento estatico realmente esperimentati, chiamato insomma a subire passivamente anziché a creare e dominare la materia della sua immaginazione. La profezia è essa stessa, come si è detto, un genere letterario, che lo scrittore accoglie dalla tradizione biblica, del resto ripreso e rinnovato con singolare fortuna ai suoi tempi soprattutto negli ambienti dei gioachimiti e dei francescani spirituali, e che viene incontro a certi presupposti essenziali dell'estetica medievale: esso infatti soggettivamente sottolinea la nozione della natura trascendente dell'ispirazione, onde il poeta può presentarsi come scriba, registratore umile e fedele di un dettato dall'alto; e oggettivamente, in rapporto al lettore, assicura la verità del contenuto, il suo valore conoscitivo e la sua efficacia pedagogica. Ma non esclude mai nell'autore, poeta e artista dotato se altri mai di una limpida e vigorosa armatura mentale, la vigile coscienza di costruire una fictio poetica, e di impegnarsi in questo sforzo costruttivo, usufruendo e tendendo all'estremo in ogni punto tutte le risorse della sua tecnica retorica, della sua fantasia inventiva, del suo intelletto e della sua cultura. Di qui non solo la necessità, ma il particolare rilievo, che viene ad assumere, in un'opera, qual è la Commedia, per eccellenza composita e deliberatamente architettonica, la cosiddetta struttura, quello che è stato chiamato dal Croce il «romanzo teologico», e cioè l'articolarsi dell'invenzione in una trama e sul filo di un'intelaiatura di schemi concettuali, che tende, se non proprio ad annullare, certo a ridurre al minimo le componenti irrazionali del processo fantastico.

Notes
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Dei sei punti contemplati nell'epistola a Cangrande, cinque sono st:iti così ripresi da noi e incorporati nella nostra analisi: «subiectum», «agens», «forma», «finis» e «genus phylosophie». Resta il «titulus», che è «Comedia Dantis Alagherii, fiorentini natione, non moribus». Proprio sul titolo si appuntano, con maggiore acredine, le riserve dei negatori dell'autenticità dell'epistola, ai quali esso appare scandalosamente in contrasto con le caratteristiche del «poema sacro». Ma esso risponde ai termini della cultura specifica di Dante, secondo il valore che avevano assunto nei vocabolari medievali i due vocaboli di tragedia e commedia: sia rispetto alla materia dell'opera «in principio horribilis et fetida, ... in fine prospera et grata», sia rispetto alla sua forma, che è il volgare, il linguaggio degli indotti e perfino delle donne, a locutio vulgaris, in qua et mulicrcule comunicant». Del resto le parole dell'epistola ritornano quasi identiche nell'egloga a Giovanni del Virgilio, dove al poema si allude come ai «comica verba», che «femineo resonant ut trita labello».
Date: 2021-12-23