Contrappasso e mentalità allegorica nei commenti alla Commedia tra Trecento e Quattrocento [Rosa Affatato]

Dati bibliografici

Autore: Rosa Affatato

Tratto da: Atti delle "Rencontres de l'Archet", Morgex, 14-19 settembre 2015

Editore: Centro di Studi storico-letterari Natalino Sapegno, Torino

Anno: 2007

Pagine: 106-113

Le ipotesi e le spiegazioni sul contrapasso, il vocabolo tra i più citati dalla critica dantesca, sono e sono state molto varie, specie perché il sistema è stato spesso identificato, anche dalla critica moderna, con la legge del taglione. Il discorso che qui si intende approfondire parte da alcuni dei primissimi commenti alla Commedia nei quali si evidenzia un tipo di corrispondenza pena/colpa non così stretto, che qui si esaminerà a partire da Inf., XXVIII e allargando il confronto, quando utile, anche ad alcuni dei primi canti dell’Inferno.
La prima evidenza che i commentatori antichi spiegano è che il contrapasso è costruito su similitudini allegoriche o anche direttamente con allegorie. Jacopo Alighieri (1322), il primo dei commentatori danteschi, nella glossa a Inf., XXVIII 142 utilizza infatti riferendosi al contrapasso il verbo dimostrare e l’avverbio figurativamente per introdurre il concetto di contrapasso come “giustizia”:

Onde figurativamente qui sanza il capo il suo busto si pone, a dimostrare, che così come partì la congiunzione del padre al figliuolo che tanto è unita, che così da sé partito proceda. La qual giustizia anticamente in ciascun malificio, così nel mondo osservata contrapasso volgarmente era detta.

