Come leggere Dante: recenti proposte della critica italiana [Domenico Consoli]

Dati bibliografici

Autore: Domenico Consoli

Tratto da: Dante Studies, with the Annual Report of the Dante Society

Numero: 85

Anno: 1967

Pagine: 75-83

Il nostro esame è limitato esclusivamente a studiosi italiani. E ciò non certo perché non riconosciamo i meriti insigni dei dantisti stranieri anche in sede di sistemazione critica globale ed esaustiva della poesia dantesca.
Forse mai come oggi in Italia l'interesse per ogni ricerca, per ogni suggerimento esegetico riguardante il nostro maggior poeta è stato così vivo e attento, e mai si e verificato un così fecondo confluire di metodi e tecniche differentissime nel comune impegno di penetrare sino al fondo l’intelligenza, il cuore, il mondo intero di Dante.
Proprio dal continente americano sono arrivate alcune delle proposte più originali e innovanti, dalle quali la discussione del problema dantesco ha ricevuto e continua a ricevere vigorosi impulsi, e per merito delle quali la scienza teologica e storica, i costumi, il gusto linguistico e la dinamica espressiva del grande Fiorentino si sono aperti ai nostri occhi sotto inaspettate prospettive. Il testo antico ha mostrato ancora più intensa e perentoria la sua vitalità al contatto con modi d'indagine di provenienza e di natura così eterogenea rispetto alia mentalità, all’ambiente e alla tradizione del paese ove nacque.
Se risulta difficile precisare quanto abbiano influito sulla interpretazione del poema gli studi del Singleton, del Bergin, del Fergusson, del Mazzeo, del Wilkins e di altri ancora, certo alcuni fondamentali risultati delle loro esplorazioni nel territorio dantesco sono ormai stabilmente acquisiti alla cultura italiana, specie nel campo delle questioni allegoriche, della polisemia, dei rapporti linguistici del poema con le fonti medievali e bibliche, delle analogie fra il viaggio dantesco e gl’itinerari spirituali dei mistici (con sondaggi anche in direzione classica, fino a Platone, per esempio), dei contatti mondo religioso-tradizione latina (e, per quanto è documentabile, greca), del simbolismo come fatto poetico in cui viene assorbito un nucleo di verità intellettualistiche, del passaggio, nella Commedia, da realtà biografica a realtà figurativa e fantastica, dell'ottica oltremondana, della metafisica della luce.
Per diversi che possano essere, nei vari settori geografici e scientifici di analisi, i compiti, i criteri, gli obiettivi degli studi danteschi, il problema di "come" leggere Dante b intrinseco alia tensione medesima che li promuove. Altrove componente implicita e sotterranea, forse, del pensiero critico, tale problema è in Italia preminente e sempre aperto da quando, dopo le lampeggianti intuizioni del De Sanctis, il Croce ha compiuto il suo deciso intervento. In che modo e per quali vie, ci domandiamo ancor oggi, stimolati dalle sollecitazioni crociane, è consentito a noi, cittadini di un mondo e possessori di un costume storico-culturale tanto lontani da quelli danteschi, intendere e gustare il massiccio e poderoso organismo poetico della Commedia? La questione, è ovvio, sussiste per ogni poeta e per ogni poesia del passato, ma al paragone di Dante sembra ancora più ardua, ancora più intricata nei suoi termini, anzi tale da doversi porre in maniera diversa che per gli altri poeti.
