Allegoria - [Cahrles S. Singleton]

Dati bibliografici

Autore: Charles S. Singleton

Tratto da: Studi su Dante I. Introduzione alla Divina Commedia

Editore: Scalabrini, Napoli

Anno: 1961

Pagine: 23-45

Nella sua Epistola a Cangrande, ove spiega che il suo poema è «polisemos», e che l'argomento ne è duplice, Dante non fa cenno all'allegoria di un viaggio nella Commedia. Egli spiega i molti sensi e la duplicità dell'argomento piuttosto in riguardo a cose vedute al di là. L'argomento, egli dice, preso nel senso letterale, è lo «status animarum post mortem» [simpliciter sumptus]; mentre allegoricamente (per compendiare la lunga definizione che ce ne dà) è la Giustizia divina, come può vedersi nello stato delle anime dopo morte. A parer nostro, egli vuol dire questo: l'argomento letterale, così definito, indicherà un altro senso al di là di sé stesso nel modo che in effetti si può vedere mentre si legge il poema. Ecco Francesca e Paolo, per sempre senza pace, sbattuti da una bufera infernale. Questo è il fatto semplice e letterale, come è il loro stato dopo la morte. Ma nel fatto letterale possiamo contemplare la giustizia di Dio: perché il loro stato è una punizione, e dà testimonianza della ragione sufficiente e della sua giustizia. La passione di lussuria è essa stessa tale bufera; la pace le è per sempre negata. È conveniente, è giusto che la condizione dei lussuriosi dopo morte sia la condizione della lussuria stessa; così come in Paradiso, dove lo stato di coloro che sono in carità deve essere la condizione stessa della carità. E così dovunque: nell'emisfero di luce che cinge i pagani virtuosi nel Limbo, nell'eterno laceramento e squartamento dei seminatori di scismi, nelle cucite ciglia degli invidiosi, dovunque vengono contemplati e i giusti meriti dell'uomo e la giustizia di Dio. E questo non è addotto come giustificazione delle vie di Dio innanzi agli uomini. Qui non si tratta di nessuna difesa delle ragioni di Dio. Nel Suo volere queste cose sono cosi, e quella è la nostra pace, se non sempre la loro.
Così, a questo punto dell'Epistola, Dante bada ad una dimensione del poema per tutti i suoi lettori molto familiare e pregiata, la sua grande dimensione in altezza ed in profondità, una scala verticale in cui lo sguardo dei secoli volto a scrutare nell'intimo dell'anima umana ha trovato il modo di oggettivarsi in una visione: una visione cosi organicamente unitaria, che la stessa divisione in due sensi che Dante ne fa lascia tuttora molto adito alla discussione. Tuttavia tale è l'atteggiamento descrittivo della sua Epistola; e tale è per ora il nostro. Evidentemente, egli sperava che con tale divisione il nobile suo patrono e altri avrebbero potuto vedere per tal riguardo il suo argomento con maggior chiarezza. E noi speriamo oggi che il suo argomento, anche per altro riguardo, possa similmente essere meglio veduto e meglio compreso. Nonostante la terminologia tutta sua che Dante usa nell'Epistola, si può forse in certo modo rimediare alla prevalente e crescente confusione critica che s'aggroviglia intorno a tali faccende, qualora si sia d'accordo nel definire questo aspetto del poema, lo stato delle anime dopo morte, insieme con «l'altra» sua significazione, simbolismo piuttosto che allegoria. Se Dante, come Milton, avesse posto il suo poema semplicemente in termini di cose vedute e conosciute sotto l'ispirazione della Musa celeste, senza la narrazione di un viaggio diretto a Dio, e senza un protagonista che si muova come nostro posto di osservazione nell'interno della visione, potremmo ancora avere il suo duplice argomento, proprio come egli ce lo spiega nell'Epistola. In tal modo, per esempio, si vedrebbe Virgilio dimorare con i suoi compagni del Limbo nell'emisfero della luce, si vedrebbe Beatrice sedere con l'antica Rachele nella luce della gloria. Virgilio e Beatrice, in tal caso, esemplificherebbero il duplice argomento, come lo pone l'Epistola: il loro particolare stato dopo morte, e i meriti dell'uomo nella giustizia di Dio.
Ma Beatrice non resta al suo seggio, e Virgilio non rimane nel Limbo. E quando Beatrice si muove e viene a Virgilio nel Limbo, è da lui subito riconosciuta quale la conosceremo lungo lo svolgersi del poema:

O donna di virtù, sola per cui
l'umana spezie eccede ogni contento
di quel ciel c'ha minor li cerchi sui
lnf. II, 76-79