Per spiegare meglio il concetto di giustizia al quale sembra rifarsi Jacopo è utile il confronto con un articolo di D. Bolognesi che spiega come il concetto di contrapassum venga dal mondo filosofico e giuridico già noto ad Aristotele nel capitolo V dell’Etica Nicomachea dove si parla dei diversi tipi di giustizia. Ma tale principio si collega anche all’ambito economico, in quanto, sempre nello stesso quinto capitolo, il filosofo greco spiega che «le cose di cui v’è scambio [nel nostro caso, pena e delitto] devono essere in qualche modo commensurabili. A questo scopo è stata introdotta la moneta, che, in certo qual modo, funge da termine medio». Tra pena e delitto deve esistere dunque un termine medio che ne possa valutare il peso: questo è il contrapasso che Jacopo individua come antica usanza giuridica e di cui dà una spiegazione allegorica nel V canto. In Inf., V dice che «l’effetto delle fatte operazioni si concede: la pena in questo cotale figurativamente si sostiene», analizzando l’immagine allegorica della bufera infernale. I termini dell’allegoria sarebbero identificati tanto nell’effetto del peccato in generale quanto in quello dell’azione (le “fatte operazioni” relative al peccato di lussuria), ma tale relazione non viene identificata come contrapasso, bensì come “effetto” delle azioni commesse (“fatte operazioni”), spiegando tale corrispondenza come un’allegoria. Nel canto XXVIII è addirittura la “giustizia” il termine medio di valore, sarebbe a dire lo stesso contrapasso, che quindi non è una “legge” ma una misura di valore applicata in determinati casi giuridici: «così come partì la congiunzione del padre al figliuolo […] così da sé partito proceda. La qual giustizia anticamente […] contrapasso volgarmente era detta».
Di parere contrario è Iacomo della Lana, per il quale il contrapasso non è un effetto, ma la causa “del modo della pena”. Dice infatti: «Conclude Beltramo la casone del modo della soa pena». Non compare, nell’intero commento, il primo relativo all’intera Commedia, alcuna altra citazione della parola contrapasso; ma a proposito dei “cattivi” del III canto spiega che il loro “exercixio” è l’“opposito a soa disposicion mondana”: «Or qui vole D. mostrare lo exercixio in che stanno queste cotai anime captive per opposito a soa disposicion mondana».
Iacomo evidenzia quindi una corrispondenza per opposizione tra colpa e pena, ma il commentatore medievale non parla in questo III canto né di colpa né di pena bensì di “esercizio” (per la pena) e “disposizione” (per la colpa). Manca dunque un accostamento esplicito di tali elementi all’“occhio per occhio” della legge del taglione, come se, anche per questo autore, si trattasse di un meccanismo analitico differente, relativo alla corrispondenza morale tra la vita mondana e l’aldilà e non alla giustizia in senso stretto. Secondo F. Forlenza, magistrato e studioso di storia del diritto penale, «Dante fu il primo criminologo» ad aver spiegato attraverso un «allegorico macrosistema giudiziario» il «paradigma rigorizzato della filosofia del punire», in cui il principio cardine è proprio il “contrappasso penale” basato sul principio che «la pena è efficace non solo quando è proporzionata alla gravità della colpa, ma anche quando si ponga in perfetto antagonismo col peccato». Resta però che nella Commedia non sempre è evidente una corrispondenza tra colpa e pena – o retribuzione che dir si voglia – e che quindi non è corretto affermare né che il contrapasso sia una “legge”, in quanto si tratta se mai di un principio, né che questo sia applicato sempre e rigorosamente nell’opera dantesca, che non può quindi essere riduttivamente riportata a una specie di trattato sui delitti e sulle pene.
L’ipotesi a questo punto è che proprio la mancata applicazione di tale principio nella logica infernale dantesca, sempre precisamente strutturata, sia la conseguenza della perdita dell’orizzonte allegorico medievale che non riesce più ad analizzare e interpretare l’allegoria delle pene come “proiezione” del peccato, e che quindi il difetto, se così possiamo chiamarlo, non sia in Dante, ma proprio nei lettori a lui immediatamente successivi.
Un indizio di quanto tale lettura allegorica fosse connessa al mondo giuridico e appartenesse a una fase sociale oscillante verso altre forme di riflessione normativa che modificavano la comprensione della rappresentazione figurativa delle pene si trova già nell’Ottimo Commento, di cui si riporta, dalla redazione del 1338, la glossa relativa al contrapasso confrontandola con la chiosa parallela di Andrea Lancia (1341-1343), già erroneamente indicato come copista della prima redazione dell’Ottimo (1333). Il copista del 1338, anch’egli differente dal primo redattore, pur non citando affatto il contrapasso: «Tutto questo testo è aperto nel quale il detto Beltramo manifesta suo nome et sua pecca et la Justitia che di lui si fa, consonante al suo peccato», allude alla “Justitia” e alla sua “consonanza” con il peccato da scontare.
La glossa di Andrea Lancia spiega ancora che l’allegoria della testa spiccata dal busto significa che «La testa è principe di tutta la persona, nella quale sono tutti cinque sensi, significa la persona divisa dal suo principio» e che il contrapasso è la causa della pena: «perché divise padre dal figliuolo, che sono una medesima carne e uno medesimo sangue, inperò per giudicio di degna pena porta la testa sua propria divisa e levata da’ suoi membri». È questo il vero scisma che richiede “degna pena” in quanto divisione “tra singulari persone”. Tra le due redazioni intercorrono pochi anni, ma curiosamente nell’ultima forma dell’Ottimo commento il paradigma mentale al quale l’autore fa riferimento sembra già completamente mutato rispetto alla glossa di Andrea Lancia. L’autore dell’Ottimo non parte infatti dal modello analitico presente in Lancia e nei precedenti commenti, ma sottintendendo con l’avverbio “consonante” la spiegazione del contrapasso manifesta un allontanamento, se non già l’incomprensione, del paradigma allegorico che per il concetto di “somiglianza dissimile” proietta la pena ultraterrena come immagine della colpa commessa nel mondo naturale. Un’ulteriore considerazione a questo proposito viene dall’analisi della glossa sul bosco dei suicidi di Inf., XIII nella terza redazione dell’Ottimo, dove si ritrova una spiegazione allegorica sulla pena che dopo il suicidio fa perdere all’anima la potenza vegetativa, mentre le farebbe restare quella sensitiva:

[…] a dare ad intendere per allegoria che quando l’uomo è nel mondo si è animale vegetabile, sensitivo, et rationale. Et quando l’uomo uccide se stesso conferisce a cotale morte solamente le potentie vegetabile et sensitive et però si trasmutano in una forma di pianta et vegetabile, nella quale è la sensitiva potenza.

