Critica del gusto [Galvano Della Volpe]

Dati bibliografici

Autore: Galvano Della Volpe

Tratto da: Leggere Dante. Antologia della critica dantesca

Editore: Zanichelli, Bologna

Anno: 1978

Pagine: 169-172

D'accordo sin qui con questi risultati ultimi della più rigorosa filologia dantesca italiana (fra i più sicuri insieme ad es. a quelli che vanno sotto il binomio Hegel-Auerbach, (...) e alle indagini strutturali topografiche di Gramsci a proposito dell'episodio di Cavalcanti) ma restano pur da chiarire, in sede di Estetica e più precisamente di poetica letteraria o teoria generale della letteratura, due punti problematici al fine di poter esaurire quei preliminari di metodo che ci permettano di penetrare la Commedia in quanto organismo artistico: a) il preciso senso gnoseologico-estetico di quei suddetti termini letterari-figurati che costituiscono la parte più peculiare del linguaggio storico, medievale,. usato necessariamente da Dante poeta; b) il conseguente plausibile passaggio e connessione di questa letteralità (sui generis) con la simbolicità o allegoricità complessiva del poema: donde il problema, insomma, della unità artistica del poema (unità trascurata, anche se non negata come dal Croce, dalla filologia che non vede in sostanza che la distinzione dei due sensi, il letterale e l'allegorico, ossia il loro esser su due diversi piani del pensiero). Per il primo punto è da notare che se la selva o la valle e simili hanno per il credente Dante un valore conoscitivo (espressivo) in quanto termini significanti letteralmente la peccaminosa vita terrena etc., così come il tomistico braccio divino vale conoscitivamente in quanto letteralmente significativo della virtù operativa divina, ciò è possibile perché essi hanno la stessa Funzione gnoseologica che hanno per noi termini come la sella montana o la gamba del tavolo (o anche, lo ripetiamo, la valle-vita per il cristiano credente convinto pur di oggigiorno): i quali termini sono metafore morte, cioè sono ormai allo zero psicologico, ossia, inavvertiti come metafore o figure, e quindi presi come significati letterali, mentre invece funzionano pur sempre, sotto l'aspetto del loro valore conoscitivo e pratico, come nessi (intellettualità) di un molteplice (immagini) e cioè come metafore vere e proprie (nessuno pensa di mettersi su una sella montana come sulla sella di un cavallo). Con una sola differenza fra le due sottospecie di metafore morte: una differenza di contenuti: ché la prima, quella medievale, religiosa, tomistica, dantesca, è costituita di sensi (figurati) morali e la seconda di sensi (figurati) empirici e banali. Il che ci porta al chiarimento del secondo punto: ché accade che il simbolismo si esplichi e strutturi e unifichi il poema proprio in quanto opera primamente su di un materiale omogeneo costituito innanzi tutto di sensi figurati morali, quei sensi «letterali »· figurati o metafore morte di cui sopra, donde quella simbolicità di secondo grado che caratterizza il simbolismo del poema dantesco, il suo allegorismo, e costituisce - là dove riesce a fondere in sé ossia a unificare sensi figurati morali e sensi letterali (nel significato vero e proprio del termine) - la peculiare grandezza artistica dantesca. Valga il vero (e vediamo se valga la pena di tanta mole di costruzione intellettuale, cioè se la poesia dantesca la esiga per esser tale e quindi la compensi). Torniamo al canto-proemio (tenendo in prospettiva il secondo canto che fa corpo con esso). Cominciamo col rilevare che, se non si accetta subito di assumere (col beneficio di inventario estetico che ci siamo garantiti) e la selva oscura e la diritta via (= via conducente alla virtù del singolo e allo stato ben ordinato del genere umano) e la valle e il colle o dilettoso monte (= vita virtuosa e ordinata ch'è alla base dell'umana felicità), e via via gli altri termini simili, come sensi morali, ci precludiamo in uno e la partecipazione al pathos drammatico dell'inizio (la «paura» del protagonista), che in ipotesi deve riscattare e giustificare l'uso ex-abrupto