Beatrice era venuta per mandar Virgilio a salvare il suo amico dal pendio del Colle dove il cammino gli era impedito dalla Lupa. E da quanto Virgilio già nel primo canto ci assicura, sappiamo che il compito che ella avrà sarà di condurre il suo amico da quel punto verso l'alto, oltre cui Virgilio non può andare. Ma qui Virgilio la conosce subito come «guida», e non solo guida di questo solo uomo, poiché essa ed essa sola è quella donna per mezzo della quale l'umana spezie ascende.
La parte che ha Beatrice, di guida, e quindi il significato che ella acquista, eccede il viaggio che chiunque potrebbe compiere verso Dio. Ella ha una parte, nel viaggio dell'umana specie verso Dio, il che deve significare un viaggio da svolgersi qui, in questa vita. Così già, al principio del poema, nella espressione con cui Virgilio la riconosce, ci viene messo dinanzi un duplice viaggio in cui ella avrebbe una parte. Così un «viaggio» là, come «lo stato delle anime» là, può indicare un significato oltre sé stesso.
Ecco allora anche un'altra dimensione del poema, che nel poema stesso s'incontra fin dall'inizio. Se Dante ne ha detto poco nell'Epistola, è stato probabilmente perché poteva considerarla come data, più di quanto possiamo far noi; e anche perché soffermarsi sull'allegoria in tal senso avrebbe richiamato l'attenzione su un certo viandante al centro di tale argomento: e non è lodevole, egli ci dice altrove, parlare di se stesso. A un certo punto, verso la fine dell'Epistola, è ben vero, egli fa riferimento a coloro che possano revocare in dubbio e discutere la sua andata in Paradiso. Ma che costoro, egli dice, leggano certe opere di S. Agostino e di Riccardo da S. Vittore, e di S. Bernardo. Certo noi non siamo inclini a porre in dubbio la sua andata; ma se leggiamo queste opere che egli precisamente indica, vediamo subito che tutte trattano della possibilità di un viaggio verso Dio, anche nel corso di questa vita, un viaggio della mente e del cuore, una possibilità idealmente aperta alla specie umana. Senza chiamarla allegoria, Dante nell'Epistola addita qui il disegno di un duplice viaggio visibile nel suo poema.
Prendiamo Virgilio. Nessuno, nel poema, annuncia o dichiara il compito ch'egli ha di guida durante il duplice viaggio, come fa subito Virgilio per Beatrice; e tuttavia, il poema trova il mezzo per indicare la parte, così affine e cooperante, che egli vi svolge. Quando, per esempio, deve rimbrottare ed accusare Dante di essersi troppo attardato ad assistere alla volgare disputa fra Maestro Adamo e Sinone, egli dice:

e fa ragion ch'io ti sia sempre a lato,
se più avvien che fortuna t'accoglia
dove sien genti in simigliante piato.
lnf. XXX, 145-147

Non ci è possibile presumere che Virgilio intenda dire (o intenda solo dire) che ciò è probabile avvenga ancora colà nel corso di quel viaggio. Virgilio intende dire, naturalmente, nel viaggio di qui, nel viaggio della nostra vita alla quale Dante deve tornare. È qui che il viandante deve «far ragione» che in futuro Virgilio gli sia a lato. Così Virgilio, come Beatrice, ha una duplice parte come guida, in un viaggio aldilà, e in un viaggio qui in terra.
Ma prendiamo nota di cose ovvie. E questi sono, evidentemente, degli accenni che sebbene alludano ad un viaggio terreno, non dànno per se stessi chiara idea di cosa sia quel viaggio. Sono dei segni che indicano qualche schema dottrinario o filosofico, il quale, se non ci fossero altri accenni nel corso del poema, rimarrebbe del tutto estraneo all'opera. Ma al poema non è rimasto estraneo un più preciso schema di quel viaggio. Il poema lo reca entro di sé in tal maniera che quando ad esso accenna, può trovarsi a indicare un vero e proprio schema oggettivo all'interno della sua stessa struttura.
Come ciò accada possiamo osservarlo in quel punto dell'Inferno quando una corda aggroppata si lancia nell'abisso per chiamar Gerione fuori dall'ottavo cerchio; una corda che, ora ci vien detto, Dante portava come cintura:

Io avea una corda intorno cinta
e con essa pensai alcuna volta
prender la lonza alla pelle dipinta.
lnf. XVI, 106-108