All'inizio di quest'ultimo decennio, tanto per stabilire dei limiti di tempo, Rocco Montano ha raccolto i suoi contributi sull'argomento in due volumi, il primo riguardante la Storia della poesia di Dante (ora Firenze: Olschki, 1965) e il secondo, più pertinente al nostro soggetto, dedicato a Suggerimenti per una lettura di Dante (Napoli: Conte Editore, 1956; v. particolarmente il capitolo "Del leggere Dante," alle pp. 9-50). La sua tesi è che la Commedia rappresenti la storia di un'anima inferma in cerca di salvezza e che a quest'anima (a Dante personaggio) vadano attribuiti appunto pensieri, impulsi, debolezze, inclinazioni propri di chi ancora non fida il piè sul vero. La insufficienza della critica tradizionale deriva, a suo modo di vedere, dal non aver saputo adeguatamente distinguere il Dante personaggio dal Dante autore, il quale invece si tiene in posizione di assoluto distacco passionale e oggettività descrittiva. Come il protagonista così tutti gli attori dell'opera (Catone, Virgilio, Marco Lombardo ecc.) sono espressione della loro personale mentalità, storicamente accertata, e non proiezioni del mondo sentimentale e intellettuale di Dante, e i colloqui che il protagonista ha con essi sono momenti di una sua necessaria esperienza nel cammino della redenzione. In tal modo viene salvata l’unità dell'opera e si creano le premesse di una sua retta interpretazione, a patto che si sappia "penetrare nell’universo mentale medievale" e "conoscere le cose come il poeta le conosceva" (v. le osservazioni di E. N. Girardi, in "Dante personaggio," in Cultura e Scuola, nn. 13-14, [gennaio-giugno I965], 338-339, e le nuove argomentazioni del Montano in "Dante personaggio," in Cultura e Scuola, n. 17 [gennaio-marzo 1966], 244-251).
Una revisione delle vedute romantiche intorno all’antitesi tra medioevo e rinascimento, Fede e Scienza, sulla quale antitesi spesso si basa l’interpretazione della Commedia, col grave pericolo di falsificarne lo spirito, auspica Giuseppe Toffanin ("Del modo di leggere Dante," in Nuova Antologia, Anno XCVIII, fasc. 1954 [ottobre 1963], 201-206). Egli nota che ci si h dati poco pensiero di vedere che cosa implichi nel modo di leggere Dante la differenza fra il concetto degli umanisti che il poeta fiorentino considerasse il mondo antico con la loro stessa fiducia, e il concetto dei romantici che al contrario lo respingesse col loro stesso disdegno. Per Dante dal paganesimo al cristianesimo non era avvenuto un salto, un rovesciamento rivoluzionario di posizioni, proprio perché egli, pur convinto che nel cristianesimo fosse tutta la verità non accettava l'idea che nel paganesimo fosse tutto Terrore. Un eterno e provvidenziale disegno congiunge le due epoche, come il critico dimostra a proposito della funzione e degl'influssi degli astri (affidando la prova contestuale al prologo dell’VIII canto del Paradiso). Occorre dunque recuperare, nel rapporto fra il mondo antico e il mondo cristiano, il "senso del continuo e dell'eterno," sostituito dai romantici col senso del contrasto e dell'opposizione, allargandone i riflessi, oltre la sfera concettuale, agli elementi figurativi e stilistici, e tornando, in definitiva, a una lettura "umanistica" della Commedia.
Ma forse la novità più grossa, in questo campo di discussioni metodologiche, ce l'ha offerta Edoardo Sanguineti (Interpretazione di Malebolge, Firenze: Olschki, 1962; "Del modo di leggere Dante," in Lettere italiane, XV [1963], No. 1, pp. 59-61; Il realismo di Dante, Firenze: Sansoni, 1966) , il quale estrae da una "esperienza del testo," concreta, un criterio di "lettura narrativa" che si appiglia al fenomeno storico del parlare dantesco per conservare la poesia nel suo luogo originario e immettervi le zone dal Croce scartate o trascurate, all'opposto segnalando una continua sequenza di fermenti vitali nei vari segmenti del racconto:

Perché, quantunque ciò suoni spiacevole all’ombra di Croce, la Divina Commedia è precisamente questo, un romanzo teologico-politico, il quale esige, proprio per essere compreso nel suo valore di poesia, non una lettura lirica, al modo appunto crociano, ma una lettura narrativa. E soltanto così, come romanzo, la Divina Commedia e restituibile al suo autentico significato espressivo e ideologico, al suo senso profetico, profeticamente impegnato, fuori da ogni facile neutralizzazione estetica, da ogni fruizione dimidiata e antologica.

E tuttavia il panstoricismo del Sanguineti, per il suo rimanere impigliato nello strato stilistico, per il suo esclusivo interesse alla condotta e alle abitudini linguistiche del poema, lascia il desiderio di un esame più completo e articolato, non disdegnoso di attingere alle matrici culturali e ai moti d'animo die erano al principio delle scelte linguistiche e stilistiche e di tutta la difficile organizzazione del narrato dantesco. Opportunamente fa rilevare Giorgio Petrocchi:

Se distogliamo dalla nostra applicazione critica, magari in fase di semplice esegesi, gli elementi che ci vengono forniti dallo studio del pensiero filosofico e politico, e del tutto ci affidiamo all’analisi della selezione e della distribuzione dei materiali linguistici in un grandioso prospetto retorico o in un piccolo contesto grammaticale e sintattico, tagliamo netto nella più delicata commettitura dell’opera d'arte, e ci troviamo due tronconi che, per non comunicare tra di loro, si disarticolano e infine si disseccano ("Due anni di studi danteschi nel mondo," in Il Veltro, n. 2 [1967], 148-149).

II suo ammonimento, espresso nei riguardi della Stilkritik e dello strutturalismo, può avere, com'e intuitivo, una più vasta applicazione e funzionare da vero e proprio suggerimento di metodo critico, sia pure in una formulazione generalissima. Senza dire che la stessa nozione sanguinetiana della "narrativita" ha i suoi lati deboli o comunque discutibili. Molto sottilmente obietta Gianfranco Contini: "La narrativa suppone o l’imprevedibilità gratuita dell'evento o la condanna deterministica alia verifica, estinta la speranza: per Dante i dadi sono stati buttati…" ("Un'interpretazione di Dante," in Paragone, XVI, No. 188 [ottobre 1965], p. 34).
Escludendo che la Commedia possa tenersi per opera narrativa il Contini, nell’articolo sopra citato, propone di adeguarne la lettura a un registro di "memoria," puntando sul fortissimo potere fantastico-verbale del testo dantesco, sulla sua "traducibilità" da un sistema all'altro di cultura. Né per questo egli crede di avere attentato alia maestà della filologia. "Se la memoria consente una ricostruzione ben tassellata del testo dantesco, in cui tutti i passi rientrano nell'ordine assegnato, ma al tempo stesso conclamante novità, essa e un oggetto necessario della filologia" (p. 7).
A quel modo con cui Dante sentiva la classicità dei suoi maestri (del "suo" Virgilio in particolare) in funzione del loro potenziale di memorabilità, della loro "citabilità," e a quel modo con cui sulla memoria di se stesso regolava la sua gestione verbale e melodica, i suoi ritmi, le sue figure, i suoi stilemi, allo stesso modo si consegna a noi più per una tradizione idealmente verbale che scritta (con echi ritmico-timbrici già nel Petrarca), senza peraltro che ciò implichi la smentita di una sua radicale storicità e di un suo concreto realismo di fondo (geografico, naturalistico, passionale e intellettuale), capace di estendersi tra i poli estremi del comico e del tragico, del grottesco e del sublime, e di sfruttare l'intera gamma di un prodigioso pluralismo linguistico.
La necessita di lasciare Dante al suo tempo, che appare ormai il terreno d'incontro dei critici di più varia estrazione ideologica, è avvertita anche da Cesare Garboli ("Come leggere Dante," in Paragone, XVI, No. 184 [giugno 1965], 8-41). Riferendosi all'ottimo commento del Momigliano egli scrive argutamente:

Non c’è nulla da imputare al commento: il Momigliano era un lettore d'eccezione. Si prova invece una impressione curiosa, paradossale: contemporaneizzando Dante, ravvicinandolo a modi di sentire, pensare, leggere, per noi abituali, lo perdiamo di vista; lasciandolo alle sue rive medievali, tra i suoi gironi, i suoi geroglifici, i suoi mostri simbolici, tra voli da cielo a cielo e figurazioni grottesche, lo riabbiamo improvvisamente tra i piedi, lo sentiamo misteriosamente onniveggente e fratello (pp. 14-15).

