“Allegoria dei poeti” o “allegoria dei teologi”. Sul carattere dell'allegoria nella Commedia di Dante [Leonardo Cecchini]

Dati bibliografici

Autore: Leonardo Cecchini

Tratto da: Atti del V Congresso degli Italianisti Scandinavi, Bergen, 25-27 giugno 1998

Editore: Universitetet i Bergen

Anno: 2000

Pagine: 33-43

Definire il carattere dell'allegoria del poema dantesco è sempre stato uno degli obbiettivi principali della critica. In che cosa consiste la differenza, percepibile immediatamente, tra l'allegoria della Commedia e quella di altri poemi allegorico-didascalici medievali? Che tipo di allegoria aveva in mente Dante per il suo poema?

In questi ultimi cinquant'anni, in opposizione alla nota riduzione crociana dell'allegoria del poema a "struttura", semplice impalcatura dottrinale da separare dalla "poesia", molti valenti studiosi di Dante, a partire da Erich Auerbach, hanno rivendicato la centralità dell'allegoria e dimostrato la sua importanza per un'interpretazione unitaria del poema. Tuttavia, se si confrontano tra di loro le interpretazioni più accreditate tra gli studiosi, non mi sembra che si possa dire che il problema di quale sia la struttura allegorica della Commedia sia stato risolto una volta per tutte.

Questo scritto vuole essere una modesta proposta per la soluzione di questo problema. Dapprima si farà una sintetica presentazione del concetto di allegoria, la cui importanza per il mondo medievale è venuta sempre più chiarendosi dal dopoguerra in poi. Seguirà poi un'esposizione dei principali luoghi in cui Dante tratta teoricamente del problema (si tratta essenzialmente di alcuni passi del Convivio e della controversa Epistola XIII), per giungere infine a schizzare una concezione dell'allegoria del poema che superi la dicotomia, in cui sembra ancora dibattersi la critica dantesca, tra i fautori dell’"allegoria dei teologi" e quelli dell’"allegoria dei poeti".

1. L’allegoria nel Medioevo

Il Medioevo ereditò dall'Antichità due diversi tipi di allegoria; una, di natura espressiva e formale e di origine pagana che potremmo chiamare allegoria retorica e l'altra, di natura ermeneutica e di origine cristiana e biblica, che potremmo chiamare allegoria esegetica e che alcuni, per distinguerla dalla prima, propongono di chiamare allegoresi. L'allegoria (gr. agoureuein dire + allei, altro) può essere definita a un livello più generalmente semiotico come un tropo, o una tecnica letteraria, afferente alla metafora, che giunge all'astratto passando attraverso il concreto. Tutte le definizioni antiche e medievali collegano infatti l'allegoria alla metafora. Quintiliano nel De Institutione oratoria definisce l'allegoria "ali ud verbis, aliud sensu ostendit" (indicare una cosa con le parole e un'altra con le idee sottintese), la fa risultare da "continuatis translationibus" (una serie ininterrotta di metafore).Tuttavia secondo Quintiliano, l'allegoria può anche non contenere alcuna metafora, essere composta di parole da usare tutte in senso proprio, e tuttavia raffigurare qualcos'altro, come nel passo delle Bucoliche in cui si parla di Menalca (hoc enim loco praeter nomen cetera propriis decisa sunt verbis, verum non pastor Menalcas, sed Vergilius est intellegendus).

Come ben si vede da questo esempio, la definizione antica (e poi medievale) di allegoria è tanto larga da prestarsi a quasi tutte le varietà dell'espressione figurata e comunque anche all'espressione simbolica, tanto è vero che nel Medioevo (a partire dal VII-VIII sec.) il termine veniva spesso usato per definire in generale tutti i tropi, diventando in un certo senso sinonimo di retorica. Si usa ricondurre all'allegoria retorica anche la personificazione che consiste nel raffigurare concetti o entità astratte come figure umane, animali o oggetti; oppure le "umanizzazioni" popolari e colte di animali nelle fiabe, favole, ecc.