dì quegli elementi figurati, e l'ingresso a quella visione-rivelazione edificante ch'è il poema stesso. Intanto, non si può negare che il simbolismo comincia, se comincia, con la presentazione del protagonista come rappresentante dell'intera umanità peccatrice e precisamente perché smarrito in quella selva ch'è la selva erronea di questa vita e non semplicemente una qualunque selva materiale e letterale in senso proprio, in cui l'individuo Dante sia capitato a trentacinque anni (idem per la valle etc.). Ma che il simbolismo cominci veramente, in quanto simbolismo espressivo-artistico, e non freddo allegorismo, ce lo mostrano non solo e non tanto i progressivi sensi morali caratterizzanti l'inoltro in quella selva, pur già potentemente indicativi e, suggestivi di un certo tipo di pathos (etico-religioso), quali «esta selva selvaggia e aspra e forte | che nel pensier rinova la paura», «Tant'è amara che poco è più morte», «Io non so ben ridir com'io v'entrai, | tant'era pieno di sonno (dell'anima) a quel punto | che la verace via (= diritta) abbandonai», «Ma poi ch'i' fui al piè d'un colle giunto | Là dove terminava quella valle | che m'avea di paura il cor compunto», «...a rimirar lo passo I che non lasciò già mai persona viva» etc., quanto, in special modo, lo svilupparsi dell'azione nello incontro, prima, delle tre fiere, per l'icasticità del loro stesso essere emblematico (la sensuale lonza-lussuria «leggiera e presta molto», «di pel maculato... coverta», la leonina superbia «con la test’alta e con rabbiosa fame, | sì che parea che l'aere ne temesse», e, infine, l'avida lupa, spettrale, «che di tutte brame | sembrava carca nella sua magrezza, | e molte genti fe' già viver grame» e che «mi porse tanto di gravezza | con la paura ch'uscia di sua vista, | ch'io perdei la speranza dell'altezza» [idest: del colle], «la bestia sanza pace | che, venendomi incontro, a poco a poco | mi ripigneva là dove 'l sol tace» etc.), e poi del soccorritore spirito dotato di pagana saggezza, di Virgilio («Non omo, omo già fui | ... Nacqui sub Julio ... | al tempo delli dèi falsi e bugiardi...», «Or se' tu quel Virgilio» etc.), di Virgilio che, alla ben precisa richiesta di soccorso contro la lupa in particolare («Vedi la bestia per cu' io mi volsi: | 'aiutami da lei, famoso saggio, | ch'ella mi fa tremar le vene e i polsi», dà quella risposta: «A te convien tenere altro viaggio | ... se vuo' campar d'esto loco selvaggio: | ché quella bestia, per la qual tu gride, | non lascia altri passar per la sua via, | ma tanto lo 'mpedisce che l'uccide» etc., la quale contrassegna tanto icasticamente il significato (morale) di quella minacciata morte (spirituale) - ch'è uccisione semplicemente per impedimento al colle della vita virtuosa e quindi illanguidimento di quella speranza dell'altezza - da riverberarsi non solo su tutto quel che precede, e potenziare esteticamente in ispecie la lupa-avarizia, che raggiunge qui il culmine della sua realtà drammatica (mentre, secondo un recente commentatore, «tutta allegorica» e «intessuta di elementi intellettualistici» sarebbe proprio la « rappresentazione della lupa»), ma altresì su ciò che segue immediatamente («... infin che 'l Veltro | verrà, che la farà morir con doglia |... la caccerà per ogni villa, | finché l'avrà rimessa nello 'nferno, | là onde invidia prima dipartilla»), e insino al termine del canto, col proposto viaggio «per luogo etterno» («...Poeta, io ti richeggio | per quello Dio che tu non conoscesti, | acciò ch'io fugga questo male [= la schiavitù del peccato] e peggio, | che tu mi meni là dove or dicesti, | sì ch'io veggia la porta di San Pietro | e color cui tu fai cotanto mesti...»), in una omogeneità espressiva (simbolica) difficile a negare, per quel che si è visto, anche nel riguardo immediato del secondo canto, che insieme al primo contiene la impostazione simbolica del mistico viaggio oggetto della visione, in quanto ci mostra, col circostanziato annuncio virgiliano dello intervento di Beatrice beata («…non vedi tu la morte che 'l combatte | sulla fiumana ove 'l mar non ha vanto?» etc.), che per intraprendere il cammino della redenzione non basta - secondo la logica morale cristiana - «un momentaneo terrore del peccato e un lampo della ragione », ma « è necessaria una luce superiore a quella della ragione umana, e la certezza della grazia celeste, che confermi quel primo moto dell'animo» (Chimenz).