Con tutta evidenza qui veniamo ricondotti indietro, fino ad un momento della scena iniziale del I canto del poema, quando il viandante, sulla buia costa del monte, aveva incontrato la lonza, la prima delle tre fiere a impedirgli colà il cammino. E se siamo giunti a scorgere (come è sperabile che ormai ci accada) che le tre fiere rappresentano le tre più ampie zone di peccato nell'Inferno, intravediamo un rapporto di corrispondenza fra il viaggio attraverso l'Inferno ed il viaggio come è presentato in quella prima scena. La lonza sta per la frode. E qui ora, proprio nel momento in cui stiamo per entrare nella zona della frode in Inferno, ci vien ricordato quell'altro momento di angoscia dinanzi alla fiera. A tale proposito vi sono altri particolari che a questo punto si potrebbero esaminare e discutere. Basti tuttavia questo per paradigma di come lo schema duplice di un viaggio si riveli attraverso l'Inferno.
Non c'è altro momento del viaggio al di là di questa vita che ci riporti alla scena del canto I dell'Inferno con minor probabilità di errore, di quanto fa il I canto del Purgatorio. Qui il viandante si recinge di nuovo, qui l'ascesa può alfi.ne aver inizio. È l'alba, e mentre si fa luce, si rivela il disegno di una scena che per diretto riflesso ci fa tornare alla situazione del primo canto del poema. Avvertiamo subito la evidente rassomiglianza. Domina in ambedue le scene il profilo di un monte: un monte su cui bisogna ascendere, perché là, alla vetta, in entrambi i casi, c'è la felicità e la pace. Ai suoi piedi e in basso nell'una scena c'è amara tenebra, una selva selvaggia e la via che mena all'Inferno; nell'altra, c'è l'Inferno medesimo che appena ora è stato lasciato alle spalle. È una montagna, su cui si deve salire, a darci il modo di un viaggio, verso l'alto o verso il basso, fra i due poli della luce e della tenebra.
Quando il poema interamente si è svolto, e possiamo restarne fuori per avere la visione compiuta di queste cose, la scena iniziale del Canto I dell'Inferno, ci rendiamo allora conto, raffigurava e presagiva, come meglio non potrebbe fare una singola scena, l'intero configurarsi del viaggio dell'aldilà. Vi è una ragione speciale per cui all'inizio del Purgatorio dovremmo avvertire con più chiarezza il riflesso della presenza di quella prima scena; perché nel I dell'Inferno, nel principale punto focale, un monte si erge così, come accade nel I del Purgatorio: un monte alla cui vetta (come più tardi apprenderemo) si trova la prima delle due mete. La via del Purgatorio è infatti centrale nel complesso del viaggio nell'aldilà, e tale è rappresentata nella prima scena. Le altre regioni, all'estremità del cammino, sono qui accennate, più che date in disegno: il Paradiso dalla luce che è su, l'Inferno dalla tenebra che è giù. Alcuni particolari della prima scena, non ben compresi al momento, riveleranno il proprio significato nel progredire del viaggio. Così, all'inizio, la cresta del monte è illuminata da un pianeta «che mena dritto altrui per ogni calle», e alla sommità della montagna del Purgatorio, nel viaggio aldilà, è Beatrice che viene a compiere il presagio, giungendo in figura di sole nascente.
Poco da stupirsi perciò se all'inizio del Purgatorio abbiamo la sensazione di ritornare in qualche modo ad un luogo e ad una via già familiari. Ed ecco i versi che ce lo dicono:

Noi andavam per lo solingo piano
com'om che torna alla perduta strada
Purg. I, 118-119

Se ciò non sempre si è visto tanto chiaro quanto si poteva, è stato forse per le difficoltà che la scena iniziale del poema ci ha poste dinanzi un po’ a tutti. Le cose qui sembrano trovarsi effettivamente in una sorta di penombra che in generale non predomina nel resto dell'opera, neanche nel buio dell'Inferno. Qui all'inizio, le cose allo stesso tempo sono e non sono ciò che sembrano, come nota il Croce, iniziando la sua lettura del poema. Ci muoviamo in una sorta di duplice visione. Solo che, osservando il fatto, Croce fa ciò che il lettore moderno è troppo spesso tentato di fare: attribuire a Dante la propria incapacità o il proprio rifiutarsi di avvezzar gli occhi a questa luce, e anzi dire che Dante all'inizio si troverebbe in un certo stento e mostrerebbe uno sforzo speciale nel dar avvio al poema. Ma lo stento e lo sforzo sono di Croce e del lettore moderno. Il poeta non aspira ad una visione singola (come, secondo una tarda scuola estetica, egli dovrebbe fare qualora intenda poetare). Il poeta invece volutamente conduce il lettore per entro una visione duplice, allo scopo di idealmente porlo su una scena che a buon diritto era per lui la più familiare possibile. Questo va detto per quanto riguarda quel paesaggio dell'inizio: non possiamo segnarne la sede su nessuna carta geografica. E quando siamo davanti la porta dell'Inferno e ci volgiamo indietro al luogo dove prima eravamo, se ci chiediamo dov'era quel luogo, ci accorgiamo di non poterlo dire con esattezza. Non possiamo dar collocazione precisa a quella prima scena. Ma ciò non è importante. Il fatto è che la scena fu predisposta per idealmente collocare noi lettori. Questo linguaggio di metafora (per quel che Dante poteva attendersi dai suoi lettori) non poteva essere più familiare, né queste figure retoriche più usitate. È questo, semplicemente, il cammino di nostra vita. E l'esclamazione di S. Agostino, secoli innanzi, a proposito di tale modo di espressione, avrebbe effettivamente denotato, anche ai suoi tempi, pcca sorpresa di novità. Eppure essa può aiutarci ad aguzzare lo sguardo:

Cui dicam, quomodo dicam de pondere cupiditatis in abruptam abyssum et de sublevatione caritatis per spiriturn tuum, qui superferebatur super aquas? cui dicam? quomodo dicam? neque enim loca sunt, quibus mergimur et emergimus. quid similius et quid dissimilius? affectus sunt, amores sunt, immunditia spiritus nostri defluens inferius amore curarum, et sanctitas tui attollens nos superius amore securitatis, ut sursum cor habeamus ad te, ubi spiritus tuus superferebatur super aquas, et veniamus ad supereminentem requiem, cum pertransierit anima nostra aquas, quae sunt sine substantia.

Abbiamo prima notato un rapporto di stretta corrispondenza fra la scena d'inizio e quella del I del Purgatorio. C'è dell'altro da osservare. Allorché Dante e Virgilio sono usciti a rivedere le stelle, sappiamo che si trovano non solo su quella che è la parte più bassa del pendio di un monte, ma su ciò che, per la stessa presenza dell'acqua, è anche una spiaggia. Ulisse, come il poeta a questo punto ci ricorda, aveva cercato prima di navigare per questo mare, e non era riuscito ad approdare là dove ora stanno Dante e Virgilio. Ora, in questo particolare di una «piaggia», potremmo dire, volgendoci indietro, che qui, almeno una corrispondenza manca fra le due scene. Ma a dir questo, mostriamo o di non esser lettori attenti del poema, 0 di esser corrivi dinanzi ai modi di un poema. Perché acqua nella prima scena c'è. Guardando giù dal Cielo, Santa Lucia l'aveva additata colà, mentre esortava Beatrice a osservare l'affanno del suo amico, sul tenebroso pendio, in lotta davanti alla Lupa:

...Beatrice, loda di Dio vera,
ché non soccorri quei che t'amò tanto
ch'usci per te della volgare schiera?

non odi tu la pièta del suo pianto?
non vedi tu la morte che 'l combatte
sulla fiumana ove 'l mar non ha vanto?
lnf. II, 103-108

I commentatori qui hanno qualche dubbio. Questa fiumana è l'Acheronte? O è una «mera» metafora? E che significa la frase appositiva «ove 'l mar non ha vanto»? I critici hanno i loro guai con il centro focale; e sarebbe opportuno, per alcuni di loro, un corso di lettura, in un linguaggio di metafora che vada da S. Agostino a S. Bernardo, un linguaggio sul quale il poeta aveva creduto di poter contare per «collocare» al giusto posto il lettore. No, questo non è l'Acheronte (né è una «mera» metafora, dal momento che Lucia può vedere questa fiumana e additarla dal Cielo). E se il mare non ha vanto su essa, è perché questo fiume non si versa in nessun mare. Il nostro sillabario di metafora conterrebbe un passo di Ugo da S. Vittore († 1141) sull'Arca:

...duos mundos esse intelligamus: visibilem, et invisibilem. Visibilem quidem hanc machinarn universitatis, quam corporeis oculos cernimus, invisibilem vero cor hominis quod videre non possumus. Et sicut in diebus Noe aquae diluvii universam terram operuerunt, sola autem arca aquis superferebatur, et non solum mergi non poterat, verum etiam quanto amplius aquae intumescebant, tanto altius in sublime elevabatur, ita et nunc intellìgamus in corde hominis concupiscentiam hujus mundi esse, quasi quasdam aquas diluvii; arcam vero, quae desuper ferebatur, fidem Christi, quae transitoriam delectationem calcat, et ad ea quae sursum sunt, aeterna bona anhelat. Ideo autem aquis concupiscentia hujus mundi cornparatur, quia fluxa est et lubrica, et ad similitudinem aquae deorsum currentis semper ima petit, suosque sequaces instabiles, et dissolutos reddit. Si intraverit homo ad cor suum, videre poterit quomodo semper et concupiscentia deorsum in ea quae transitoria sunt, defluat.