Dal confronto testuale tra queste due glosse relative a Inf., XXVIII e Inf., XIII sembra che l’autore si trovi mentalmente tra i due mondi: da una parte ancora influenzato dall’orizzonte allegorico legato al mondo feudale, come nella glossa che spiega le nature dell’anima depauperate dal suicidio, dall’altra non più consapevole del legame tra lettera e allegoria, caratteristica del mondo preumanistico, come appare nella glossa al contrapasso di Bertrand de Born. Sembra insomma, come dice Varela-Portas, che il mondo intellettuale, laici e clerici (l’autore del 1338 è forse un domenicano) cerchi di «rinforzare la sacralità del mondo in crisi» attraverso il ricorso a una spiegazione allegorica analitica all’inizio della cantica, mentre alla fine, parlando di contrapasso, non riesce più a usare i propri strumenti ermeneutici per cui si limita a parlare di “consonanza” della “justitia” senza sentire il bisogno di ulteriori analisi e interpretazioni. Anzi, se la terza redazione è dovuta a un domenicano, come ipotizza C. Di Fonzo, ciò darebbe ragione sia della profonda diversità tra la stesura delle due redazioni del commento, sia di quanto le componenti laica-professionale ed ecclesiastica della società fiorentina postfeudale si fossero ideologicamente avvicinate già nel 1338. Sembra insomma che le parti sociali sentissero l’esigenza di trovare una base ideologica comune per la società mercantile precapitalistica che da un lato non sentiva più come propri gli strumenti interpretativi medievali dell’allegoria, quelli che la riportavano alla “somiglianza dissimile” della visione del mondo, ma dall’altra era ancora lontana dall’elaborazione ideologica e politica che sarà propria del mondo rinascimentale.
Nel panorama di fine secolo XIV Francesco da Buti (1385-95) e l’Anonimo Fiorentino (1400 circa) affrontano il problema da un altro punto di vista. Il primo lo fa attraverso la riflessione, sempre in Inf., XXVIII 142 sui tre tipi di debito possibili, introducendo per il contrapasso il concetto di debito come riferito sia al peccato commesso come “debito della ragione” contratto dal peccatore, sia alla pena “debita”, cioè da pagare da parte del condannato come “debito della natura”:

Così si osserva in me lo contrapasso; cioè com’io passai contra lo debito della ragione, facendo tale divisione; così la giustizia passa contra lo debito della natura in rendermene debita pena; e così conchiude la sua pena essere conveniente.

La parola debito, ripetuta ben tre volte se contiamo anche il cambio di terminazione debito/debita, spiega questi tre tipi di debito come la “convenienza” della pena rispetto al peccato in una forma che richiama la “consonanza” di cui parlava il redattore dell’Ottimo del 1338. Buti però mette in evidenza quello che possiamo chiamare un “pre-testo”, ovvero un testo precedentemente conosciuto dal commentatore: è solo un’allusione, questa ai tipi di debito, ma fa pensare a un bagaglio culturale non più solo teologico ma ben più ampio e allargato alle prime frontiere umanistiche dello studio giuridico. Da buon magister gramatice nello Studium pisano, l’anziano Buti impiega le sue conoscenze per commentare il testo dantesco al di là del testo stesso, trasformando il commento in un “pretesto” per sottolineare la propria padronanza della materia non solo in ambito retorico ma anche giuridico. L’altro autore, l’Anonimo Fiorentino, evidenzia anch’egli in modo nuovo la differenza tra giustizia e contrapasso, riprendendo nel suo commento su Inf., XXVIII 142 il tema della giustizia, già introdotto da Pietro Alighieri il quale già nella seconda redazione del suo Comentum (1344-1349) aveva distinto il contrapasso, cioè la conformità della pena al peccato, dalla semplice allegoria: «Post hec auctor intelligendus est loqui de dictis vulnerationibus harum animarum potius per hanc rationem, quod pena sit conformis delicto, quam per allegoriam», perché anche se il contrapasso funziona come un’allegoria, con la proposizione comparativa potius/ quam il figlio di Dante ha voluto mettere da parte il semplice significato allegorico e dirigere l’attenzione dei lettori verso la corrispondenza pena-colpa, tanto che l’immagine allegorica del capo staccato dal busto di Bertrand de Born passa in secondo piano, perché serve solo a evidenziare l’analogia tra la colpa e la pena di tutti i seminatori di scandali. In conclusione sembra che Pietro, come giurista, abbia voluto sottolineare il contrapasso sia in quanto misura (la mensura delicti di Isaia) del peccato sia in quanto il peccato e la pena si trovano di per sé, come sottolineato dalla comparazione sintattica, in relazione di somiglianza tra loro. L’Anonimo Fiorentino, invece, sottolinea il contrapasso in maniera da spiegarne il concetto proprio con quello della legge del taglione: «Giustizia si dice quando l’uomo ha morto uomo, et egli è poi morto; in qualunque modo muoja, si dice giustizia». Il contrapasso viene insomma considerato come una forma particolare di giustizia che «ha in sé più severità et ragione» perché «nella esecuzione della giustizia tutte le cose occorrano che sono occorse nella offesa», cioè ripetendo nella pena addirittura l’ora, il giorno e la modalità del delitto:

Egli è differenzia fra giustizia et contrappasso: Giustizia si dice quando l’uomo ha morto uomo, et egli è poi morto; in qualunque modo muoja, si dice giustizia. Contrappasso ha in sè più severità et ragione; chè vuole che nella esecuzione della giustizia tutte le cose occorrano che sono occorse nella offesa; chè vuole che l’uomo omicida sia morto quell’ora del dì ch’elli uccise, per quel modo, et in quello luogo, et con quelli ordini, et similia.

Si tratta quindi di una vera e propria riproduzione del delitto nella pena, e non più soltanto di una corrispondenza, conformità o convenienza di essa, così come era stato illustrato dai precedenti commenti, aprendo una prospettiva completamente differente rispetto ai concetti di causa ed effetto e avvicinandosi maggiormente a quella aristotelica di giustizia commutativa e non distributiva. «Giustizia si dice quando l’uomo ha morto uomo, et egli è poi morto; in qualunque modo muoja»: per l’Anonimo Fiorentino il contrapasso è una legge, ma, proprio in quanto legge, non è applicabile a tutti i peccatori dell’inferno. Bisogna distinguere tra i diversi casi, tra i quali rientrerebbe quello di Bertrand de Born, trattando il contrapasso come una “vendetta” divina ragionata, addirittura legalizzata, e non più come il riflesso o l’effetto del peccato commesso in vita come si è visto nei commenti più antichi.
Resta comunque il fatto che i primissimi commenti parlano di effetto del peccato o di causa della pena intendendo tali concetti in modo più ampio rispetto a quello che prevarrà invece a partire da Benvenuto da Imola (1375-1383), il quale parla di reciprocità (vicis): «Et ideo, così s’osserva in me lo contrapasso, quasi dicat: ita recipio vicem meam» sottolineando il concetto di mutualità che evidentemente stava diventando l’elemento che i commentatori della fine del Trecento ponevano maggiormente in risalto rispetto a quello di effetto che si è osservato all’inizio. Sarà per questo motivo che Cristoforo Landino (1481) arriverà a parlare esplicitamente di lex talionis, restringendo ancor più il concetto di contrapasso alla mera corrispondenza colpa-pena:

Chosì s’observa in me lo contrapasso: è in iure civile ordinato la pena del talione, la quale è che chi ha facto ingiuria sia punito in quel medesimo. Come verbi gratia chi taglia la mano a uno vuole tal legge che a llui similmente sia tagliato la mano; et questo chosì punito in latino è “contra passus”, perché ha patito allo ‘ncontro quello che havea inferito ad altri.