O in altri termini, in «ma tanto lo 'mpedisce che l'uccide» etc. la fusione del letterale o reale e del simbolo o allegorico è perfetta, essendovi l'azione aggressiva di sbarrare il cammino proprio di una lupa reale e un tale risultato di questa azione ch'è, sì, un mortale danno morale, ma in quante realmente, fisicamente, consiste nel subire un impedimento per w movimento contrastato e un impedimento ch'è poi moralmente letale perché ciò che viene contrastato è luogo di salvezza, il colle della vita virtuosa, il «bel monte», ch'è, infatti, contrastato e allontanato non da una qualsiasi lupa reale (impotente) ma da una lupa «che di tutte brame I sembrava carca nella sua magrezza» etc. La stessa fusione per il resto che ne consegue. E per tutta la Commedia viva.
Concludendo, ci pare dimostrato a sufficienza: 1) che anche la poesia dantesca è incomprensibile, e quindi inconcepibile, fuori del suo humus culturalsociale organicamente presente in essa con un linguaggio che è tanto storicamente quintessenziato e tecnico quanto personale: donde quel peculiare pathos della Commedia che ci afferra non meno che la sua umana novità storica (comparate quella « morte » dell'anima sulla fiumana della vita con la «morte» in Orazio, in Virgilio e Lucrezio e nei poeti greci: e quella « paura » del peccato, del canto-proemio, in quale poeta moderno non che antico la trovate?) che per la novità del suo individuale accento (Dante non è Petrarca ma neanche è Guido Cavalcanti); 2) che di conseguenza la « macchina del poema » (Tommaseo), la struttura allegorico-morale e tecnica (compresovi quel metodo del rapporto figura-compimento, Figur-und-Erfullung, approfondito da Auerbach su spunti hegeliani, per cui si illumina veramente il «realismo» dantesco, da Ciacco goloso a Casella e Buonconte e fino a Cacciaguida e l'apostolo Pietro, in quanto esso non è che una applicazione estesa al mondo contemporaneo al poeta del procedimento giudaico-cristiano usato da Paolo e dai Padri della Chiesa di vedere in Adamo una «figura» di Cristo e in Eva della Chiesa etc., onde ogni avvenimento del Vecchio Testamento veniva concepito quale «figura» da portare a «compimento» con gli avvenimenti dell'Incarnazione di Cristo) è strettamente indispensabile e inseparabile dalla poesia della Commedia, conferendole essa quella unità (di giudizio) senza cui qualunque parte o episodio del poema perde la sua sostanza espressiva, artistica, col perdere appunto il suo puntuale significato universale, simbolico (allegorico). E così, se non si vuole snaturare esteticamente anche il popolare episodio di Paolo e Francesca, bisogna capire che è la sua inquadratura cristiano-cattolica - e precisamente l'elemento strutturale ch'è il giudizio etico-religioso che situa topograficamente gli amanti cognati nel girone de « i peccator carnali I che la ragion sommettono al talento» etc. – a dargli quel peculiare pathos per cui esso episodio amoroso si distingue non solo da ogni altro ispirato al moderno, romantico, «amore-passione », con relativa «eroina», di desanctisiana e crociana memoria, ma anche da ogni altro di tono medievale galante-cortigiano, come putacaso quello degli amanti della Espinette amoureuse di un Froissart, pur con quella sua singolare analogia di espressioni, ad es.: «Adont Iaissames nous le lire»; onde a coglier il tono esatto della pietà dantesca è pertinente quel complesso di elementi storici, intellettuali, richiamati in proposito dai filologi più avveduti: come la teoria del «cor gentile» e «l'ombra antica della fatale deità d'amore protendentesi attraverso la cristiana coscienza medievale» (Crescini): elementi assorbiti nella pietà severa, giudicante, di Dante poeta.

Date: 2021-12-22