In un certo senso ci si potrebbe rammaricare che non cada, per così dire, un sipario alla fine del Canto l dell'Inferno, per dare ai primi due Canti quel contrassegno di prologo che infatti sono. Tale contrasse? servirebbe a fissare alcune fondamentali distinzioni riguardo al tempo e allo spazio del Poema, distinziors che devono essere capite se dobbiamo poterne se. gere la vera natura e il vero disegno dell’allegoria. Proprio li, a quel punto, un certo qual accorgimento ci aiuterebbe a comprendere che nella scena del prologo noi siamo «collocati» sul palcoscenico di questa vita; che su questo primo palcoscenico possiamo parlare dell'attore o degli attori in prima persona plurale, come «noi», anche come il poema stesso suggerisce col primo suo aggettivo possessivo. Questo è il cammino di nostra vita, la vita dell'anima; questa è la nostra condizione. Dovrebbe essere la scena che meglio conosciamo, la più familiare scena che esista al mondo: e che esista nel poema. Qui si trova il cammino di nostra vita. Gli aspetti suoi, le cose che qui possiamo individuare: un colle, una selva, queste fiere, tutto ha la sua esistenza là dove scorre la «fiumana» che Lucia scorge dal Cielo. Dove essa si trovi, S. Agostino e Ugo ci hanno aiutati a vedere. Qui noi ci troviamo in luogo che non occupa spazio. Allora: giù la tela; per alzarsi di nuovo sul primo atto di questa rappresentazione, su una scena che si svolga dinanzi all'ingresso che mena all'Inferno, che è un abisso che occupa spazio e che sulla carta geografica di Dante può venir individuato. Il cambiamento di scena non è soltanto un cambiamento di luogo. È cambiato il tempo, perché noi non dimentichiamo che questo è un viaggio ricordato (e perciò non può essere veramente reso in forma drammatica). L'uomo che era andato per quella via è ora tornato. Il suo viaggio fu là e allora. E il tempo anche in un altro senso è cambiato. Parlando della scena e del viaggio che sono nel prologo potremmo dire «la nostra vita». Non così al di là della porta. Il viaggio al di là è un avvenimento troppo eccezionale perché possa recare altro se non un possessivo singolare. Fu allora, e là, e fu il suo viaggio. Invece nel prologo (anche se il tempo è passato), in quanto lo vediamo come il «nostro» viaggio, esso ha luogo rispetto al tempo, in una sorta di presente sempre rinnovellantesi, con Ognuno come, attore.
Senonché, abbiamo appena immaginato un sipario a questo punto, e già più non vogliamo che vi sia. Esso potrebbe aiutarci a fare certe distinzioni essenziali. Ma il poeta lì non ha voluto nessuna siffatta soluzione di continuità, quale potrebbe suggerirla quel sipario. Il suo problema non era l'agostiniano «come descrivere in immagini concrete i moti dell'anima». Al poeta è già dato il suo linguaggio, ed egli l'usa con fiducia piena. Il problema è per lui come lasciar questa scena, che è scena che non occupa spazio, e raggiungere quella scena che occupa luogo; trasferire un viandante da questa scena, dove egli agisce in un modo aperto ad un plurale «noi», ad una scena e ad un viaggio ove la sua parte è del tutto individuale, singolare. Il «nostro» viaggio deve diventare il «suo» viaggio: «suo» deve venir fuori da «nostro». Da un luogo che non occupa spazio deve esser avviato un viaggio letterale e molto reale di un uomo vivo, di un uomo che è in un corpo di carne e di ossa. Un sipario non può giovare; in realtà danneggia soltanto. Solo muovendosi all'interno dell'ambiguità poetica spinta al massimo grado si può realizzare in tali termini una organica transizione. Ma non è tutto. Il viaggio verso la scena di cui possiamo dire «allora» e «là» e «suo» se ne lascerà dietro un altro di cui possiamo parlare in termini di «qui» e «ora» e «nostro»; che possiamo lasciare, senza tuttavia perdere con esso contatto. Perché il suo viaggio al di là rimarrà potenzialmente aperto al nostro viaggio qui, fra i due vi sarà un ponte non tagliato da alcun frangente, un vincolo organico, un vivo continuo tornare alla metafora.