Nonostante l'enorme utilizzazione nella letteratura tardo-antica e medievale della personificazione e dell'allegoria retorica, un ruolo di gran lunga più importante per la cultura medievale è giocato dall'allegoria esegetica o allegoresi. Questo procedimento ermeneutico (trovare nel testo, oltre il senso letterale, un senso nascosto) sembra anzi essere intimamente legato alla mentalità medievale, sua peculiare forma mentis. Esso si iscrive nel quadro di corrispondenze e di analogie tra le cose e le parole di un mondo ideologicamente compatto, unificato e finalistico. Per una mentalità per la quale la realtà terrena è vista come inautentica rispetto all'oltremondo spirituale e alla vita eterna, la natura e il mondo sono i segni con cui Dio ci parla dei beni soprannaturali e dei passi da compiere per acquisirli. Dio ha scritto di suo pugno i due libri attraverso i quali egli si rivela all'uomo: la Bibbia e l'universo. L’allegoresi diventa dunque lo strumento privilegiato attraverso cui è possibile cogliere la presenza della volontà divina nel mondo terreno.

Tuttavia l'origine dell'allegoresi come procedimento ermeneutico risale all'antichità. A partire da Pitagora diverse scuole filosofiche cominciarono a interpretare allegoricamente Omero e i miti greci attribuendo loro significati morali-mistici. In questo modo si indeboliva il significato del livello letterale del testo, considerato un semplice travestimento di una verità spirituale sottostante nascosta. Al momento dell'incontro della cultura ellenica con quella ebraica, anche le storie del Vecchio Testamento furono sottoposte ad un'interpretazione allegorica (platonizzante) nel tentativo di dare una spiegazione dei loro molti antropomorfismi accettabile alla mentalità speculativa greca. Così, a partire dall'antichità, sotto il comune termine di allegoria furono confusi insieme due procedimenti, l'allegoria retorica e quella esegetica (allegoresi), complementari sì, ma tuttavia assai diversi. In un caso si tratta di un modo di esprimersi e nell'altro di un modo di capire, di un procedimento retorico e di un atteggiamento ermeneutico.

Nell'allegoresi cristiana si sviluppò ben presto un conflitto tra due tendenze: una più tesa ad un'interpretazione allegorico-morale e l'altra più ad una storico-realistica del Vecchio Testamento; un contrasto tra chi svolgeva in senso spirituale e mistico il contenuto delle Sacre Scritture e tendeva a velame in qualche modo il carattere storico e chi invece voleva conservarne la piena storicità pur additandone i significati profondi. I primi germi di questa seconda concezione si trovano già in Paolo che usa, per definire il rapporto tra i due livelli, la parola greca typos, mentre il termine latino, usato poi in seguito dai Padri della Chiesa, è figura. In questo tipo di allegoresi "figurale" il senso letterale del testo non è fittizio, ma storicamente vero e il sovrasenso (chiamiamolo il significato "allegorico") non significa un'entità o qualità astratta, ma è anch'esso concretamente reale e storico. Tuttavia il Medioevo non faceva distinzione tra i due procedimenti (e tra questi e l'allegoria retorica) che erano chiamati, anche al tempo di Dante, ambedue "allegoria". Semmai si distingueva tra allegoria in factis e allegoria in verbis.

L'allegoria in factis è la forma di allegoresi - cristiana e biblica - dove il rapporto tra prefigurante e prefigurato non è di tipo retorico, bensì ontologico. Non è la parola dell'autore del Vecchio Testamento, in quanto parola, che va letta come dotata di soprasenso, ma sono gli eventi stessi che sono stati predisposti da Dio per agire come figure del Nuovo Testamento. All'interno dell'allegoria in factis - cioè quella cristiana e biblica - i Padri della Chiesa elaborano quella che diventerà poi nel corso del Medioevo il metodo tradizionale di interpretazione delle Sacre Scritture: la dottrina dei quattro livelli delle Scritture. Secondo questa dottrina nella Bibbia, opera ispirata da Dio, sotto la superficie delle cose (res) e degli eventi (historia) presentati dal senso letterale, Dio ha inserito altri tre significati (signa): l'allegorico o tipologico-figurale (che si riferisce a Cristo); il morale o tropologico e infine l'anagogico (che si riferisce alle cose eterne). L'allegoria in verbis invece è applicabile a scritture non sacre ed è un procedimento ermeneutico che si basa su un rapporto di tipo metaforico tra figurante e figurato. Essa non ha la stessa complessità di significazione che caratterizza i due "libri" di Dio: la Bibbia e l'universo. Il senso letterale dei testi tramandati dalla tradizione classica pagana, dato che è pura finzione o invenzione, è di scarso valore; mentre al senso figurato si attribuiva solo un valore morale.

