Allegoria e linguaggio dell’ineffabilità nell’autoesegesi dantesca dell’Epistola a Cangrande – [Francesco Zambon]

Dati bibliografici

Autore: Francesco Zambon

Tratto da: Romanzo e allegoria nel Medioevo

Editore: La Finestra, Lavis

Anno: 2000

Pagine: 35-44

Si può dire che il punto di partenza di uno dei filoni più importanti e «rivoluzionari» della moderna critica dantesca - quello che ha in Auerbach e Singleton i suoi rappresentanti di maggiore spicco - stia proprio in alcuni spunti autoesegetici del Convivio e soprattutto dell'Epistola a Cangrande . Uno dei suoi presupposti fondamentali è infatti l'applicabilità alla Commedia della tradizionale quadripartizione dei sensi della Bibbia; letterale, allegorico, morale e anagogico. Non del tutto risolto rimane tuttavia, in questa prospettiva ermeneutica, il problema della distinzione fra allegoria dei teologi e allegoria dei poeti che Dante formula esplicitamente nel Convivio; qui infatti il secondo senso - quello allegorico - è definito come «quello che si nasconde sotto 'l manto di queste favole [cioè le favole de li poeti], ed è una veritade ascosa sotto bella menzogna: sì come quando dice Ovidio che Orfeo facea con la cetera mansuete le fiere, e li arbori e le pietre a sé muovere» ecc. Dopo aver distinto da questa l'allegoria dei teologi, Dante dichiara apertamente: «Però che mia intenzione è qui lo modo de li poeti seguitare, prendo lo senso allegorico secondo che per li poeti è usato» . La difficoltà principale è data, per così dire, dal contraccolpo che questa definizione dell'allegoria provoca su quella del senso letterale; secondo il modello cristiano il senso letterale, spesso chiamato anche storico, comporta una realtà concreta, storica appunto: quella, in specie, dei fatti narrati nel Vecchio Testamento e considerati come tipi o figure della rivelazione neotestamentaria. Completamente diverso è lo statuto della lettera in quella che Dante chiama allegoria dei poeti: qui infatti - e lo stesso Dante ne è pienamente consapevole - il senso letterale è pura fictio, è soltanto una fabula, una «bella menzogna» sotto la quale si nasconde una verità.
È facile immaginare quale portata avrebbe l'applicazione di un simile modello ermeneutico alla Commedia: la narrazione del viaggio compiuto da Dante nei tre regni dell'Aldilà dovrebbe essere considerata non come il resoconto di un viaggio reale, ma come una bella favola sotto la quale il lettore è invitato a cercare il significato allegorico. Alcuni fra gli esponenti della tendenza critica prima ricordata hanno ritenuto di poter aggirare la difficoltà sostenendo che lo schema da applicare alla Commedia è quello dell'Epistola a Cangrande, dove si parla esclusivamente di allegoria in senso teologico, mentre il discorso relativo all'allegoria dei poeti non sarebbe valido che all'interno del Convivio. Scrive per esempio Robert Hollander: «La Divina Commedia, ci informa la lettera [a Cangrande], va compresa per mezzo delle tecniche allegoriche che sono specificamente e unicamente cristiane, non, come il Convivio, attraverso l'allegoria dei poeti» . L'affermazione sembra a prima vista ragionevole, ma essa comporta senza dubbio una eccessiva semplificazione della complessa strategia autoesegetica di Dante; non si può dimenticare, del resto, che la stessa Epistola a Cangrande definisce la forma siue modus tractandi del poema come poeticus e fictiuus. rn realtà, si direbbe che nell'Epistola il problema della fictio, dell'allegoria dei poeti, che Dante sembrava aver abbandonato dopo il Convivio, si scorpori dal discorso sui quattro sensi e si ripresenti dissimulatamente, ma con eccezionale rilievo teorico, nella finale autoesegesi del primo canto del Paradiso, dedicata essenzialmente al tema dell'ineffabilità. Su questo tema sono state svolte recentemente utili indagini, in particolare, da Angelo Jacomuzzi e Manuela Colombo ; ma quasi del tutto in ombra è rimasto il suo rapporto con la riflessione dantesca sul quadruplice senso della Scrittura. Eppure dovrebbe essere evidente che il discorso sul limite del linguaggio (nella Commedia come nell'Epistola a Cangrande) si situa precisamente all'interno del problema del linguaggio. allegorico, cioè di quel genere di linguaggio che tende verso il proprio superamento, che - secondo l'etimologia ricordata dallo stesso Dante nell'Epistola - aspira a dire qualcosa di diverso da ciò che dice, qualcosa di allenum, di altro .
Al paragrafo 28 dell'Epistola Dante si riferisce ai famosi vv. 4-9 del I canto del Paradiso:

Nel ciel che più de la sua luce prende
fu' io, e vidi cose che ridire
né sa né può chi di là su discende;

perché appressando sé al suo disire,
nostro intelletto si profonda tanto,
che dietro la memoria non può ire.

E commenta:

[Il poeta] prosegue dicendo che «vide cose che ridire non può chi ne discende», E ne spiega la ragione dicendo «che l'intelletto si profonda tanto nel suo disire», cioè Dio, «che seguirlo la memoria non può». Per capire questo bisogna notare che l'umano intelletto in questa vita, a cagione dell'affinità naturale che ha con la sostanza intellettuale separata, quando s'eleva, s'eleva a tal punto, che la memoria, dopo il ritorno, vien meno per aver essa trasceso il limite concesso all'uomo .

Segue una serie di esempi biblici - vetero e neotestamentari - di uomini che superarono questo limite: il primo e più significativo di questi esempi è naturalmente quello di Paolo, che fu rapito al terzo cielo «e vide gli arcani di Dio, che non è lecito ad uomo di proferire» .
Continua poi Dante:

Vide dunque il poeta «cose che riferire non sa e non può ritornando di lì». E si osservi attentamente il fatto che dice «non sa e non può»: «non sa» perché se n'è dimenticato, «non può» perché, se ricorda e conserva la memoria del contenuto, «la lingua però vien meno per lo nostro sermone». Infatti attraverso il nostro intelletto vediamo molte cose per le quali mancano le espressioni verbali: il che a sufficienza dimostra Platone nelle sue opere quando si serve delle metafore (metaphorismorum); vide infatti attraverso la luce intellettuale molte cose che «nel sermone proprio» non poté esprimere .

È abbastanza chiaro in quale modo il problema dell'ineffabile, della non esprimibilità di esperienze che eccedono il limite umano, si articoli qui con quello del linguaggio allegorico: come ha osservato la Colombo, «l'indicibile "metafisico" è recuperato alla lingua nella misura in cui vengano superate le angustie di un linguaggio quotidiano e "naturale"» . Ma l'allegorismo cui Dante allude in questo passo non è certamente quello in factis della tradizione cristiana: al sermone proprio che non è in grado di esprimere le cose viste con la luce dell'intelletto vengono infatti contrapposti i metaphorismi di Platone.
Il riferimento a Platone è estremamente significativo. I simboli e i miti platonici erano infatti considerati da tutta una corrente del pensiero medioevale fra gli esempi più illustri di quella allegoria poetica o filosofica che nasconde la verità sotto un velo di belle menzogne, Ad essi si riferisce per esempio Bernardo· Silvestre - un autore che Dante probabilmente conosceva - nel prologo del suo Commento a Marziano Capella: «Anche Platone, dopo aver parlato senza veli del mondo corporeo, essendo arrivato all'anima, dice, in forma figurata, che il numero ne è la materia. E, pur parlando esplicitamente delle stelle, quando si accinge a parlare misticamente degli spiriti si volge all'involucro, e dice che Oceano e Teti sono figli del cielo e della terra» . Il riferimento è tanto più significativo in quanto rappresenta una delle esemplificazioni addotte da Bernardo del concetto di integumentum (cioè «invclucro»), concetto che egli distingue da quello di allegoria in termini che corrispondono esattamente alla distinzione dantesca fra allegoria dei poeti e allegoria dei filosofi. Scrive Bernardo Silvestre:

l'allegoria è una forma espressiva che, in forma di narrazione storica, cela una verità diversa da quella che si comprende esteriormente, come, per esempio, la lotta di Giacobbe [Ge 31,23-33]. L'integumento, invece, è una forma espressiva che, in forma di narrazione favolosa, racchiude una verità comprensibile, come, per esempio, a proposito di Orfeo: là, infatti, una notizia storica, e qui una favola tengono nascosto un mistero […]. L'allegoria riguarda la pagina divina, l'integumento la filosofia .