Ed è osservazione del tutto accettabile. Ma la conclusione inaspettata e sconcertante a cui il critico perviene segna il limite interno della sua impostazione e lascia indovinare il fuoco nel quale si concentra la sua segreta visuale:

II fatto è che la Commedia, proprio il poema di Dante, così com'e, ha tutta l'aria di essere - mi si permetta - un cascame, un prodotto caduto da una personalità più fatale che volitiva, costruttrice, un prodotto, si direbbe addirittura non voluto. Come potrebbe essere, la Commedia, un fatto dello spirito così perfetto, così reale, una totalità, un universo, quel cosmo che vive così solamente e prodigiosamente di se stesso, se non fosse in qualche modo una scoria, una reliquia, il puro rimasto di un 'altra impresa, il risultato di un coacervo di altre voglie? (pp. 35-36).

L'assoluto oggettivismo, l’antiestetismo integrate di Dante, si spingerebbe, insomma, secondo il Garboli, sino allo sdegno per il titolo stesso di poeta, rimanendo concentrato in una ossessione di natura esclusivamente tecnica, di funzionalità linguistica.
Molto rumore, per la notorietà dell'autore, ha provocato un articolo di Pier Paolo Pasolini ("La volontà di Dante a essere poeta," in Paragone, XVI, No. 190 [dicembre 1965], 57-71) che si ricollega in parte alle tesi del Garboli in parte, ma molto sommariamente, ad alcune notazioni stilistiche del Contini. II romanziere e poeta e regista, vestiti i panni del critico, vi sostiene che il poema dantesco sia caratterizzato da una duplicità contrastante a costante di motivi, da un doppio grado strutturale, ideologico, ma soprattutto linguistico, dal momento che i personaggi appartenenti alia stessa classe sociale di Dante (una élite borghese e intellettuale) parlano il suo stesso linguaggio, mentre i personaggi provenienti da altri livelli sociali si qualificano, dal punto di vista della lingua, attraverso il discorso indiretto libero, con un processo mimetico che non rifugge dall'uso di un parlare da periferia o da quartiere malfamato. Dal che il Pasolini deduce che in Dante fosse "una coscienza corporativistica neirambito del comune fiorentino." Non importa qui passare in rassegna le altre distinzioni individuate dal Pasolini nella Commedia: la sua conclusione è che la sintesi fra i due ordini di motivi non avviene mai nel poema in seguito a un preordinato disegno costruttivo, e che "la volontà di Dante a essere poeta" si riscontra necessariamente (se pure esiste) in una irrazionale, e quindi misteriosa, operazione per cui i postulati teologali vengono riespressi nei termini di un linguaggio che ha in se la sua giustificazione e la sua verità, ed è da chiamarsi quindi laico.
A Pasolini ha immediatamente risposto Cesare Segre ("La volontà di Pasolini 'a’ essere dantista," stesso numero di Paragone, pp. 80-84) dimostrando la superficialità e inconsistenza del suo discorso critico, l'uso "anarchico e mistificatorio" della terminologia tecnica (come nel caso del discorso indiretto libero, del plurilinguismo e monolinguismo dantesco), gli anacronismi di ordine sociologico (specie in riferimento all’arbitraria classificazione degli ambienti sociali nella Firenze trecentesca), l'inesatta valutazione dello stile "comico," il quale risponde a una esigenza non certo sociologica, di mimesi realistica nel grado stilistico-verbale, ma escatologica. Né è vero d'altra parte, che i diversi piani del racconto non si combinino e non si fondano mai tra loro, e non diano, in tale accordo, alti esiti di poesia; di poesia, occorre dirlo, consapevole e voluta: "Di essere poeta, Dante ha espresso la volontà e la coscienza a voce chiara e alta" (p. 84).