Tuttavia si ammetteva che anche i testi biblici, pur ispirati da Dio, potessero essere in tutto o in parti poetici, cioè utilizzassero procedimenti retorici e finzioni poetiche, e che quindi potessero non rispondere a verità a livello del senso letterale. Per esempio si ammetteva che un'espressione come "il braccio di Dio" non fosse vera a livello letterale, ma solo a livello figurato (il braccio di Dio= la potenza di Dio). In questi casi si parla di sensus parabolicus. Ma, data questa vicinanza del parabolico (nella Bibbia) con il metaforico (nei testi poetici), si era andata affermando nel Medioevo la concezione che attribuiva anche al poeta la capacità di esprimere verità sapientali e morali di carattere mitico-religioso: il poeta theologus. Non solo ma si era andata anche affermando la pratica di interpretare anche i poeti pagani come portatori di una tipologia, e quindi rivelatori per sovrasenso di verità, di cui essi non sapevano nulla. L'esempio più noto è la cristianizzazione della figura di Virgilio attuata sulla base della IV Ecloga interpretata come annuncio della nascita di Cristo.

Per riassumere: durante la tarda antichità e il Medioevo si riunirono e spesso si confusero insieme sotto il nome comune di allegoria, oltre alla personificazione e allegoria retorica, due diversi tipi di interpretazione allegorica, una applicabile ai testi biblici e l'altra ai testi poetici (il che voleva dire al corpus della letteratura classica). Inoltre si era andato progressivamente affermando l'idea che anche alcuni testi profani potessero essere letti, almeno in parte, nel senso dell'allegoria biblica. Si venne così lentamente ma progressivamente diffondendosi la convinzione che ogni scrittura umana, cristiana o pagana, fosse interpretabile. Soprattutto i commentatori biblici, ispirati dalla pratica dei loro colleghi laici, cominciarono ad interessarsi ai problemi della testualità (i diversi modi tractandi e dicendi dei testi sacri) e a quelli relativi all'autore, al genere e allo stile (ogni autore biblico ha espresso il messaggio divino secondo la propria personalità). Insomma si venne attuando un avvicinamento, nel comune interesse per il livello letterale, tra esegesi biblica e secolare. Questa del resto aveva già preso in considerazione l'ipotesi che l'immaginazione poetica potesse avere una modalità conoscitiva in sé e che non si limitasse ad essere un pretesto per nascondere un significato allegorico oppure un semplice ornamento per renderlo più piacevole. Naturalmente, anche se in teoria era accettato che ogni scrittura fosse aperta all'interpretazione, ancora alla fine del Duecento solo le opere scritte in latino ne erano considerate degne e l'idea che questa fosse applicabile anche a quelle scritte in volgare faceva fatica ad affermarsi. È merito di Dante aver rivendicato energicamente la legittimità di un'interpretazione allegorica anche di testi volgari.

2. La trattazione dell’allegoria nel Convivo

Dante espone la sua teoria dell'allegoria principalmente in due scritti: nel Convivio e nell'Epistola a Cangrande che è in realtà un'introduzione alla lettura della Commedia. Tuttavia già nella Vita nuova ci sono alcune indicazioni interessanti riguardo a come Dante affronta il problema dell'allegoria. Accanto a procedimenti allegorici tradizionali come la personificazione (Amore rappresentato in forme antropomorfiche), nella Vita nuova operano anche procedimenti analogico-simbolici o che comunque si possono far risalire a una sorta di allegoria in factis. Non solo, ma a differenza delle canzoni dottrinali e del Convivio, dove la "donna gentile" è dichiaratamente un'allegoria (personificazione) della filosofia, nella Vita nuova Beatrice acquista un significato solo se la si legge contemporaneamente come personaggio storico e "figura" di Cristo.