Anche nel prologo, nel «nostro viaggio», ha luogo il nascere di un senso letterale, «il suo viaggio». Non molto dopo il primo verso del poema possiamo infatti vederne l'inizio. È parte essenziale del necessario lavoro qui raggiunto nell'ambiguità poetica il fatto che la scena del prologo, anche mentre dà a noi la nostra collocazione, dia poi a lui l'avvio:

Allor fu la paura un poco queta
che nel lago del cor m'era durata
la notte ch'i' passai con tanta pièta.

E come quei che con lena affannata
uscito fuor del pelago alla riva
si volge all'acqua perigliosa e guata,

così l'animo mio, ch'ancor fuggiva,
si volse a retro a rimirar lo passo
che non lasciò già mai persona viva.

Poi ch'èi posato un poco il corpo lasso,
ripresi via per la piaggia diserta...
lnf. I, 19-29

Passando per i versi che precedono la similitudine, ci muoviamo nella già nota terminologia del prologo. Qui il movimento è moto spiritale e la similitudine fa proseguire l'azione nella sua qualità. Con il pelago del suo primo termine, si ammira come la figura retorica faccia uso del lago del cor che immediatamente precede. E con l'animo che fugge e poi si volge, il paragone è svolto in un modo commensurato alla scena del prologo. «Così l'animo mio», moto spiritale. E qui tutto scorre perfettamente.
E tutto è tanto perfetto, che forse manchiamo di notare la straordinaria tecnica poetica dei due versi che immediatamente seguono: «Poi ch'èi posato un poco il corpo lasso...» Un corpo qui? Come? Questo corpo, va preso come il colle e gli altri particolari di questa scena, va compreso come abbiamo imparato a comprendere quelle cose? Abbiamo qui iniziata un'altra metafora? No. Questo corpo non è metaforico. Mentre esso vien fuori, una curiosa biforcazione ha luogo. Nasce un duplice viaggio. La figura che vediamo qui ora, presente col suo corpo su questa «piaggia», comincia a muoversi (prima che lo sappiamo) verso una porta d'Inferno che non è metaforica, e verso un viaggio che parimente non è metaforico. Sottile è la tecnica poetica. Notiamo che, per mezzo di tale figura, una «piaggia» (che significa tanto «spiaggia» che «pendio») è qui posta, la quale più tardi nella scena d'inizio del Purgatorio troverà il suo corrispondente, così come lo troverà l'azione dell'emergere dal pelago per giungere su una spiaggia. Ma di ciò basti. Vorrei notare soltanto che accettiamo questa nuova cosa, questo corpo sulla scena, poiché è un corpo stanco, anche se, o piuttosto forse perché, non ci soffermiamo a domandarci: come o perché dovrebbe essere stanco? Se ce lo domandiamo, vi è evidentemente una sola risposta (e se la eludiamo, confessiamo la nostra incapacità a prendere atto di un caratteristico modo del poeta, quello di realizzare tale misteriosa incarnazione all'interno della scena). Il corpo è stanco per la fatica sostenuta per uscir dal pelago! Ma il pelago, ma quell'acqua, non è affatto li sulla scena in realtà, è solo parte di un paragone, è solo nel primo termine di una similitudine. Non importa. Questo corpo è stanco per la fatica sostenuta per uscir da quell'acqua; e quando si muove su per la diserta piaggia, non può più venir richiamato o ricondotto a metafora. Ci muoviamo ora al di là di una condizione imposta da parole. Se, nella grammatica della retorica, avessimo qualche termine per definir ciò, qualche termine, mettiamo, che corrispondesse ad un verbo trasumanare come poi nel Paradiso questo si applica ad un altro «andare al di là», qui ci sarebbe davvero utile.
L'intero viaggio al di là esorbita dalla metafora. Esso non è riducibile a quella specie di allegoria in cui ebbe origine. Mentre questa figura di un uomo vivo, questa persona intera d'anima e di corpo, supera la soglia dell'Inferno, il poema si lascia dietro la familiare duplice visione con cui era iniziato, per venire ad una singola ed assai singolare visione, cioè ad un singolo viaggio; ad una visione «incarnata», concreta e persuasiva in un modo non prevedibile da un tale inizio. Si svolge colà, oltre il prologo, la linea di un viaggio letterale dato come reale, ed è il corpo al di là, la carne portata in quei regni dello spirito, che come un catalizzatore fa precipitare per ogni dove le cose della carne, le cose che sono corpo, le cose incarnate. I piedi di quest'uomo su un pendio che scende verso un fiume di sangue, smuovono le pietre, si che un centauro che colà è di guardia prende una freccia dalla faretra e con essa si sospinge la barba indietro, per esprimere la sua meraviglia. Quest'uomo deve esser trasportato attraverso il fiume (poiché esso bolle) da un altro centauro, «ché non è spirto che per l'aria vada». Le cose vedute e toccate diventano ciò che occhi viventi possono vedere e mani viventi toccare. Trattando l'ombre come cosa salda. Il suo piede urta contro il gelato viso di un peccatore profondamente confitto nel ghiaccio di Cocito, le sue mani strappano ciocche di capelli dal capo del dannato. Questo fiorentino può accompagnarsi ad un altro fiorentino sotto una pioggia di fuoco e parlare (quanto al tono) come se ciò accadesse tuttora a Firenze. La sua loquela lo farà manifesto ad altri concittadini. Il suo trisavolo gioisce alla sua venuta. Il particolare, l'individuale, il concreto, la carne, la persona incarnata, è dovunque con la forza della realtà e l'irriducibilità della realtà stessa. Qui c'è visione veramente fattasi carne. E che ciò accadesse, fu reso possibile già dal prologo. Non riusciremo, con tutto il nostro serrato esame, ad esaurirne il mistero.
Ed è per questo che non abbiamo mai prima conosciuta una allegoria come quella di Dante. Perché in questo poema la persona corporea, il reale e il letterale, il viaggio irriducibile, il «suo» viaggio aldilà, di volta in volta richiameranno quell'altro viaggio dove la scena del prologo ci collocò, il nostro viaggio qui. E ciò faranno, non con l'invitarci a «disfare» il viaggio di là, non col permetterci di guardare attraverso l'avvenimento di là come se non avesse nessun valore, non con lo sbiadirne o attenuarne il senso letterale; ma per mezzo di una specie di richiamo più comune alla struttura musicale, per cui un tema, conosciuto in un preludio, ma in seguito tralasciato, riaffiora entro un altro tema nel progressivo sviluppo. Non vi è alcuna allegoria letterale da paragonare a questa. Rifarsi, come si usa, a Bunyan e al Romanzo della Rosa, è un mettersi del tutto fuori strada. Abbiamo, se si vuole, Bunyan nella scena del prologo. Ma al di là del prologo (siamo costretti a paragoni disperati) abbiamo Milton. Abbiamo, cioè, sicuramente un'azione che, per forza di senso letterale e di senso storico, equivale almeno a quella di Milton. Questi avvenimenti sono quello che sono, queste cose accaddero: là, allora, una volta nel tempo. Così dovremmo porre insieme Bunyan e Milton (ci si perdoni la violenza di questa nostra audacia!) per aver Dante. Ma anche questo composto non ancora ci darebbe l'allegoria di Dante. Per averla, il senso storico di Milton, in certi luoghi particolari, dovrebbe schiudersi a Bunyan, richiamare e riflettere il Pilgrim's Progress con cui avremmo cominciato. Come ciò avvenga, l'abbiamo visto nella Commedia. E meglio che altrove lo vediamo là, perché infatti in nessun altro luogo lo si vede, se non dove un poeta ha saputo realizzare queste cose in vivente struttura.