Nel rivendicare il significato simbolico della narratio fabulosa, Bernardo si rifà a sua volta alle pagine iniziali del Commento al Sogno di Scipione di Macrobio, dove lo scrittore latino difende dai detrattori, insieme, il mito platonico di Er e lo stesso Sogno di Scipione: «La scienza delle cose sacre viene enunciata - egli scrive - sotto il velo devoto dell'allegoria, ricoperta da fatti degni e rivestita da parole pure degne, e questo è l'unico genere di fantasia che può essere ammesso dal rispetto per le cose divine, che è proprio di chi fa professione di filosofia» . Il mito di Er qui considerato come esempio di «fantasia» (figmentum: è precisamente la fictio a essere qui in gioco) che veicola una scienza sacra consiste, è bene ricordarlo, nel racconto di una discesa nell'Ade nel corso della quale il protagonista può osservare i castighi inflitti alle anime dei morti: uno dei precedenti classici del viaggio dantesco. E al possibile significato simbolico di un testo platonico (il Timeo) anche Dante allude nel IX canto del Paradiso. Spiegando al poeta perché le anime dei beati, che in realtà dimorano tutte nell'empireo, gli appaiano suddivise nei vari cieli, Beatrice dichiara che così bisogna parlare a chi, come l'uomo, trae dai sensi tutte le proprie conoscenze; non diversamente fece la Scrittura attribuendo mani e piedi a Dio (vv. 40-45):

Così parlar conviensi al vostro ingegno,
però che solo da sensato apprende
ciò che fa poscia d'intelletto degno.

Per questo la Scrittura condescende
a vostra facultate, e piedi e mano
attribuisce a Dio e altro intende.

Lo stesso procedimento, aggiunge Beatrice subito dopo, sembra usare anche Platone quando parla del destino delle anime nel Timeo; apparentemente la sua dottrina non corrisponde «a ciò che qui si vede», ma è più probabile - ella dice - che si debba interpretarla in senso allegorico (w. 55-57):

... e forse sua sentenza è d'altra guisa
che la voce non suona, ed esser puote
con intenzion da non esser derisa.

Sono parole che riecheggiano chiaramente quelle con le quali Macrobio aveva difeso il mito di Er e il Sogno di Scipione contro coloro che ne irridevano il carattere favoloso. Giustamente Pépin ha ricollegato questo passo al discorso dantesco sull’allegoria; ma ne ha visto solo in parte le implicazioni ermeneutiche. Usando il verbo parlar («Così parlar conviensi al vostro ingegno») per indicare il modo in cui le anime dei beati appaiono ripartite nei diversi cieli ed equiparando questa visione alle immagini antropomorfiche di cui si serve la Bibbia per rappresentare Dio, Dante sembra voler ridurre l'architettura stessa del Paradiso, la forma della visione paradisiaca, a una finzione letteraria che si adatta alla comprensione e al linguaggio umano, a una fabulosa narratio che altro intende, la cui sentenza - come nel mito platonico - «è d'altra guisa/che la voce non suona». Come ha osservato Dronke, «l'architettura del paradiso di Dante è un integumentun esattamente nello stesso senso in cui i platonici medievali lo concepivano a proposito del Timeo» . Non basta perciò parlare di semplice allegoria: l'allegoria in questione nel quarto canto del Paradiso come quella cui allude il passo della Epistola a Cangrande sulle metafore di Platone (e che si lega quindi al tema dell'ineffabilità) non è l'allegoria cristiana, l'allegoria in factis, ma quella dei poeti o dei filosofi, quell'allegoria in verbis che non ha nulla di storico ma è soltanto artificio del linguaggio, pure metafora, pura fictio. Ed è proprio questo il tipo di allegoria che si apre al discorso sull'ineffabile, cioè sulla natura assolutamente indicibile, superiore a ogni linguaggio, del subiectum trattato: l'allegoria in verbis, l'allegoria retorica che si situa sul piano del puro artificio verbale, rappresenta il limite estremo del linguaggio umano, la pellicola più sottile che si frappone tra noi e le realtà supreme, quel genere di espressione che fa segno di ciò che è inesprimibile.
Che il riconoscimento della fondamentale ineffabilità della visione narrata, della sua radicale alterità rispetto ai limiti di qualsiasi linguaggio, anche di quello allegorico, sì innesti precisamente su una riflessione intorno all'allegoria dei poeti - è quanto confermano i versi del primo canto del Paradiso che fanno immediatamente seguito a quelli citati in precedenza e nei quali è descritto il rapimento estatico, il trasumanar di Dante nella contemplazione di Beatrice (vv. 67-72):