Tuttavia nella fase successiva, quella appunto delle canzoni "per la donna gentile", Dante abbandona questo tipo di procedimento e opta di nuovo per l'artificio della personificazione. Usando la poesia d'amore come veste letterale e la personificazione, Dante poteva superare il pregiudizio tipicamente medievale che la poesia volgare non fosse adatta a trattare temi filosofico-dottrinali e non amorosi. Sulla base delle esperienze delle canzoni allegoriche Dante costruisce la sua più impegnata definizione dell'allegoria nel Convivio, scritto appunto come commento che sveli il significato "allegorico" di alcune canzoni:

"E con ciò sia cosa che la vera intenzione mia fosse altra che quella che di fuori mostrano le canzoni predette, per allegorica esposizione quelle intendo mostrare, appresso la litterale istoria ragionata; sì che una ragione e l'altra darà sapore a coloro che a questa cena sono convitati."(Convivio, I, I, 18)

Dante instaura qui una gerarchia fra i due livelli di significato, in quanto dotato di verità è solo quello nascosto ("allegorica esposizione") rispetto alla "litterale historia", ma non esclude che anche il primo abbia una sua autonoma capacità di dilettare ("sapore"). Il livello letterale però è indubbiamente quello della finzione e quindi si deve volgere: "la parola fittizia di quello ch'ella suona in quello ch'ella 'ntende" (Convivio, II, XII, 10).
Ma i passi del Convivio più importanti sono i famosi passi del secondo trattato dedicati alla teoria dei quattro sensi delle scritture. Qui egli dichiara che:

"le scritture si possono intendere e deonsi esponere massimamente per quattro sensi. L'uno si chiama litterale [e questo è quello che non va più oltre che la lettera de le parole fittizie, sì come ne le favole de li poeti. L'altro si chiama allegorico] e questo è quello che si nasconde sotto il manto di queste favole, ed è una veritade ascosa sotto bella menzogna; [...] Il terzo senso si chiama morale e questo è quello che li lettori deono interamente andare appostando per le scritture, ad utilitade di loro e di loro discendenti; [...] Lo quarto senso si chiama anagogico, cioè sovrasenso; e questo è quando spiritualmente si pone una scrittura la quale ancora [sia vera] eziandio nel senso litterale, per le cose significate significa delle superne cose de l'ettemal gloria,..." (Convivio, II, I, 2)

Qui il termine allegorico è usato nel suo valore specifico (cioè definisce soltanto un senso, il secondo, dei quattro), mentre altrove, come abbiamo visto, è usato in senso generale in opposizione a "litterale" a coprire tutti e tre i sensi nascosti, come era del resto comune al suo tempo. Per esemplificare ciascuno dei tre secondi sensi, Dante cita un testo esemplare. Si tratta dell'episodio di Orfeo dalle Metamorfosi di Ovidio per il senso allegorico (Metamorf. XI, 1-2), dell'episodio della trasfigurazione di Cristo nel Vangelo per il senso morale e del salmo 113 In exitu Israel e dell'episodio della fuga degli ebrei dall'Egitto per quello anagogico. La definizione dei primi due sensi (letterale e allegorico), con il collegato esempio di Orfeo per il senso allegorico, sembrano rientrare nel procedimento dell'allegoria in verbis applicabile ai testi poetici. Tuttavia Dante è cosciente che questi due sensi in altri testi possono essere intesi in un altro modo e infatti dopo l'esempio del secondo sovrasenso (l'allegorico) e prima di introdurre gli ultimi due sensi con i loro esempi aggiunge:

"Veramente li teologi questo senso prendono altrimenti che li poeti; ma però che mia intenzione è qui lo modo de li poeti seguitare, prendo lo senso allegorico secondo che per li poeti è usato." (Convivio, II, I, 4)