In nessun altro luogo. Ma se vogliamo prenderci il fastidio di ricordare una specie di allegoria che abbiamo più o meno dimenticata, saremo aiutati a scorgere meglio come Dante abbia costruita la sua. È questa l'allegoria della Sacra Scrittura. Possiamo ben sentirci autorizzati a rivolgerci ad essa. Dante, nella Epistola a Cangrande, cita dal Salmo 113 (Vulgata) il ben noto esempio, e dà il tradizionale giudizio:

... nam primus sensus est qui habetur per Iitterarn, alius est qui habetur per significata per litteram. Et primus dicitur litteralis, secundus vero allegoricus sive moralis sive anagogicus. Qui modus tractandi, ut melius pateat, potest considerari in hiis versibus: «In exitu Israel de Egipto, domus Iacob de populo barbaro, facta est Iudea sanctificatio eius, Israel potestas eius». Nam si ad litteram solam inspiciamus, significatur nobis exitus filiorum Israel de Egipto, tempore Moysis; si ad allegoriam, nobis significatur nostra redemptio facta per Christum; si ad moralem sensum, signifìcatur nobis conversio anime de luctu et miseria peccati ad statum gratie; si ad anagogicum, significatur exitus anime sancte ab huius corruptionis servitute ad eterne glorie libertatem. Et quanquam isti sensus mistici variis appellentur nominibus, generaliter omnes dici possunt allegorici, curo sint a litterali sive historiali diversi.