Nel suo aspetto tal dentro mi fei,
qual si fé Glauco nel gustar de l'erba
che 'l fé consono in mar de li altri dèi.

Trasumanar significar per verba
non si poria; però l'essemplo basti
a cui esperienza grazia serba.

Dietro questi versi si intravede in filigrana la dottrina esposta da Macrobio nella pagina già citata del Commento al Sogno di Scipione. Dopo aver difeso le narrazioni favolose attraverso le quali i filosofi enunciano dottrine sacre sub pio figmentorum velamine, Io scrittore infatti così prosegue:

Si deve tuttavia sapere che i filosofi non ammettono elementi favolosi in ogni trattazione, per quanto leciti essi siano, ma sono soliti ricorrervi quando parlano dell'anima o delle potestà aeree ed eteree o di tutti gli altri dei. Invece, quando la trattazione osa sollevarsi al dio sommo [...] o alla mente [...], non spingono per nulla fino in fondo l'elemento fittizio ma, se tentano di esprimere qualcosa su tali temi che trascenda non soltanto il linguaggio ma persino il pensiero umano, ripiegano su similitudini ad esempi (ad similitudines et exempla confugiunt)

«Però l'essemplo basti», dice Dante: per rappresentare il suo trasumanar, il superamento di ogni limite umano, egli si accontenta di evocare l'exemplum di Glauco, il mitico pescatore che, dopo aver mangiato un'erba miracolosa, fu trasformato in divinità marina. In Macrobio, I' exemplum o la similitudo costituiscono il limite estremo del linguaggio che, abbandonato il piano della fabula, della fictio, tenta di esprimere qualcosa «che trascenda non soltanto il linguaggio ma persino il pensiero umano»: il «né sa né può» del v. 6 commentato nella Epistola a Cangrande, cioè il venir meno della memoria e del linguaggio davanti all'eccesso della visione. La soglia attraverso la quale il linguaggio umano si sporge oltre il suo limite è costituita da quel discorso figurato o metaforico, da quella allegoria dei poeti che ha perfettamente coscienza del proprio essere puro artificio e pura finzione: è questo l'ultimo sottile velame, l'ultima vagina della quale - come Marsia scorticato dal dio Apollo - bisogna svestirsi per accedete alla contemplazione delle realtà divine. Ma, nello stesso tempo, è questa anche la forma allegorica che, essendo consapevole della propria natura fittizia, esprime nel modo più netto la sua inadeguatezza a rappresentare il formidabile subiectum della visione paradisiaca; ed è quindi il luogo preciso in cui si pone il problema del limite invalicabile del linguaggio umano e si apre il discorso sull'ineffabile.
Assegnando un tale posto strategico e una tale funzione all'allegoria puramente retorica o in verbis, Dante si colloca di fatto sulla scia della teorizzazione eriugeniana, poi ripresa anche dai Vittorini (in particolare da Riccardo, che Dante aveva certamente letto), intorno ai rapporti fra allegoria facti e allegoria dicti - in radicale antitesi a quella tomista, che include la seconda nell'àmbito del sensus litteralis e ne esclude categoricamente ogni valore spirituale . Per Giovanni Scoto, l'allegoria puramente verbale, priva di ogni referente storico – e identificata al simbolo dionisiano - è quella che ci introduce alla contemplazione delle realtà celesti, «alla teologia, che eccede ogni pensiero e ogni intelligenza» . Così in Dante è l'allegoria dei poeti, è la metafora o l'esempio a far segno della suprema visione - di quella visione che resta, nella sua essenza, ineffabile. Del resto, è lo stesso Eriugena a paragonare nelle sue Esposizioni sulla Gerarchia Celeste, ben prima di Petrarca e di Boccaccio, la theologia all'ars poetica: «Come l'arte poetica - egli scrive - espone, a esercitazione degli animi umani, una dottrina morale o fisica per mezzo di finzioni favolose e di similitudini allegoriche (per fictas fabulas allegoricasque similitudines) [...], cosi la teologia, come una specie di poesia, adatta la Sacra Scrittura, per mezzo di immagini fittizie (fictis imaginationibus), alla cura della nostra anima e alla riconduzione dai sensi corporei ed esterni, come da una imperfetta puerizia, alla perfetta conoscenza delle realtà intelligibili, come alla maturità dell'uomo interiore» .