Si pongono qui una serie di problemi. Se Dante, come lui stesso ci dichiara, intende seguire i procedimenti dell'allegoria in verbis, perché presentare con tanto di esempi la dottrina dei quattro sensi tipica dell'allegoria in factis? Inoltre sembra contradditorio che Dante, dopo aver appena dichiarato di volere seguire il modo dei poeti, nell'esemplificare il terzo senso, tragga l'esempio dai Vangeli. Anche la spiegazione del significato dell'esempio del quarto senso sembra, essere più pertinente a coprire il senso morale-tropologico che l'anagogico. A molti la concezione dell'allegoria esposta qui da Dante è sembrata contradditoria e gratuito introdurre un'allegoresi di tipo biblico in un contesto chiaramente letterario. In realtà, come ha notato Robert Hollander, Dante qui, se da una parte dichiara esplicitamente quali modi significandi utilizzerà nel Convivio (e cioè l'allegoria dei poeti), dall'altra, introducendo il modello esegetico scritturale, sembra implicitamente affermare la possibilità per un poeta-critico medievale di applicare ad un testo non sacro (e in volgare!) anche il procedimento allegorico riservato ai testi scritturali (l'allegoria dei teologi). Dante sembra qui impegnato in un'opera non tentata da alcuno: la sistemazione in uno schema unitario dell'intero campo dell'allegoria, attraverso la combinazione di un modello retorico con un modello scritturale. Il fatto che metta insieme esempi tratti da tre tipi diversi di scritture esemplari (poesia latina, Vecchio e Nuovo Testamento) sembra sottolineare questo fatto.

Inoltre, diversamente da come di solito si usa interpretare questo passaggio, Dante, stando alle esplicite indicazioni del testo, si riferisce al secondo senso e non al primo. Non è quindi corretto contrapporre nel senso letterale, come fanno molti, verità (quelle delle scritture sacre) a menzogna (quelle delle scritture poetiche), ma invece si tratta di decidere che valore Dante pensa sia possibile dare al significato trasmesso dal secondo senso ( quello allegorico); cioè se si tratti di verità di ordine sapienzale e dottrinale come quella dei poeti, oppure di una verità di ordine tipologico o figurale come quella cercata dai teologi ( e qui egli sembra optare per la prima).

L'eccezionalità del tentativo dantesco appare più chiara se si confronta la teorizzazione del Convivio con quella di Tommaso d'Aquino. Per Tommaso non si poteva parlare per i poeti di una vera scrittura allegorica (riservata solo ai testi ispirati da Dio), ma solo, come per le parti metaforiche della Bibbia, di un senso parabolico e quindi egli, nei testi poetici, allineava il primo senso (letterale) sul secondo, che per lui era il vero senso letterale (come nelle parabole). Dante è invece convinto dell'importanza del senso letterale come base per gli altri sensi (cfr. Convivio, II, I, 8 e sgg.), ma quello che soprattutto gli interessava, e che era messo in discussione dall'impostazione tomistica, era dimostrare l'eccellenza del discorso poetico, potenzialmente significante come il testo sacro a quattro livelli.

Solo in seguito, all'altezza del quarto trattato del Convivio, Dante prende in considerazione la possibilità di costruzioni allegoriche in cui il primo livello non tratti di "belle menzogne", ma di fatti realmente avvenuti e i cui personaggi siano personaggi storici. È il momento dell'incontro decisivo con Virgilio e dell'imporsi dell'esempio dell'Eneide (e della Farsalia), cioè di un testo poetico fondato sulla verità storica e insieme dotato di significati secondi. Forse è proprio per questo che il Convivio viene lasciato incompiuto; perché cominciava a farsi strada in Dante l'idea di un poema costruito su un tipo di allegoria che non fosse solo personificazione.

3. L’Epistola a Cangrande

La trattazione che della Commedia fa l'Epistola, allo stato attuale degli studi, non può con sicurezza essere attribuita a Dante. Il problema però non è tanto di natura filologica quanto più genericamente ermeneutico (il che non vuol dire che l'aspetto filologico, che del resto non sarà qui preso in considerazione, non sia importante). Il fatto è che l'Epistola è venuta ad occupare una posizione strategica in qualsiasi discorso critico sull'allegoria della Commedia con la conseguenza di rendere il problema della sua paternità discriminante per una lettura complessiva della Commedia. Si viene così a sviluppare un circolo vizioso: una certa prospettiva ermeneutica determina il giudizio di autenticità o meno dell'Epistola e questo giudizio serve poi a sostenere la correttezza e pertinenza della prospettiva di partenza.