Nel Convivio Dante parla di tale specie di allegoria per distinguerla da un'altra che là egli chiama «allegoria dei poeti». Per mezzo della differenza fra le due possiamo meglio scorgere gli aspetti essenziali dell'allegoria scritturale. La differenza fondamentale consiste nella natura del senso letterale dell'una e dell'altra. Nell'«allegoria dei poeti», che è quella della favola, della parabola (e quindi si può anche trovare nelle Scritture), il senso primo e letterale è inventato, rappresentato (fictio nel suo senso originario) allo scopo di nascondere, e nascondendo esprimere, una verità. Non così nell'altra, come vediamo dall'esempio citato. Colà il primo senso è storico, come dice Dante, e non è «fictio», invenzione. I figli di Israele effettivamente partirono dall'Egitto al tempo di Mosé. Quali che siano gli altri sensi, questo primo senso rimane, è per sé stante, e non è fittizio. In effetti generalmente si riconosceva che nella Sacra Scrittura il senso storico a volte poteva essere il solo senso. Queste cose sono state così: sono accadute nel tempo. Questa ne è la cronaca. Se per Dante il modello di allegoria da lui costruita nella Commedia va qui veduto in questa concezione di allegoria scritturale (ed io ne sono persuaso), allora l'importanza estrema di questo sta non tanto in quel che tal fatto significa riguardo al suo secondo o mistico senso, quanto in quel che dice del primo e letterale senso. Perché si vede subito che la natura del senso letterale nel modello può confermare la nostra comprensione del senso letterale nella Commedia: cioè che nel poema, come nel modo dell'allegoria scritturale, il senso letterale è dato come un senso storico per sé stante, come quello di Milton, diciamo; non inventato allo scopo di esprimere una verità nascosta, ma dato nel centro focale di una singola visione.
Poi, mentre guardiamo agli altri sensi di allegoria scritturale, ci si fa chiaro come Dante ha qui costruito secondo il suo modello. Nella Scrittura, come abbiamo notato, il senso storico, conservando la sua piena forza in quanto tale, può rendere e rende un altro senso. Può far questo, e in effetti lo fa, di tanto in tanto. E si noti la natura del secondo senso nel modello. L'Esodo, come avviene là, suggerisce e significa un altro evento; nel viaggio di là vediamo dei sensi che ci fanno pensare al nostro viaggio di qui. Tutti gli «altri» sensi nell'esempio dell'Esodo hanno in comune il nostro viaggio, il moto dell'anima sul cammino della salvezza. Dante ha seguito da vicino il suo modello.
Quando l'altro senso è là nella Scrittura, vi è semplicemente perché così volutovi da Dio. Perciò furono tutti d'accordo sul fatto che solo Dio potesse scrivere usando questo tipo di allegoria, in cui l'avvenimento significato dalle parole a sua volta significa l'«altro» senso, e che solo Dio potesse usare gli avvenimenti come parole, facendo sì che significassero oltre loro stessi, che solo Egli potesse far sì che l'Esodo nella storia (l'evento reale) significasse il nostro viaggio in terra. E questo è naturalmente come dovrebbe essere. La Parola di Dio ci fu data per la nostra salvezza; è giusto che gli avvenimenti quivi ricordati debbano di volta in volta additare a quell'argomento. Vi è poi anche questo da dire: la Parola di Dio può contare sul fedele lettore che vi leggerà la propria salvezza, col pensiero sempre rivolto al nostro viaggio terreno, mentre legge un Salmo dell'Esodo.
Un poeta non ha il potere di Dio e non può presumere di scrivere come Egli può scrivere. Ma egli può imitare il modo con cui Dio scrive. Egli può costruire un senso storico letterale, un viaggio al di là (esso pure finisce per essere un Esodo!) che sia, nella finzione del suo poema, come è il senso letterale di Dio nel Suo libro (e con l'aiuto di Dio egli avrà il potere di renderlo reale). Ed egli il suo «altro» senso lo renderà allegorico o mistico, persino come quello di Dio: un senso riguardante il nostro viaggio, il nostro cammino di salvezza, qui in questa vita. Ma vi sarà ancora una lacuna da colmare. Il poeta si trova in svantaggio. Egli non può presupporre che il lettore verso la sua opera assuma quell' atteggiamento che certamente avrebbe assunto verso l'opera di Dio: l'occhio del fedele è sempre preoccupato del nostro viaggio terreno. Un poeta deve prendere le proprie precauzioni, mentre la parola di Dio non ne ha bisogno. Questo il poeta farà disponendo il proprio poema in modo che il suo lettore giunga al senso letterale prima passando per quello che sarà il secondo riflesso senso; in modo che il nostro viaggio terreno possa allora venir richiamato e riflesso lungo lo schema di un viaggio al di là. Il poeta vi provvederà in un modo speciale; con un prologo, si che il viaggio venga riflesso dove, per entro il poema e in forma viva, egli possa controllarne l'immagine.

Date: 2021-12-22