Potrebbe sembrare che per un momento ci siamo allontanati dal tema centrale di questo nostro discorso. In verità la polemica suscitata dal Pasolini investe essa stessa il problema della lettura dantesca, come lo investono tutte le discussioni sull'arte del nostro massimo autore, in qualsiasi direzione siano orientate. Ma torniamo al nocciolo della questione. II timore di una degustazione lirica e frammentaria, il timore, in altre parole, di passare per crociani, ha convogliato per lo più gli sforzi ermeneutici dei recenti lettori sulla via della assoluta medievalità di Dante. II che non può che trovarci consenzienti. Dante appartiene al medioevo e del medioevo è espressione, e però la ricostruzione della sua cultura, l'anamnesi precisa e circostanziata delle sue letture, la rassegna dei suoi incontri e dei suoi dissensi con i maggiori esponenti dei circoli intellettuali a lui contemporanei, la qualificazione del suo sentimento religioso, del tipo di rapporto da lui intessuto con gli uomini e con Dio, col relativo e con l’assoluto, la discoperta dei suoi gusti letterari, della sua sensibilità linguistica, tutto questo ha una insostituibile funzione, costituisce un necessario punto di passaggio per tutti coloro che intendono studiarlo in modo serio. Tuttavia quelle indagini non esauriscono, da sole, il mandato critico nei confronti della poesia dantesca. Non v'è alcun dubbio che in un giudizio, anche in un giudizio di poesia, la prima operazione da compiere h di fissare bene l’oggetto da giudicare, di considerarlo in tutte le sue caratteristiche, nella sua realtà, nei suoi nodi problematici, nel suo esatto colore storico. Pertanto lo stesso scrupolo con cui il filologo si adopera a restaurare il testo originario andrà certamente applicato nel definire la sostanza dell'intero concepimento quale si concretò nella coscienza dell'autore, in certe precise coordinate di gusto e in un preciso ambiente storico-culturale. Ma ciò non basta.
Abbiamo già detto quanto sia improduttiva una pura ricerca di strutture linguistiche, scarsamente o per nulla attenta al "suco" dei concetti. In modo analogo, come la lettura per frammenti lirici può essere (e molte volte è) deformativa della poesia dantesca, così risulta deformativa una lettura annegata e dispersa in una folla di dati eruditi e di riferimenti a tutte le biblioteche classiche e medievali. Nell'un caso e nell'altro Dante ci sfugge, e il senso autentico della sua parola, della sua sintesi espressiva, viene frainteso. Il problema della polisemia non si risolve decurtandolo di una dei suoi termini, eleggendo a protagonista del contesto o il significante, con l’aureola tanto spesso gratuita delle suggestioni sentimentali, o il significato con l’intrico delle sue ragioni pratiche e dei suoi occulti messaggi. Se l'unione della base narrativa e istoriale, diciamo pure, in termini crudi, del contenuto letterale, con un secondo ordine di valori avviene in Dante per una operazione solo intellettuale o sulla spinta di certe abitudini di linguaggio proprie dell'epoca, per cui un certo significato si accoppiava fulmineamente con un certo significante, senza sforzo o intervento di riflessione, allora la Commedia è da vedere alla stregua di un libro cifrato, e nessuna industria di commentatore e nessuna scaltrezza di erudito potrà darcene la chiave. Essa rimarrà, almeno come poesia, definitivamente perduta per l'uomo moderno.
Se invece il rapporto tra segno e verità è di tipo poetico, ossia necessario, allora esso si offre a noi come ancora recuperabile, al di la delle mode, appunto perché generatosi a un livello di ragioni non contingenti. Che di tal natura sia la sintesi dantesca appare confermato con sufficiente approssimazione scientifica da una celebre pagina del Convivio (II, i, 8-15) ove è fermamente sostenuto il primato del senso letterale die sempre "dee andare innanzi, si come quello ne la cui sentenza li altri sono inchiusi, e senza lo quale sarebbe impossible ed inrazionale intendere a li altri, e massimamente a lo allegorico." Chi pronuncia questo avvertimento (accompagnandolo con argomentazioni stringenti e significative) tiene l’occhio su di un modo di poesia immune dall'arbitrarietà del secondo senso, su di un non labile e trasmutabile collegamento della lettera col significato, su di un reciproco avvaloramento del sensibile e dell'astratto nel punto in cui la figura li richiama l'uno all'altro e li rivela insieme.