In ogni caso, qualunque ne sia l'autore, l'Epistola non è e non vuole essere una trattazione teorica generale sull'allegoria, come per i passi del Convivio analizzati sopra, ma una semplice introduzione alla Commedia. L'autore inizia l'introduzione definendo la struttura semantica dell'opera come polisemica. La polisemia è data dalla contrapposizione di un significato che si ricava dalla lettera (qui habetur per litteram) e un altro significato dato dalle cose contenute nel senso letterale (qui habetur per significata per litteram). Viene poi precisato - come anche avveniva nel Convivio - che il secondo senso si suddivide in tre livelli: allegorico, morale e anagogico, e, come esempio della teoria dei quattro significati, viene utilizzato lo stesso salmo 113 che nel Convivio serviva a esemplificare il solo senso anagogico (Epistola XIII, 20-21).

Da notare che il senso allegorico, come è definito nell'Epistola, risponde in realtà al significato figurale-tipologico, perché, come sappiamo, nelle vicende storiche del Vecchio Testamento si leggono prefigurazioni di eventi che si sarebbero poi avverati con l'Incarnazione. Inoltre rispetto al Convivio il senso anagogico è qui spiegato più correttamente. Sembrerebbe insomma che l'autore dell'Epistola, a differenza del Convivio si situi saldamente nel solco della tradizionale esegesi teologica dell'allegoria. Tracciato lo schema, l'autore lo utilizza per decodificare i significati della Commedia ai due livelli di senso:

"Est ergo subiectum totius operis, litteraliter tantum aceepti, status animarum post mortem simpliciter sumptus; nam de ilio et circa illum totius operis versatur processus. Si vero accipiatur opus allegorice, subiectum est homo prout merenda et demerendo per arbitrii libertatem iustitie premiandi et punendi obnoxius est"

Questa definizione ha suscitato molte perplessità, dande vita a innumerevoli punti di vista critici soprattutto rispetto al significato del senso allegorico (ma anche riguardo al senso letterale, lo stato delle anime dopo la morte).

A me pare incontestabile che il senso allego alla Commedia ("l'uomo secondo che meritando e demeritando per la I soggetto alla giustizia del premio e del castigo") non sia assimilabile a quello allegorico-tipologico dello schema generale, ma semmai al terzo livello, quello del senso morale-tipologico. L'autore dell'Epistola non sembra potere o volere spiegare la complessità dei sensi allegorici del poema e riduce il senso allegorico al senso morale e quindi non va oltre un’allegoria dei poeti. Una conferma è data da quanto l'Epistola dice più sotto a proposito del fine e del genere dell'opera:

“finis totius et partis est removere viventes miserie et perducere ad statum felicitatis. Genus vero phylosophie to et parte proceditur, est morale negotium, sive ethica;”

Lo schema del Convivio, dove Dante si dimostra consapevole della differenza tra allegoria in verbis e in factis, pur con tutte le sue difficoltà, è più rigoroso. L'autore dell'Epistola non sembra essere conscio della differenza. Anche Charles S. Singleton, che invece usa il passo a sostegno della sua grandiosa interpretazione del poema nel solco dell'allegoria in factis, non sembra essere del tutto convinto dalla distinzione tra i due sensi fatta dall'Epistola se afferma che: "Dante's own division of it into two senses is very much open to question".

Pare difficile trovare conferma alla tesi del carattere teologico dell'allegoria del poema proprio in questo passo. La distinzione operata qui dall'Epistola sembra andare più nella direzione di una definizione della forma del poema come parabolica, e forse era a questo che pensava Bruno Nardi quando diceva che l'autore dell'Epistola "ripete, senza accorgersene, la stessa cosa".

E tuttavia è vero che nell'Epistola viene affermato chiaramente il carattere di verità del senso letterale: "litterali sivi historiali" (Epistola XIII, 22). Anche il passo relativo al prologo della terza cantica (§77-82) sembra andare nella stessa direzione. Per spiegare l'impossibilità dichiarata da Dante nel canto I del Paradiso di riferire quanto ha visto e per giustificare il suo ardimento a considerarsi degno di una tale visione, l'autore dell'Epistola riporta la testimonianza di una serie di auctoritates di grande prestigio nel campo delle visioni (si va da luoghi del Vecchio e Nuovo Testamento alla lettera di Paolo ai Corinzi, a passi di Agostino, a classici dell'esperienza visionaria come S. Bernardo e Riccardo di S. Vittore). Questi riferimenti, a mio avviso, non possono servire ad altro che a dimostrare l'intenzione di confermare come reale la visione e quindi il valore storico di quello che per l'Epistola è il senso letterale (lo stato delle anime dopo la morte). Da notare che nell'Epistola non viene sostenuta la verità dell'esperienza soggettiva del protagonista (il viaggio), ma la verità dell'oggetto della visione e quindi delle cose viste. L'Epistola a Cangrande dunque sembrerebbe confermare una lettura del poema come opera costruita attorno ad un'esperienza visionaria, ma non sembra portare prove decisive per determinare lo status allegorico complessivo del poema.