Il passo evidenzia come il concetto presente in iure civile della legge del taglione sia stato nel Quattrocento quello maggiormente accettato e quindi riportato in questo primo commento a stampa, senz’altro impoverendo la riflessione precedente e riducendo tutto il sistema delle pene al concetto di patire incluso nel contrapasso. Così, dal Quattrocento praticamente fino al Novecento il senso allegorico del contrapasso come proiezione ultraterrena della vita terrena è passato in secondo piano per porre in rilievo il concetto giuridico di scambio tra pena e peccato. E infine è proprio quest’ultimo concetto quello che è stato tramandato con più forza, se ancora nel suo commento all’Inferno, risalente al 1955, Natalino Sapegno spiega il contrapasso come “legge” che «costituisce in tutto il mondo infernale un rapporto definito, per contrasto o per analogia, fra la natura della colpa e il modo dell’eterno castigo» e che «proprio in questo canto [Inf., XXVIII] […] trova la sua enunciazione più chiara e con essa il termine che, tecnicamente, la designa» anche se poi precisa che «in Dante la parola indica, anche più che una proporzione quantitativa, una corrispondenza di qualità fra il peccato e la forma del castigo».
Le interpretazioni novecentesche che trattano “normativamente” il contrapasso come lex talionis prendono l’avvio dunque dalla definizione landiniana di fine Quattrocento che probabilmente trova la sua giustificazione nella ricerca rinascimentale di una oggettività del diritto che non poteva essere lasciata alla “convenienza” generica ma che si andava via via precisando attraverso il concetto umanistico e rinascimentale di aequitas, propugnato già dal movimento dell’“umanesimo giuridico” e da Lorenzo Valla.
Ciò è dovuto al fatto che, come sottolinea Bolognesi, nei secoli si sia costruito un equivoco su due fronti: da una parte il contrapasso non è una legge, ma un principio e che non è “valido” per tutte le pene, ma, come si è visto nella spiegazione dell’Anonimo Fiorentino, solo per alcune: «Il primo lettore della Commedia che non avesse ancora tra le mani questo canto, non poteva pensare o immaginare il contrapassum come strumento interpretativo generale della Commedia, quale è poi diventato» spiega Bolognesi.
Dall’altra, assimilare il contrapasso alla legge del taglione lo trasforma in uno strumento di ritorsione morale ed etica contro il peccatore, tutto il contrario del riflesso o meglio della continuazione, seppur portata fino alle estreme conseguenze rappresentate attraverso l’immagine allegorica, della vita terrena, e questo sia nel male, sia anche nel bene, come succede nel Paradiso.
Il senso del contrapasso così come elaborato da Dante doveva essere, secondo quanto abbiamo visto emergere dai commenti più antichi, non una “vendetta” giuridica, ma la proiezione del peccato – in quanto vita sulla terra – verso la pena – in quanto vita nell’aldilà – come allegoria della stessa vita terrena trasportata verso il suo fine ultimo, sia esso l’inferno, il purgatorio, o anche – ma in questo caso J. Varela-Portas ha parlato di “propasso”, non “contrapasso” – il paradiso, dove non si porta alle estreme conseguenze l’azione di peccare ma si esalta «quanto avemo in potenza di ben fare» (Dante, Amor che movi, v. 12),170 in un “paso a favor” – e non un passo “contro” – grazie al quale i beati perfezionano il loro diletto, la loro felicità, in una parola «la virtud por la que han alcanzado la gloria».
In conclusione, il cambiamento del modus esegetico ed epistemologico tra Trecento e Quattrocento si riflette attraverso questo breve excursus sul contrapasso individuato come uno degli aspetti del sistema mentale allegorico nel passaggio dal mondo feudale a quello borghese. Una trasformazione durante la quale, secondo J. C. Rodríguez, si inverte la tendenza feudale che egli chiama “organicistica” e che prende l’avvio dall’idea di natura come “corpo organico” unico ma composto dai singoli elementi di ogni altro corpo sia sociale, sia umano, sia animale, sia vegetale, sia anche celeste dei quali diventa l’immagine, in quanto tutto il creato è parte integrante della natura divina ma multiforme del mondo. Da qui si origina il contrapasso come “proseguimento” della vita terrena del peccatore, in quanto non c’è differenza tra i due mondi, che sono anzi in continua relazione l’uno con l’altro. Nei commenti di fine Trecento comincia invece a emergere l’idea neoplatonica e rinascimentale di natura come sistema i cui elementi non sono ontologicamente distinti ma fanno riferimento a un’idea unica e indifferenziata di divino. «Non ci troviamo più in un mondo composto di forme sostanziali divine – species, intentiones – sigillate nella materia per creare nature diverse […], ma in un mondo in cui un’unica anima universale bagna – o illumina – un’unica natura ontologicamente identica in tutti gli esseri». I mondi sono identici ma ormai lontani e non più in relazione tra loro; tra essi anzi si va creando un abisso sempre meno facile da superare, per cui non è più immaginabile compiere un transfert allegorico da una esistenza o natura all’altra (terrena/ultraterrena) ma è necessario agganciarsi ai princípi umani, non più divini, della giustizia e dell’aequitas umanistici e rinascimentali, siano o no la legge del taglione.

Date: 2021-12-22