Dante avverte, in conformità col rinnovato clima spirituale in cui vive, l’importanza della realtà, dell'umanità, della natura, delle cose. Ha comune con gli artisti del suo tempo la tendenza a condensare i contenuti spirituali in forme vigorose e sensibili, il gusto di una "visibilità" fenomenica dei valori trascendenti. Il linguaggio poetico gli dava modo di assorbire le verità dottrinali negli aspetti e nello spazio della realtà, senza sacrificare l'unità del risultato artistico, in quanto ogni senso e "inchiuso" nella lettera e non può che svilupparsi, per sua virtù dinamica, dalla lettera stessa.
Questo vuol dire, col dovuto rispetto per la filologia e per le scienze storiche, che la lettura di Dante può essere "moderna," come è "moderna" la lettura di ogni vera poesia, che sempre sa trasferire a noi il suo mondo e parlare un linguaggio a noi intelligibile. Il simbolismo dantesco e di egual lega, nella stragrande maggioranza dei casi, al simbolismo istituzionale del parlar poetico in quanto tale. Le fini e documentatissime analisi di Antonino Pagliaro hanno ormai provato che la volontà criptografica o ermetica è lontanissima dagl’intendimenti danteschi: "Un canone dell'esegesi dantesca da tener presente in primo luogo è, dunque, che il poeta vuole esprimersi con la maggiore chiarezza per quanto gli e consentito dalle necessita e limitazioni intrinseche al linguaggio poetico" ("Aspetti dell'esegesi," nel volume Ulisse, Ricerche semantiche sulla Divina Commedia, Messina-Firenze: D'Anna, 1966, Tomo II, pp. 753-754; nello stesso volume e tomo vedi anche i capitoli "Simbolo e allegoria" e "II linguaggio poetico").
Perfino le allegorie meno decifrabili rispondono quasi sempre a una ragion d'arte, valgono cioè per il senso di indeterminatezza e di mistero che le avvolge e che Dante vuole comunicare al lettore per intensificare in certi momenti la suggestione profetica del dettato o indicare "una certa direzione di pensiero o di sentimenti." Sono quindi, sotto il profilo poetico, assai efficaci ed espressive, e dicono tutto quello che dovevano dire.
Umberto Bosco, a cui appartengono le parole qui sopra citate (cfr. Il canto di Capaneo e del veglio, Firenze: Le Monnier, 1967), già dal 1951 ha richiamato l’attenzione degli studiosi sulla concretezza e plasticità del dire dantesco ("Tendenza al concreto e allegorismo nell'espressione poetica medievale," in Atti del congresso internazionale di poesia e di filologia per il VII centenario delta poesia e delta lingua italiana, Palermo: Palumbo, 1953; ora in Dante vicino, Caltanissetta-Roma: Sciascia, 1966), oltre che sul valore allusivo e vagamente suggestivo delle figurazioni allegoriche nella Commedia. Nei suoi scritti ha più di una volta messo in primo piano quella volontà poetica che rappresenta il fuoco in cui si disciolgono e si fondono gl’immensi materiali dottrinari, teologici, morali, la tecnica e la retorica di Dante.
Conoscere Dante quale effettivamente fu, Dante uomo immerso nella trama viva del suo tempo e della sua vita di passione e di studio, significa per il Bosco impadronirsi dello strumento più idoneo a schiudere il forziere della sua poesia. Nell’introduzione al citato volume Dante vicino (dove ha raccolto i suoi saggi di argomento dantesco) il critico dichiara: "Per fare una considerazione di metodologia generale, forse questi studi potranno valere come un tentativo di recupero della biografia in sede della comprensione della poesia" (p. 11). Ma pur con siffatte premesse, anzi proprio per siffatte premesse, egli si dispone a cogliere l’aspetto perenne di quella poesia e a condurre le sue letture in un continuo rapporto del testo antico col tempo presente: Dante vicino è appunto Dante poeta, Dante che parla a noi e si accompagna al nostro cammino:

Scolaro di Cesare de Lollis e di Vittorio Rossi, non ho aspettato davvero gli ultimi tempi per rendermi conto che ogni poesia nasce in un terreno storico che e necessario individuare; si avvale di peculiari mezzi linguistici di cui bisogna avere precisa coscienza; si propone certi fini letterari, obbedisce a un certo gusto che debbono essere sempre tenuti presenti. E tuttavia ho sempre creduto e continuo a credere che il critico, dopo aver indagato su tutto ciò, debba, se ne è capace, sentire e illustrare la perennità della poesia: con riferimento, dunque, al tempo in cui egli critico vive (p. 10).

Date: 2021-12-22