4. Conclusioni

Il problema è quello della corretta identificazione e definizione del senso letterale. Come è noto nella Commedia si trovano continue affermazioni da parte di Dante della verità di quanto sta narrando. La domanda da porsi è, per usare la formulazione di Teodolinda Barolini: "how are we to respond to the poet's insistance that he is telling the truth?" Si tratta cioè della costruzione da parte di Dante di un complesso sistema di artifici retorici per nascondere la fittività del testo oppure, ulteriore domanda a cui non possiamo rispondere ma su cui dobbiamo riflettere, Dante stesso ha creduto alla verità letterale di ciò che rivendica come verità letterale?

O si afferma che Dante abbia realmente pensato di aver fatto il viaggio in corpo e anima, oppure si ammette che la lettera del poema non rappresenta verità così come è racconto di fati! realmente accaduti la lettera di tutti (o quasi) i libri biblici. Non abbiamo nessuna indicazione di cosa Dante abbia creduto riguardo alla verità - verità nel caso per lui, non per noi - del viaggio in corpo e anima. È possibile invece affermare che Dante, sulla base delle molte e chiare indicazioni testuali del poema, abbia creduto (o abbia voluto farci credere) di aver avuto una visione ispirata da Dio del mondo dell'aldilà.

Se Dante non ha creduto alla verità del viaggio, l'allegoria del poema non può che essere di tipo poetico. La polisemia della Commedia non può essere uguale a quella del Vecchio Testamento perché, come è noto, nell'allegoresi vetero-testamentaria il secondo senso, quello allegorico o tipologico, non può che prefigurare fatti destinati ad avverarsi con l'incarnazione di Cristo. E questo non è possibile nella Commedia. La polisemia del poema non può neanche essere simile a quella del Nuovo Testamento perché nessun elemento del poema può essere considerato vero in sé e contemporaneamente allusivo ad eventi che si avvereranno nel corso della storia.

E però se si ammette il carattere poetico di tale allegoria, si deve stare attenti a non ridurre la lettera del poema a una semplice veste poetica, un fatto puramente retorico e formale. Così facendo sembra a me che si perda per strada o si riduca troppo drasticamente la forza del realismo della Commedia. Dall'analisi dei passi danteschi precedenti mi pare che sia prevalente in Dante un'attenzione alle potenzialità espressive e significanti delle cose fin dalla Vita nuova. Si tratta di andare in questa direzione e di definire le specifiche caratteristiche di un'allegoria poetica composta di significati "veri". Il poema dantesco infatti è un paradosso unico: "un ver c'ha faccia di menzogna" (lnf. XVI,124). Dove la menzogna della poesia è contenuta in una cornice profetica che ne garantisce la verità. Con le parole della Barolini: "the Commedia is a nonfalse errar, a ‘non falso errore’, not a fiction that pretends to be true but a fiction that IS true". Non esiste contraddizione tra l'essere ispirati da Dio e far uso del genio poetico. È da questo paradosso, costruito sull'urgenza della profezia, come aveva già visto l'Auerbach, che nasce la forza e la pregnanza del realismo dantesco.

Si tratta di considerare il significato letterale della Commedia come una costruzione dialettica di due momenti; uno costituito dai dati che sono "oggetto di apprendimento”, cioè la condizione dell'aldilà (lo stato delle anime dopo la morte), che può essere considerato vero anche nella lettera, in quanto frutto dell'esperienza visionaria di Dante, comunque vissuta. L'altro momento è quello costituito dal viaggio, esperienza d'eccezione di Dante e può essere vero solo in senso figurato. Ambedue questi momenti sono polisemici. Questa distinzione era ben presente al Singleton quando attribuiva a Dante l'intenzione di imitare i due "libri" di Dio e chiamava "simbolismo" l'imitazione della struttura del mondo reale (lo stato delle anime dopo la morte) e "allegoria" l'imitazione della struttura della Bibbia (il viaggio del pellegrino Dante).