Non si tratta, ovviamente, di negare l'applicabilità alla Commedia dello schema allegorico dei quattro sensi illustrato dallo stesso Dante, né di respingere le interpretazioni figurali o tipologiche che ad esso si rifanno: è chiaro che Dante, nella sua fictio, ha voluto attribuire al senso letterale del suo poema (il viaggio ultraterreno) una realtà paragonabile a quella della Sacra Scrittura e suscettibile di una analoga polisemia. Ma tale schema ha validità, per così dire, solo all'interno della fictio, di un racconto che non può comunque uscire dai limiti del linguaggio e della letteratura. Carattere essenziale della visio dantesca è invece la sua irriducibilità al linguaggio e allo stesso pensiero umano, il suo collocarsi in una dimensione che nessuna allegoria potrebbe mai esprimere. E questo limite della forma allegorica, questa sua costitutiva insufficienza a significare il trascendente (che è poi quella del linguaggio tout court) si evidenziano non tanto nell'allegoria teologica - che rinvia semplicemente da un ordine di significati a un altro, parimenti effabile - ma proprio in quella poetica o retorica che, implicando strutturalmente la sua natura puramente linguistica, la sua natura di fictio, non può che segnare una frattura abissale tra espressione e oggetto del discorso, fra forma tractandi e subiectum. E perciò questa seconda forma di allegoria a condurre verso quel superamento dello stesso discorso allegorico che si realizza nei momenti più «astratti» del Paradiso e che ha la sua esplicitazione teorica nella parte finale dell'Epistola a Cangrande. Qui lo stesso discorso autoesegetico, incentrato sul modello allegorico, si impone il silenzio.
Quell'allegoria dei poeti che, dopo il Convivio, sembrava sparita dalla teorizzazione dantesca a beneficio dell'allegoria dei teologi si rivela dunque in realtà come il grado conoscitivameme più elevato del linguaggio umano. Nonché ridursi a una semplice varietà o movimento del sensus litteralis, come voleva san Tommaso, essa diventa nella prospettiva dantesca la cornice stessa entro la quale si dispone la stratificazione dei sensi teologici e il luogo in cui si dice, si rivela apertamente la loro insufficienza espressiva, il luogo in cui la fictio si presenta come fictio. Ciò non significa che la sublime visione della Commedia si degradi al rango di una semplice invenzione poetica, di una favola illusoria che ha in se stessa il proprio senso e il proprio fine. Non si tratta di una riduzione della teologia alla poesia, ma di una promozione della poesia a teologia. L'allegoria poetica di Dante beneficia di uno statuto analogo a quello che Giovanni Scoto Eriugena assegna all'allegoria dicti quando la identifica al simbolo dionisiano e ne rovescia in tal modo il tradizionale rapporto gerarchico con l'allegoria facti: proprio perché dichiara apertamente la propria insufficienza e la propria inadeguatezza a dire le realtà divine, essa contiene una verità cui l'allegoria tipologica non può assolutamente aspirare. Risalendo più lontano, essa sembra avvicinarsi, come voleva Singleton, al mito platonico, a quei metaphorismi e a quei racconti la cui sentenza è «à' altra guisa/che la voce non suona» e ai quali lo stesso Dance rinvia esplicitamente .

Date: 2021-12-22