I due momenti sono collegati, ma non vanno confusi insieme. Dato che è il secondo elemento, il viaggio, che costituisce l'intreccio della narrazione e il tema principale, la qualità complessiva dell'opera deve essere dedotta da questo. E quindi sono da considerare non veri tutti quegli elementi che hanno a che fare con il motivo del viaggio. Si tratta di muoversi lungo la linea inaugurata dal Singleton con il suo itinerarium mentis ad/in Deum. Il motivo del viaggio è infatti il figurante di un figurato allegorico: l'itinerario interiore nella mente e nella volontà del protagonista dalla presa di coscienza dell'errore, attraverso la riflessione sul bene e il male fino alla contemplazione di Dio. Si tratta di un itinerario contemplativo rappresentato in una forma che è riconducibile alla struttura della parabola. È tuttavia importante ribadire con forza il carattere di "unicità" del viaggio di Dante. Esso non può essere considerato solamente e semplicemente allegoria del viaggio di tutti i cristiani come afferma il Singleton. È invece analogo al viaggio di chi, come Enea o Paolo, è stato dotato dalla Grazia divina di una particolare missione. La famosa affermazione "Io non Enea, io non Paulo sono" (lnf. II,32) va intesa esattamente al contrario. Soggetto dell'itinerario infatti, come giustamente vide l'Auerbach, non è ogni singolo cristiano in astratto, ma l'individuo-Dante, esistenzialmente determinato. Se non si tiene presente questo fatto si perde insieme la dimensione profetica del poema e il carattere individuale e reale degli incontri di "quel" fiorentino, guelfo bianco, esule e poeta, ecc. con "quelle" anime. Questo non esclude che nella sua particolare vicenda come uomo, non si rispecchi anche quella di ogni cristiano e che egli non possa simboleggiare la cristianità senza guida e smarrita sulla terra, ma questi ulteriori significati ottenuti non devono impoverire il carattere unico della vicenda dell'uomo Dante. Riduttiva mi sembra perciò l'operazione di Singleton che nel riconoscere come secondo senso del poema soltanto la vicenda generale del pellegrinaggio terreno di ogni uomo, svaluta l'elemento realistico e profetico del viaggio, giungendo così ad una esegesi del poema di tipo morale e perdendo per strada il realismo e la poesia dantesca.

È invece possibile considerare vera e storica una parte cospicua del senso letterale, quello ascrivibile all'oggetto della visione (i tre regni dell'aldilà). Se Dante ha (creduto di aver) avuto, ispirato dallo Spirito Santo, una visione vera, veri ne sono gli oggetti d'apprendimento e vero è anche il messaggio profetico.

Come abbiamo visto precedentemente, Dante già nel secondo trattato del Convivio sosteneva implicitamente la possibilità di un quadruplice significato dei testi poetici e poi nel quarto trattato mostrava anche di ammettere la verità storica e insieme la possibilità allegorica delle narrazioni, come era semplificata in Virgilio e Lucano. Anche questo secondo momento della lettera del poema, la visione, andrà quindi visto come plurisignificante. È chiaro però che le anime dal momento in cui entrano in contatto con Dante e compiono gesti o esprimono enunciati che hanno valore in rapporto a lui, entrano a far parte del motivo del viaggio e quindi della finzione diventando così figuranti dell'allegoria poetica.

È una soluzione assolutamente nuova e originale quella a cui giunge Dante, che cerca di unire in una sintesi le due forme dell'allegoria medievale, la poetica e la teologica. Un tentativo che sembra andare controcorrente rispetto all'orientamento della cultura del tempo di Dante. A una lettura del mondo come insieme di fenomeni collegati tra di loro su un piano orizzontale, Dante oppone una visione più tradizionale, gerarchica e piramidale. In questo modo egli si oppone alla nuova cultura pur partecipandone. Alla sfera dell'immanente, viene attribuita pienezza di realtà, ma non autonomia. Essa è ancora subordinata alla sfera del trascendente. In questa prospettiva la sintesi delle allegorie era funzionale alla rappresentazione di un mondo orientato verso un punto che lo trascende, ma insieme dotato di un suo senso e di un suo valore.

Date: 2021-12-22